Elezioni Usa: alcuni (s)punti di interpretazione

di Francesco Maringiò, Direzione Nazionale PCI, Dipartimento Esteri

trump

Dopo una notte di testa a testa ed una campagna elettorale tra le più squalificanti della recente storia statunitense, Donald Trump è stato eletto 45esimo Presidente degli Usa, con una netta maggioranza di grandi elettori, che lo hanno scelto. Nei prossimi giorni sarà certo più facile analizzare i flussi elettorali per capire cosa si è mosso nelle viscere profonde della società statunitense al punto da eleggere un “outsider” ed un “impresentabile” come Presidente della nazione più potente del pianeta. Sin da ora, però, è utile fissare alcuni punti fermi.

  1. Donald Trump non è un “outsider”, ma al pari di Hillary Clinton è l’espressione del sistema americano. Il suo essere “impresentabile” è solo il frutto del fatto che l’approfondimento della crisi strutturale del capitalismo ha tra le sue conseguenze anche l’intensificazione del carattere reazionario dei sistemi politici e di rappresentanza liberali, che oggi vivono una crisi peculiare nel rapporto con i cittadini, dopo anni di istituzionalizzazione del “pensiero unico” e di promozione del mito della “globalizzazione”. Per cui bisogna saper cogliere la contraddittorietà della fase: il voto dei cittadini segnala una rottura con il sistema consolidato nei decenni precedenti in tutto il mondo occidentale, ma la scelta fatta è (paradosso apparente) il trionfo della democrazia occidentale, capace di rinnovare se stessa oltre ogni immaginazione. Una lezione che le forze alternative dell’Europa dovrebbero assimilare per bene, se non vogliono lasciare che, come negli Usa, la protesta anti-establishment confluisca su un candidato dell’establishment.
  2. Stando ai punti del programma elettorale, è sul piano interno che il tratto “impresentabile” di Trump sarà più marcato: costruzione del muro di separazione con il Messico, retorica anti-islam e machismo nel discorso pubblico, sono solo alcuni dei punti più controversi che hanno caratterizzato la sua campagna elettorale. Oggi si tratta di capire se, come è prevedibile, continuerà su questa strada ed anche cosa accadrà alle conquiste ed ai diritti civili e sociali della società statunitense. Tutto ciò premesso, bisogna però stigmatizzare quei settori della sinistra europea che, in nome della difesa dei diritti civili e contro le esternazioni razziste e sessiste del candidato Trump, hanno fatto l’endorsment per Hillary Clinton, magari giustificandosi dietro alla retorica del “meno peggio”. Non hanno capito che la posta in gioco non era la scelta tra una male assoluto repubblicano ed un “meno peggio” democratico, ma che in queste elezioni si sono confrontate due risposte diverse alla crisi dell’egemonia americana e del sistema capitalistico mondiale.
  3. Le diverse risposte a questa crisi emergono dall’analisi della politica estera dei due candidati alla presidenza, espressione delle due principali frazioni del partito della borghesia statunitense. Trump e Clinton sono stati i frontman elettorali di due fazioni dell’élite americana che aveva due visioni opposte di fuoriuscita dalla crisi: il primo incarna una linea “isolazionista” e di “perdita egemonica controllata” da parte degli Usa, la seconda il tentativo di riaffermazione sul piano politico-militare del dominio Usa sul mondo, con un profilo più apertamente imperialista e guerrafondaio. Per queste ragioni, se sul piano interno la vittoria di Trump rappresenta un arretramento delle speranze di emancipazione di alcuni settori e minoranze della società statunitense, è sul piano internazionale che si capisce come una vittoria della Clinton avrebbe comportato un pericolo serio ed imminente agli equilibri internazionali ed alla prospettive della pace nel mondo.
  4. Hillary Clinton, che è stata Segretaria di Stato (Ministro degli Esteri) durante il primo mandato presidenziale di Obama, incarna una linea non molto diversa da quella dei neocon che hanno governato gli Usa nell’era di Bush jr, ossia l’uscita dalla crisi attraverso l’allargamento della sfera d’influenza degli Usa nel mondo, anche con l’utilizzo di armi, attacchi speculativi e rivoluzioni colorate. È consona a questa strategia la logica del mantenere un perenne stato di caos in alcune aree del mondo, per spingere la fuga di capitali ed investimenti da attrarre nei mercati americani. In sintesi, la linea della Clinton è la versione hard della politica di Obama: trattati transoceanici di libero commercio per isolare la Cina ed imbrigliare l’Ue in una “Nato economica”; sviluppo del confronto militare con il blocco antagonista ed in particolare rinfocolare l’escalation nei confronti della Federazione Russa (esacerbando l’allargamento ad Est della Nato, la guerra in Ucraina e la guerra in Siria); sviluppo di un soft power aggressivo, alimentando una “nuova guerra fredda” contro la Cina (verso cui si è agito con la politica del Pivot to Asia, con i dazi commerciali, la rivoluzione colorata di Hong Kong ed una guerra culturale, emblematicamente rappresentata dalla chiusura di alcuni Istituti Confucio nei campus universitari americani) e contro la Russia, il cui Presidente viene sistematicamente demonizzato sui network del sistema mediatico statunitense, fonte di ispirazione per quello italiano.
  5. La visione di Trump (che però deve fare i conti con un Congresso a trazione repubblicana dove vivono spinte diverse dal suo “isolazionismo”) si impernia sullo sviluppo degli asset reali dell’economia (piuttosto che sulla finanza) e sullo sviluppo infrastrutturale a cui si accompagna una politica di rottura dei trattati internazionali, tanto del Ttip e Tpp, quanto un disimpegno anche dal Nafta. Rispetto agli equilibri internazionali, Trump sembra raccogliere il testimone del pensiero di Luttwak (ma anche dell’ex direttore della Cia Woolsey e, seppure non si sia esposto pubblicamente sulla contesa elettorale, dello stesso Kissinger) di una linea di “trattativa”, a partire con la Russia. La tesi di fondo, espressa da Luttwak in diversi suoi libri è nota: l’intera sovrastruttura delle istituzioni occidentali e mondiali che gli Stati Uniti hanno progettato a propria immagine e somiglianza e per questo finanziato nel corso di tutti questi anni, è sempre meno utile agli scopi americani. Se dopo il crollo dell’Urss si è registrato in punto di massima influenza degli Usa sulla scena mondiale, oggi è fisiologica una riduzione dell’influenza, che gli Usa devono accettare, trattando una condizione di egemonia ed uno status di potenza con gli altri soggetti in campo. Non è l’accettazione del declino, ma la riscrittura di nuovi accordi imposti dalla fine dell’equilibrio tra potenze (Usa-Urss) che neanche le guerre di Bush ed Obama hanno preservato. E questo, sempre secondo il politologo rumeno-statunitense, serve per impedire la nascita di una coalizione globale anti Usa imperniata attorno a Russia e Cina, che accelererebbe il declino americano. Trump incarna questa visione del mondo. Infatti nel suo discorso della vittoria ha dichiarato: ”lavoreremo per gli interessi degli americani, ma andremo d’accordo con tutti senza ostilità”. Per cui questa vittoria non è il trionfo della linea pacifista, ma almeno una sconfitta per le componenti più aggressive e guerrafondaie che avevano nella candidata democratica la propria paladina.

Se Trump e Clinton rappresentano il meglio che la politica e l’establishment americano sono in grado di offrirci, dovremmo riflettere a lungo sulla cultura dominante in questo paese. E spetta all’emergere ed al rafforzamento della lotta di classe negli Usa e nei paesi a capitalismo sviluppato, così come alla nascita di una convergenza tra paesi che si emancipano dall’imperialismo, popoli che lottano per affermare i propri diritti e lo sviluppo del movimento contro la guerra, di isolare il principale pericolo per la pace mondiale e sconfiggere le sue politiche imperialiste.

 

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