di Maurizio Musolino, del Comitato Centrale PCI, giornalista, già direttore del settimanale ‘La Rinascita’, esperto di Medio Oriente
Non vedo, non sento e non parlo. E’ il riassunto, neanche troppo forzato, dell’atteggiamento dell’informazione verso quanto accade nel mondo a causa del dilagare del fondamentalismo e delle pratiche terroriste. Un terrorismo diffuso, fatto di attentati drammatici, ma anche di non meno crudeli atteggiamenti di prevaricazione e di violenza quotidiana. Le bombe a Baghdad e gli attacchi ai centri storici delle città europee non sono cosa diversa della violenza che quotidianamente patisce il popolo palestinese, sotto occupazione da oltre mezzo secolo per mano del sionismo israeliano.
In questo ambito le stragi si inseguono senza fine.
E così a Dacca nei giorni scorsi si è consumata l’ennesima tappa della corsa verso la barbarie. Un filo rosso sangue lega infatti la capitale del Bangladesh a Istanbul, Parigi, Damasco e Baghdad… Poco importa se i responsabili dei criminali attentati sono direttamente legati all’Isis, oppure se da esso sono influenzati e manipolati. Le cause e l’origine sono comunque ben identificabili.
Quello che è avvenuto in questi anni è un vero e proprio stravolgimento di valori, il mondo islamico è profondamente cambiato, e le responsabilità non sono né casuali né ignote. Gli ultimi avvenimenti terroristici inoltre dimostrano, anche ai più scettici e ottusi, che questa battaglia non si può vincere sul solo piano militare: serve contrapporre alla deriva barbarica valori e culture alternative.
Oggi invece per questi popoli, ma anche per le periferie delle nostre città dove spesso sono confinate le seconde generazioni dell’immigrazione, l’Occidente, e più in generale il “resto del mondo”, rappresenta solo guerre, prevaricazioni ed egoismi. Uno cambiamento percepibile anche semplicemente girando per i mercati arabi, la simpatia verso gli occidentali (ricordiamo le frasi che accompagnavano il passaggio degli italiani: “Paolo Rossi”, “pizza”, etc etc…) oggi si è trasformata in occhiate cupe e in smorfie di rabbia.
È in quest’ambito che nascono i teorici dell’islam politico del XXI secolo, all’inizio perseguitati dai vari governi arabi (alleati dell’Occidente) e successivamente strumento dell’Occidente che se ne serve per assicurarsi un controllo sulle cosiddette “primavere arabe”. Un momento di svolta sarà il discorso di Barack Obama a Il Cairo nel giugno 2009 e i successivi incontri dell’allora Segretario di Stato Usa Hillary Clinton con vari rappresentanti della “fratellanza musulmana”.
Girando per le strade di Amman, Damasco e Tunisi, le ultime due fra le più laiche città del mondo arabo di allora, questi amici mi facevano notare il fiorire di cantieri per la costruzione di moschee, tutte finanziate da Paesi stranieri, Arabia Saudita e Qatar in testa. L’atteggiamento verso questi cantieri era contraddittorio, da una parte portavano lavoro e soldi, aiutando economie già sofferenti, dall’altra già si intravedeva l’elemento destabilizzante che queste attività potevano incubare.
Provando a scorrere i media sauditi di queste ultime settimane risalta il modo in cui sono raccontati i vari attentati terroristici. Al Arabiya, una delle principali tv satellitari arabe, parla apertamente di Daesh (l’acronimo arabo per definire l’Isis) solo per gli attentati che avvengono in Iraq, omettendo sempre che le vittime sono sciite. Le stragi di Dacca, come quelle di Istanbul o delle capitali europee, sono opera di fantomatici “gruppi terroristici”.
Se poi ad essere colpita è Damasco, sparisce anche la definizione generica di terrorismo e resta solo il termine “attentati”.
Anche Al Jazeera, seppur più prudente e attenta alle sensibilità occidentali, distingue i responsabili delle stragi a seconda del luogo in cui sono commesse. Più esplicito è il racconto che di queste stragi fanno i giornali sauditi, prevalentemente indirizzati ad un pubblico wahabita. Qui raramente compare la sigla Daesh. In Turchia – per fare un altro esempio – la scure delle nuove leggi liberticide del governo Erdogan stanno uniformando i media riconducendoli a svolgere un vero e proprio lavoro di disinformazione a tutto vantaggio del nuovo sultano.