Alcune riflessioni sulla situazione del lavoro (e le mobilitazioni del 21 e del 22 ottobre 2016).

a cura del Dipartimento Lavoro del PCI

22ott

In memoria di Abd EL Salam, ucciso a Piacenza perché lottava per i diritti di tutti i lavoratori.

Ieri c’è stato lo sciopero generale proclamato dal sindacalismo di base al quale il PCI e altre organizzazioni politiche della sinistra di classe hanno aderito. Uno sciopero che si è svolto per contrastare le politiche devastanti del governo in materia di lavoro, contro il “jobs act”, per la difesa e l’attuazione della nostra Costituzione stravolta dalla controriforma “Boschi, Napolitano, Verdini”. Secondo le stime di USB, oltre un milione e trecentomila lavoratori hanno aderito nelle tante iniziative in tutto il territorio nazionale. Un numero altissimo, ben superiore al numero degli iscritti al sindacalismo di base, che evidenzia il successo dello sciopero nonostante l’evidente censura giornalistica che ha oscurato la mobilitazione di ieri.

Oggi le principali testate giornalistiche non ne fanno menzione solo in articoli relegati nelle pagine interne. Scrivono di disagi provocati dallo sciopero, seguendo la ormai nota tattica del silenzio sulle motivazioni reali di uno sciopero necessario per mantenere la schiena diritta di fronte alla protervia governativa.

Intanto tutti i dati reali sul lavoro, diffusi dall’INPS avvalorano quella sensazione di profonda crisi occupazionale che chiunque abbia un contatto con il mondo del lavoro percepisce.

I numeri diffusi dall’INPS sono chiari. La crisi occupazionale continua a colpire chi vive del proprio lavoro. Le politiche del governo contribuiscono ad abbassare quantitativamente e qualitativamente il lavoro. Il tanto enfatizzato aumento dell’occupazione rilevato timidamente dall’ISTAT non tiene conto che il precariato la fa da padrone. Quello che aumenta è, infatti, lo sfruttamento che ha raggiunto livelli intollerabili. Il dato INPS secondo il quale, nel 2015, 1.380.030 lavoratori (669.631 maschi e 710.399 femmine; 1.260.798 comunitari e 119.232 extracomunitari) sono stati pagati coi voucher con un compenso medio annuale inferiore ai 500 euro, si commenta da solo. Del resto molti lavoratori, giovani e no, sono costretti a subire condizioni e ritmi di lavoro inaccettabili e retribuzioni orarie o a prestazione pagate una miseria (la vicenda di Foodora è emblematica in tal senso), addirittura con buoni pasto. E che il lavoro sia sempre meno garantito, sempre più precario e maggiormente pericoloso lo si capisce leggendo le statistiche relative ai caduti sul lavoro. Numeri impressionanti che l’informazione nazionale tende a nascondere fino a che non avviene una tragedia peggiore delle altre. Al 21 ottobre 2016 i morti per infortunio sul lavoro (certificati) sono 528 e oltre 1.150 se si considerano i decessi avvenuti sulle strade o in itinere (fonte Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro in Italia). Senza contare il numero dei decessi dovuti a malattie professionali e dei quali poco si conosce. Tragedie che si perdono tra omertà e nell’oblio. Come quella dell’esposizione all’amianto che, secondo stime attendibili, causa la morte per mesotelioma di circa 4.000 persone ogni anno.

Si tratta di una situazione drammatica. La disoccupazione, la cancellazione dei più elementari diritti, l’assenza di sicurezza nei luoghi di lavoro, l’inquinamento causato da lavorazioni non controllate, sono malattie endemiche del sistema capitalista. Fatti che colpiscono chi vive del proprio lavoro e lo rendono debole, ricattabile al punto di accettare quelle condizioni di lavoro infami e pericolose che, solo qualche tempo fa, grazie alla forza delle organizzazioni sociali e politiche dei lavoratori, erano impensabili.

Subiamo una crisi che non può essere affrontata erogando incentivi e regalando denaro pubblico (quindi di tutti i cittadini che pagano le tasse) alle imprese private. Gli sgravi contributivi alle imprese per le assunzioni a tempo indeterminato (che poi sarebbero i famigerati contratti a tutele crescenti) comporteranno un costo lordo per il bilancio statale stimato tra 14 e 22 miliardi di euro. Una spesa che, a fronte di un aumento occupazionale decisamente scarso, ha prodotto il risultato di rendere il lavoro sempre più precario e meno garantito. Né si risolve la crisi che il paese sta subendo con condoni a chi evade, a chi esporta capitali nei paradisi fiscali, a chi sfrutta lo schiavismo mascherato dall’uso dei voucher e da titoli in lingua inglese che coprono i contenuti delle manovre.

Bisogna rafforzare il ruolo dello Stato in economia, nelle scelte e nella gestione diretta della politica industriale. Uno Stato che non sia solo un elargitore di beni collettivi ai privati lasciando a loro qualsiasi libertà di fare e disfare, ma diventi produttore e controllore dello sviluppo del paese. Ci vogliono scelte politiche che renda finalmente il lavoro il primo diritto di ogni cittadino. Un lavoro sicuro, garantito, giustamente retribuito che possa essere motore del riscatto sociale e umano di ognuno. Bisogna distribuire la ricchezza a chi la produce realmente (e cioè ai lavoratori), che distribuisca equamente il lavoro e anche il riposo secondo il diritto fondamentale di lavorare meno per lavorare tutti e meglio. Per questo non si può stravolgere la Costituzione ma si deve attuarla a partire dall’articolo 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Ieri, il sindacalismo di base ha dimostrato che si può ancora lottare. Che non è un’utopia opporsi all’andazzo generale, che si può ricostruire un movimento di classe anche conflittuale, che si può pensare di ricostruire quella coscienza di classe utile e necessaria perché chi vive del proprio lavoro possa riprendersi il ruolo di protagonista del futuro che ad esso compete. Che è necessario ricondurre la politica nei luoghi di lavoro in una unità strategica tra rivendicazione sindacale e progetto politico alternativo al sistema attuale.

Seguendo l’antico appello del movimento operaio e dei comunisti (al lavoro e alla lotta), oggi, 22 ottobre 2016, la mobilitazione continua con una grande manifestazione a Roma contro il governo Renzi, la sua politica sociale, le sue scelte padronali. Quarantamila persone sono scese in piazza perché vogliono la cancellazione del “jobs act” e della “riforma Fornero” sulle pensioni, perché lottano per la difesa e l’attuazione della Costituzione del ’48. Quella bella, concepita con gli scioperi antifascisti del marzo del 1943 e del 1944, quella nata dalla Resistenza. Quella scritta dai Partigiani e difesa dai lavoratori.

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