EUROPA: PREPARARE L’ALTERNATIVA

di Bruno Steri, segreteria nazionale – responsabile Economia PCI

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Appena pochi giorni dopo l’oleografica cartolina che sulla portaerei Garibaldi ritraeva sorridenti e apparentemente concordi Merkel Hollande e Renzi, la riunione dei 27 Paesi Ue tenutasi a Bratislava ha confermato – e formalizzato in dichiarazioni esplicite – posizioni seccamente divergenti su questioni strategiche. Vistose sono infatti le crepe che continuano ad approfondirsi e a dividere da un lato l’Est e l’Ovest dell’Ue sul tema immigrazione, dall’altro i paesi “centrali” e quelli “periferici” sugli assetti e le politiche economico-sociali. In verità, già le aspettative riposte sui risultati del vertice in terra slovacca non potevano dirsi esaltanti. Significativi, ad esempio, i termini con cui il fondo del quotidiano padronale italiano annunciava l’incontro: “Non ancora un programma politico comune ma una specie di seduta di autocoscienza collettiva a 27 alla ricerca di reciproca fiducia e concordia perdute” (Il Sole 24 ore, 16 settembre 2016). Altrettanto significativo il tono di autorevoli dichiarazioni che lo hanno preceduto. Come quella dello stesso Presidente francese: “Brexit non è una crisi, ma la crisi che potrebbe minacciare l’esistenza dell’Unione”.

In effetti, a fronte di una tale compromessa condizione, le imminenti scadenze costituiscono un filotto da far tremare le vene e i polsi all’establishment di Bruxelles. Dopo il referendum inglese di giugno scorso (che ha avuto l’esito che sappiamo) arriveranno: il referendum ungherese ove il poco accogliente Paese magiaro deciderà se accettare le quote di immigrati stabilite dalla Commissione europea (ottobre 2016), il ballottaggio delle presidenziali austriache con il destrorso Norbert Hofer sin qui favorito (dicembre 2016), le elezioni olandesi con l’antieuropeo Partito delle Libertà che i sondaggi danno in chiaro vantaggio (marzo 2017), i due turni delle presidenziali francesi con Marie Le Pen ad oggi in testa (aprile/maggio 2017), infine le elezioni politiche tedesche dove la signora Merkel dovrà smentire i recenti rovesci subiti nelle elezioni territoriali (autunno 2017). Nel mezzo – è bene non dimenticarlo – sapremo chi prevarrà alla guida degli Usa tra Donald Trump e Hillary Clinton, un duello che non lascia presagire nulla di buono per le sorti del mondo nel suo complesso.

Per quel che riguarda il nostro Paese, il nervosismo del Presidente del Consiglio fa il paio con quello di Confindustria, i cui documenti annotano che negli ultimi 15 anni l’Italia ha smesso di crescere: dal 2001 (ultimo anno con la lira) ad oggi lo sviluppo si è bloccato e l’economia è ferma. Le previsioni di crescita per l’anno in corso sono precipitate ulteriormente dall’1,4% previsto dal governo allo 0,5: in tali condizioni, in assenza di margini di flessibilità gentilmente concessi dalla Ue, la manovra finanziaria potrebbe slittare dai 6/7 miliardi previsti a 18/20 mld, con la prospettiva di dover raschiare il fondo del barile (leggi: comprimere le sempre più compresse provvidenze sociali). Ma già ora, secondo il responsabile sanità della Cgil, le risorse disponibili non coprono i Lea, i livelli essenziali di assistenza. E gli ultimi dati Inps relativi ai primi sette mesi di quest’anno spazzano via le bugie di Renzi circa le pretese virtù del Jobs Act, descrivendo viceversa la condizione disastrata del mondo del lavoro: come riferisce una nota di Giorgio Langella (I dati Inps smentiscono la propaganda governativa) , “rispetto agli anni precedenti, nel 2016 le assunzioni calano drasticamente dimostrando che l’aumento del 2015 era dovuto solo agli sgravi fiscali, il lavoro non diventa più stabile ma, quando esiste, è sempre più precario. Tant’è che nei primi sette mesi dell’anno i voucher crescono in maniera decisa (…)”. Tutto ciò non fa che ribadire il fallimento delle politiche del governo Renzi ma, più in generale, il fallimento degli orientamenti dettati dall’Unione Europea.

Il quadro europeo che abbiamo sopra richiamato ancora una volta ci avverte che la sabbia della clessidra va rapidamente esaurendosi, che al tempo della riflessione approfondita occorre far seguire senza soluzione di continuità quello delle prese di posizione e dell’iniziativa politica. Non siamo noi a voler lanciare allarmi scomposti e a prefigurare impolitiche precipitazioni. Anche i più cauti dovrebbero riflettere sul fatto che un premio Nobel in economia come Joseph Stiglitz da tempo ritiene che l’ordine economico e sociale dell’euro è insostenibile; o che uomini politici non certo sospettabili di estremismo come Stefano Fassina e Luciano Gallino hanno dichiarato senza mezze misure che “l’euro è stato un errore politico di portata storica” . Non si tratta di correggere qualche dettaglio nell’azione di governo o di spuntare, nel contesto europeo dato, un grammo di flessibilità in più. Qui è strutturalmente in questione la tenuta stessa di tale contesto; e con essa la capacità dei comunisti (e della sinistra di classe in generale) di tornare ad offrire prospettive credibili e risultati concreti alla propria gente. Dobbiamo metter da parte le frasi e gli impegni di circostanza e dire chiaramente che una fase politica si è chiusa: che l’obiettivo in vista del quale molti di noi hanno per anni operato (“Sì all’euro e all’Ue, no a Maastricht”) è sfumato, assieme al lavoro, alle risorse economiche, ai diritti di una gran parte dei lavoratori, delle donne, dei giovani europei. Che ciò non è avvenuto per disgrazia o per imperizia delle dirigenze di questa Europa, ma per un consapevole orientamento di classe, a difesa del capitale finanziario continentale, perseguito da Bruxelles e Berlino. I risultati sono sotto i nostri occhi: li ha esemplificati drammaticamente l’impossibilità di acquistare farmaci salvavita da parte dei cittadini greci, così come la rabbia dei lavoratori portati nelle piazze francesi dalla Cgt, i quali non si rassegnano al varo di una Loi du Travail che vuol stabilire la primazia della contrattazione aziendale sul contratto collettivo di lavoro, un’”innovazione” calorosamente auspicata dal presidente della Bce Mario Draghi.

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E’ vitale per noi, al di là dei ripiegamenti oscurantisti propagandati dalle destre (anzi, proprio per contrastarli efficacemente), cogliere il carattere di classe veicolato dalla crescente opposizione a questa Europa bipartisan, opposizione puntualmente confermata ad ogni scadenza referendaria ed elettorale. Infatti, è il meccanismo economico e istituzionale ad essa connaturato che non si lascia riformare e nei cui confronti occorre costruire le condizioni politiche per una netta rottura. L’impianto normativo posto a sostegno della moneta unica (le regole di Maastricht) non solo rimane tutto in piedi, ma nel tempo si è ulteriormente consolidato grazie ai passi compiuti dopo Maastricht: in particolare con il Six Pack (2011) e il Fiscal Compact (2012). Con essi sono state formalizzate norme di controllo ancora più stringenti, attraverso cui imporre ai Paesi membri vincoli altrettanto stringenti alla spesa e ai deficit di bilancio pubblico nonché draconiani processi di rientro dal debito. In regime di cambi fissi, senza sovranità monetaria e quindi nell’impossibilità di muovere il tasso di cambio (svalutare per dare ossigeno all’export), senza poter agire sulla spesa per irrobustire la produttività del lavoro con adeguati investimenti, l’unica carta che resta da giocare per riequilibrare le ragioni di scambio tra Paesi della stessa area resta la compressione delle condizioni di vita e di lavoro (meno welfare, meno diritti, meno salario). Un orientamento generale rivelatosi non solo ingiusto socialmente, ma anche fallimentare, come dimostrano i dati sul debito pubblico: infatti con il Pil che decresce, il rapporto debito/Pil ha continuato ad aumentare.

Ora sembra proprio che si sia arrivati al dunque. In netta e crescente crisi di consenso, l’Unione Europea si mostra per quello che è, una compagine in cui agiscono interessi diversi e in cui i conflitti latenti tendono a deflagrare rumorosamente in superficie: da quello classico che contrappone il capitale al lavoro a quello tra capitali (e Paesi) forti e capitali (e Paesi) deboli. La storia dell’ “integrazione” europea ha prodotto accentuati processi disgregativi: senza smantellare il motore di tale involuzione, sarebbe insensato continuare ritualmente a invocare “più Europa”. Oltre a dire con chiarezza come stanno le cose, noi comunisti siamo quindi chiamati a costruire un’alternativa allo stato di cose vigente. Il PCI ha almeno due compiti immediati da svolgere. Primo: promuovere (come peraltro sta già facendo) un serrato confronto e organizzare in tempi rapidi un’iniziativa che veda assieme a noi impegnati altri Partiti Comunisti, a cominciare da quello portoghese e quello spagnolo, entrambi collocati in Europa su una piattaforma analoga a quella espressa nelle nostre Tesi (non è un caso che si tratti di Partiti Comunisti appartenenti a Paesi europei “periferici”). Secondo: impiegare ogni energia disponibile nella campagna referendaria per il No alla controriforma di Renzi, ricordando che – oltre che da Renzi – la nostra Costituzione, purtroppo già violata nei suoi principi di fondo con la costituzionalizzazione del “pareggio di bilancio”, è ulteriormente insidiata nella lettera e nella sostanza dai Trattati europei, strutturalmente ispirati all’ideologia neoliberista. Se non saranno i comunisti e le forze della sinistra di classe a far entrare di peso questo tema dentro la campagna referendaria, nessun altro lo farà. Per questo abbiamo aderito all’appello che lancia anche su questi temi una manifestazione nazionale per il prossimo 22 ottobre a Roma.

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