Per il lavoro, difendere la Costituzione del ’48.

di dipartimento Lavoro PCI- Fgci

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I dati diffusi dal’ISTAT mostrano, rispetto all’inizio del 2016, un aumento della disoccupazione (+46 mila unità), una diminuzione degli inattivi (-443 mila), un aumento degli occupati (+301 mila). Un grande risultato della politica di Renzi? Non proprio, perché, al di là della quantità, si dovrebbe esaminare soprattutto la qualità del lavoro oggi in Italia considerando assieme a queste stime i dati forniti dall’INPS relativi al numero di voucher (nuova frontiera di un precariato “estremo” ai limiti dello schiavismo), alle nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato, ai licenziamenti che ci sono stati nel 2016. Dati, quelli dell’INPS basati sui dati reali. E forse allora si capirebbe che c’è qualcosa che non va. Sorge il ragionevole dubbio che, forse, bisognerebbe tenere nel dovuto conto il fatto che nei numeri forniti dall’ISTAT vengono conteggiate tra gli “occupati” le persone che hanno lavorato anche solo un’ora nella settimana di riferimento per la statistica.

E poi sarebbe utile conoscere come e chi ha finanziato l’aumento stimato di occupazione. Sono state le imprese a investire in nuove assunzioni perché c’è un oggettivo e reale aumento della produzione? O, forse, è stata la collettività a pagare? E se così fosse qual è la quota del costo delle assunzioni che lo Stato ha generosamente regalato alle imprese?

E, infine, come si può spiegare l’aumento della povertà nel nostro Paese se non con il fatto che, evidentemente, le retribuzioni sono diventate insufficienti a vivere dignitosamente?

Un abbassamento della qualità del lavoro, quindi, che giustifica una statistica che vede un modesto aumento occupazionale.

Stime ISTAT f.l. + inattivi Forza lavoro Occupati Permanenti A termine Indipendenti Inattivi Disoccupati
Inizio 2015 39.488 25.529 22.394 14.533 2.315 5.546 13.959 3.135
Settembre 2015 39.515 25.490 22.572 14.670 2.434 5.467 14.025 2.918
Inizio 2016 39.464 25.505 22.535 14.773 2.361 5.402 13.959 2.970
Agosto 2016 39.391 25.748 22.792 14.935 2.437 5.420 13.643 2.956
Settembre 2016 39.368 25.852 22.836 14.934 2.427 5.475 13.516 3.016

Secondo i dati forniti dall’INPS (Osservatorio del Precariato, pubblicazione di ottobre 2016) le nuove attivazioni di contratti a tempo indeterminato sono state 2.028.440 nell’intero anno 2015 e 805.168 nel periodo gennaio-agosto 2016, per un totale (in 20 mesi) di 2.833.508. Nei primi otto mesi del 2016 le nuove assunzioni a tempo indeterminato con contratti full-time sono state 464.367 (nello stesso periodo del 2015, furono 715.081 pari a -35,06%), quelle con contratti part-time sono 308.552 (nel 2015 furono 437.893 pari a -29,54%). Le cessazioni sono state 1.768.520 (gennaio-dicembre 2015) e 1.006.531 (gennaio-agosto 2016) per un totale di 2.775.051. La differenza tra nuove assunzioni e cessazioni risulta essere, quindi, pari a +58.457. I licenziamenti nei primi 8 mesi del 2016 sono stati 350.692 (+23.998 pari al +7,34% rispetto allo stesso periodo del 2015).

I voucher venduti nel 2015 sono stati 114.921.574. Quelli venduti nel periodo gennaio-agosto 2016 sono già 96.622.284. Il totale nei 20 mesi presi in considerazione è di 221.543.848 pari a una media mensile di circa 10.577.193 voucher. Questo dato rapportato a quello dei voucher venduti nei 24 mesi precedenti (40.816.297 nel 2013 e 69.172.879 nel 2914 per un totale di 109.989.176) che è pari a una media mensile di circa 4.582.882 conferma come la precarizzazione del lavoro sia ormai istituzionalizzata e in rapida crescita esponenziale.

Il risultato concreto delle politiche iperliberiste del governo Renzi è, quindi, molto difforme da quello che viene propagandato dalle fonti governative e dagli organi informativi allineati alle direttive di chi detiene il potere. Del resto basta guardare la realtà di quanto succede nei luoghi di lavoro per rendersi conto che la crisi è lontana da una soluzione positiva soprattutto per chi vive del proprio lavoro.

Dalla situazione reale si può affermare che la qualità complessiva del lavoro, dal tipo di lavoro alle condizioni di sfruttamento che si vivono, stia calando progressivamente in una maniera che può sembrare irreversibile proprio per l’inadeguatezza delle scelte dell’attuale governo e per il progetto iperliberista del sistema produttivo che “riforme” come quelle del mercato del lavoro e delle pensioni note come “riforme Fornero” e il “jobs act” stanno realizzando.

Ma quanto è costato il “jobs act”? E chi ha effettivamente pagato il costo della nuova occupazione stabile? Secondo stime attendibili (cfr. i calcoli del dott. Michele Tiraboschi pubblicati nel 2016) sono circa 18 i miliardi di euro impegnati dallo Stato. Soldi pubblici e, quindi, di tutti i cittadini onesti che vengono dati principalmente alle imprese private. Confrontando questi valori con i risultati “stimati” dall’ISTAT si può calcolare, dall’entrata in vigore delle decontribuzioni per le aziende che assumono lavoratori a tempo indeterminato e a tutele crescenti (inizio 2015), un aumento di 401 mila lavoratori cosiddetti “permanenti” (cioè con contratto a tutele crescenti dall’approvazione del “jobs act”). Facendo un rapporto necessariamente aprossimativo (in quanto considera solo i valori totali e non la progressività nel tempo dei nuovi contratti di lavoro e gli occupati stimati da ISTAT a settembre 2016) il costo pro capite pagato dallo Stato nei 21 mesi considerati risulta essere di circa 44.900 euro pari a un costo mensile medio di circa 2.140 euro. Se si considerano anche tutti gli occupati (anche chi ha un contratto a termine, chi ha partita iva, chi usufruisce di voucher ecc.) l’aumento stimato è di 442 mila lavoratori (la cifra tanto sbandierata da Renzi). Il costo pro capite si abbassa a circa 40.700 euro pari a un costo mensile medio di circa 1.950 euro.

Questo non significa, forse, che in realtà il salario totale dei “nuovi occupati” è stato pagato dallo Stato? E che i padroni hanno di fatto usufruito di manodopera in forma gratuita? Se questa analisi è corretta, risulta che il governo Renzi (e i precedenti, a partire da quelli di Berlusconi, che hanno “dettato la linea” ma che non riuscirono a realizzare compiutamente il loro disegno a causa un’opposizione politica, sociale e sindacale organizzata che oggi è fortemente indebolita) ha abdicato al ruolo che la Costituzione affida allo Stato. Un ruolo da protagonista che afferma la priorità del diritto al lavoro (e non dei privilegi d’impresa) e stabilisce regole e azioni che le Istituzioni sono tenute a rispettare e a fare per garantire tale diritto. Si rileggano con attenzione l’articolo 4 (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.”) e gli articoli 41 (“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”), 42 (“La proprietà è pubblica o privata. … La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.”), 43 (“A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.”) che stabiliscono inequivocabilmente che il ruolo dello Stato non può e non deve essere quello indiretto di promotore del profitto privato e di impresa, ma quello di protagonista diretto dello sviluppo economico e industriale del paese.

Che lo Stato intervenga nelle scelte e nella gestione dello sviluppo del paese assumendo il ruolo di garante dell’attività sociale di impresa e della utilità collettiva dei mezzi di produzione (e, conseguentemente, della loro proprietà specialmente nei settori strategici), significa attuare la Costituzione. Questo è il programma del Partito Comunista Italiano. Un programma di lotta e di “riappropriazione” dei principi, dei diritti e dello spirito della Costituzione. Un progetto che è in definitiva antitesi con quello del governo e della maggioranaza capitanata dal PD che, con la conferma dell’inserimento della norma del pareggio di bilancio (articolo 81) e con la riforma “Boschi-Napolitano-Verdini”, vogliono trasformare la nostra Costituzione in una legge qualunque. Una Costituzione scritta male, in maniera confusa e ambigua così da rendere inapplicabili i principi contenuti nella prima parte della stessa che devono ancora essere pienamente attuati.

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