Duterte e il Pivot to China

di Gianni Cadoppi, dipartimento Esteri PCI

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Tranne che durante gli anni sessanta, quando la guerra filippino-americana del 1899-1902 è stata definita come “il primo dei Vietnam” il milione e quattrocentomila filippini morti sono stati generalmente rappresentati sia come danni collaterali o come vittime di un’insurrezione contro l’autorità imperiale degli Stati Uniti.

Gore Vidal

La Cina dimostra sempre di più di essere il principale polo di attrazione antimperialista. Per questo motivo la potenza declinante degli Stati Uniti cerca di isolare la Cina e l’asse Mosca-Pechino. Il Pivot to Asia da una parte, e la stessa guerra in Siria che colpisce un paese dove sono collocate le uniche due basi militari all’estero della Russia, ha il conmpito di intralciare la Via della Seta ossia le vie commerciali della Cina. C’è una potenza in piena parabola discendente che sta ostacolando lo sviluppo mondiale portando kaos e disordine e ce n’è un’altra in ascesa pacifica che crea infrastrutture, lavoro e sviluppo ovunque. La guerra in Siria vede gli USA in serie difficoltà così come il Pivot to Asia che sta collezionando parecchi insuccessi. Quello più clamoroso è dovuto allo spostamento di campo della Filippine, nucleo del perno sull’Asia, giacchè il paese si trovava in pieno contenzioso con la Cina per la sovranità sul Mar Cinese Meridionale, altro tentativo di condizionare le rotte commerciali cinesi. Naturalmente è bastato che il nuovo presidente Duterte mettesse in discussione la sacra alleanza con i vecchi colonizzatori, gli USA appunto, perché si scatenasse l’Armata Nazista dei Diritto-umanisti con tanto di Sinistra Imperiale al seguito.

E allora vediamo da vicino chi sia Rodrigo Duterte che si è sempre dichiarato di sinistra nonché il primo Presidente Socialista delle Filippine. Duterte durante gli studi universitari egli militò nel movimento studentesco di sinistra Kabataang Makabayan, i Giovani Patrioti, fondato nel 1964 dove lavorò con i futuri dirigenti del Partito Comunista delle Filippine ed ebbe come professore José María Sison, leader del PCF.

Duterte è indiscutibilmente un progressista. Fin dalla sua prima elezione a sindaco della città di Davao, nell’isola di Mindanao, aprì ai rappresentanti delle minoranze Lumad e Moro da sempre discriminate. Il presidente filippino ha intenzione di riformare il sistema sanitario prendendo ad esempio quello di Cuba, con cui sarebbe possibile accordarsi dato che i cubani si sono sempre mostrati disponibili per l’assistenza ad altri paesi.

Duterte non è per niente un conservatore dal lato del costume. Egli è a favore del controllo delle nascite e ha accusato la chiesa cattolica di essere responsabile della sovra-popolazione nelle Filippine con il risultato di avere diffuso solamente povertà e instabilità. Inoltre è favorevole ai diritti LGBT. Egli ha anche rivelato di essere stato abusato da un prete quando era ragazzino e fa professione di anticlericalismo che lo rende molto diverso dai politici tradizionali ligi alle potenti gerarchie ecclesiastiche.

Duterte è favorevole ai diritti delle donne e per la difesa della loro dignità tanto da aver creato una Magna Carta dei Diritti delle Donne nella città da lui governata ovvero Davao. Nonostante la prostituzione sia illegale nelle Filippine, Duterte ha praticato una politica di riduzione del danno fornendo le prostitute di carta sanitaria.

Davao era la città con il più alto tasso di criminalità delle Filippine e negli ultimi 20 anni il tasso di criminalità sarebbe diminuito di tre volte grazie alla decisa azione di Duterte contro i cartelli del narcotraffico.

Duterte, che si è sempre presentato alle elezioni come uomo di sinistra, ha messo taglie sui principali narcotrafficanti che a loro volta avevano fatto altrettanto nei suoi confronti. Ha invitato la gente alla collaborazione con le forze di polizia per annientare la criminalità nella città di cui è stato sindaco che oggi risulta tra le città più sicure delle Filippine. La lotta alla criminalità e in particolare alla microcriminalità dovrebbe far parte di qualsiasi governo di i sinistra perché il ceto medio e i poveri, gli anziani, i malati e i minorenni non sanno come difendersi dai criminali mentre i ricchi possono assoldare guardie del corpo. Come rileva la stessa Repubblica in un pezzo ispirato all’aberrante politica dirittoumanista (che c’entra assai poco con i Diritti Umani) “finora in questo Paese arrestare uno spacciatore era praticamente impossibile”. La gravità della situazione è riconosciuta dal Dipartimento di Stato americano, oltre il due per cento della popolazione fa uso di stupefacenti, le Nazioni Unite hanno dichiarato le Filippine capitale delle anfetamine. Secondo la tv di Manila Abs-Anc il giro d’affari della droga è di 8.2 miliardi di dollari. Oggi il presidente è popolarissimo a livello nazionale si parla addirittura del 91% dei consensi mentre la Sinistra Imperiale dirittoumanista nel mondo sta sui coglioni a tutti. Intanto in Francia Libération ha descritto Duterte come un “serial killer”, nientemeno!!!

Federico Dezzani ricorda lo strano amore tra l’imperialismo anglo-americano e il narcotraffico. Nell’Ottocento l’impero britannico, consolidato il dominio sull’India, è alla ricerca della penetrazione economica e politica in Cina fino allora rimasta chiusa chiusa al “mondo barbaro”. Non si riesce a vendere nulla ad un impero che si considera autosufficiente e che fino allora era la maggiore potenza economica del pianeta. Il grimaldello è l’oppio e non appena i cinesi si rendono conto del disatro sociale legato alla circolazione della droga gli inglesi rispondono con quella che si chiamerà la politica delle cannoniere (1839-1842) sequestrando alla Cina il porto di Hong Kong.

Bisogna ricordare che i nazionalisti di Chiang Kai-shek, sostenuti dagli americani contro i comunisti di Mao, traevano il loro sostentamento dal traffico di droga e persino dopo essere stati espulsi dalla Cina si accamparono ai suoi confini gestendo il monopolio del narcotraffico nel cosiddetto triangolo d’oro. L’Air America, la compagna area gestita dalla CIA che operava proprio nel triangolo d’oro dell’oppio (Birmania, Laos, Tailandia e Vietnam), tra gli anni ’60 e ’70 gestì il contrabbando di stupefacenti per contenere “l’espansionismo comunista”.

Il neo presidente filippino ritiene però che, a differenza degli omicidi extragiudiziali condotti da Francia, USA e Israele, la sua campagna antidroga sia stata condotta nel rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto. «Nessun leader, per quanto sia forte, può avere successo nelle faccende di rilevanza nazionale senza il supporto e la cooperazione della gente che ha il compito di guidare e di servire. Sono consapevole che alcuni non approvano i miei metodi per combattere la criminalità. Il neo Dicono che i miei metodi non sono ortodossi e che tendono verso l’illegalità. Come avvocato ed ex-procuratore conosco quali sono i limiti del potere e dell’autorità di un Presidente. So cosa è legale e cosa non lo è.»

Duterte ha dimostrato di essere duro su entrambi i versanti: la criminalità di strada e la corruzione associata alla criminalità economica. La lotta alla corruzione deve essere una priorità tra le più alte per la la sinistra come dimostra Xi Jiping in Cina. Nelle Filippine, è un problema urgente. Egli vuole ridurre la corruzione come a Singapore, misura necessaria per portare un impulso allo sviluppo economico nelle Filippine che quest’anno sta crescendo del 7,3% .

Egli comunque è a favore di una politica estera autonoma e indipendente. Duterte con il 91% dei consensi è il presidente filippino più popolare da quando Pulse Asia ha iniziato i sondaggi sulla governance e gareggia con Xi Jinping e Putin per il presidente più popolare del mondo. Si pensi ai due sfidanti per la presidenza degli Stati Uniti, Clinton e Trump, che hanno fatto a gara a chi fosse il più indigesto all’opinione pubblica.

Duterte veniva considerato un outsider, essendo di umili origini ed estraneo ai i grandi gruppi familiari che hanno sempre dominato la vita politica come gli Aquino. Secondo quanto riporta Il manifesto nell’intervista da una attivista “non è ricco, è un avvocato del sud che proviene dalla classe media e non da quell’oligarchia che tiene in pugno da sempre il paese”. La sua campagna elettorale si è caratterizzata per la cronica mancanza di fondi a differenza dei suoi rivali che potevano contare su soldi ed appoggi politici e economici importanti. Insomma un candidato anti sistema. Egli non ha nascosto di essere socialista e di sinistra nonostante che la guerra fredda e la caccia al comunista abbia imperversato per anni dopo il fallimento della guerriglia Hukbalahap che pure durante la resistenza anti-giapponese era arrivata a contare su oltre oltre 30.000 guerriglieri.

I negoziati con il Partito Comunista per la cessazione delle ostilità sono già iniziati ad Agosto dopo che è stata concessa l’immunità a 87 negoziatori del Partito. Il presidente ha esortato il braccio militare del Partito Comunista, il Nuovo Esercito Popolare, a collaborare nella eliminazione dei Signori della Droga, offrendo ministri ai comunisti e amnistia per i prigionieri politici.

Una volta vinte le elezioni con ampio margine egli si pure permesso ha nominato vari ministri vicini alle posizioni dei comunisti come quello della Riforma Agraria Rafael Mariano, leader dei contadini. Poi ancora Judy Taguiwalo, Segretario per il benessere sociale e lo sviluppo, oltre al leader sindacale Joel Maglunsod, sottosegretario al lavoro, e Liza Maza, capo della Commissione nazionale contro la povertà. Duterte pensa di ridurre fortemente la povertà, oggi un drammatico 26% della popolazione è sotto la soglia della povertà assoluta, come è stato fatto in Cina.

Proprio per l’indebita intromissione negli affari interni del paese Duterte ha chiamato il Presidente americano di figlio di buonadonna per l’esattezza ha detto “Obama, figlio di puttana, te la farò pagare” quando questi è intervenuto per difendere gli ormai famigerati diritti umani. Del resto quando gli americani parlano di diritti umani in un paese per quel paese è ora di mettere mano alla contraerea. Ma si è pronunciato anche contro la Commissione dei Diritti Umani dell’ONU presieduta dall’Arabia Saudita (sic!) minacciando di ritirare le Filippine e di formare una nuova organizzazione mondiale assieme a Cina e ai paesi africani.

A Barack Obama preoccupato per lo stato dei diritti umani nelle Filippine Duterte ha ricordato il massacro di Bud Dajo contro i Moro quando il generale John Pershing si vantava di fucilare i ribelli islamici con pallottole intinte nel sangue di maiale.

Rodrigo Duterte il 20 ottobre si è recato in visita a Pechino e ha annunciato ufficialmente la “separazione” dagli Stati Uniti sia nel settore militare sia in quello economico. In un locale business forum, accolto da grandi applausi ha detto: “L’America ora ha perso” militarmente, socialmente ed economicamente. «Mi sono spostato nel vostro flusso ideologico e forse dovrò anche andare in Russia per parlare con Putin e dirgli che siamo in tre contro il mondo: la Cina, le Filippine e la Russia. Questa è l’unica strada percorribile”. “Gli americani sono scortesi — ha aggiunto — e questo è troppo per le sensibilità asiatiche. Mi piace la Cina perché non va in giro a insultare la gente” e ovviamente ad interferire con gli affari degli altri. Egli ha anche rivendicato le proprie origini cinesi risalenti al nonno poverissimo proveniente da Xiamen nel Fujian. Pechino ha promesso accordi per 13,5 miliardi di dollari più di quanto investano gli USA che prima pensavano di poter ricattare Duterte con la favola dei diritti umani. Loro!! Quelli di Guantanamo!! Egli ha dichiarato di avere oltrepassato il Rubicone nei rapporti con gli USA e di voler forgiare una nuova alleanza politica e commerciale con Cina e Russia dalle quali comprerà anche armi. I cinesi dal canto loro si sono offerti di costruire la ferrovia Manila-Clark in soli due anni e investendo un sacco di soldi in infrastrutture di cui le Filippine hanno assolutamente bisogno.

Il Pivot to Asia sta fallendo clamorosamente. Il Perno Asiatico è stato studiato dagli americani per isolare e accerchiare la Cina ma anche la Russia. L’obiettivo strategico sarebbe quello di tagliare le linee del commercio, danneggiare le economie dei due paesi sfidanti e magari suscitare qualche rivoluzione colorata. L’obiettivo è creare stati vassalli sia militarmente che economicamente legati agli USA e che contrastino la crescente influenza della Cina. L’installazione di basi missilistiche nella Corea del Sud, il pattugliamento provocatorio delle coste cinesi e del Mar Cinese Meridionale, le armi a Taiwan e infine il sostegno agli indipendentisti di Hong Kong, Xinjiang e Tibet. Gli americani hanno spinto l’ex presidente delle Filippine ‘Nonoy’ Aquino Jr., docile marionetta dell’oligarchia filo americana, a ricorrere al Tribunale dell’Aja per avere una base per provocare la Cina e a firmare nel 2014 un accordo che dava mano libera agli americani in fatto di basi militari. Ma subito dopo la sentenza dell’Aja, Duterte ha incaricato l’ex presidente della Repubblica Fidel Ramos di intavolare trattative direttamente con la Cina senza passare da organismi sovranazionali quali l’Asean.

Duterte non vuole relazioni conflittuali con la Cina ma al contrario buone relazioni per cui bisogna creare un ambiente favorevole al dialogo. Egli ha dunque affermato di voler interrompere il pattugliamento congiunto con la marina americana del Mar Cinese Meridionale. Egli ha anche chiesto che le forze americane a Mindanao lascino le Filippine in particolare coloro che hanno preso parte all’operazione Enduring Freedom che infiammerebbero la situazione con Abu Sayyaf che agisce nell’arcipelago di Sulu tra l’altro con rapimenti anche di stranieri. Per l’imperialismo nordamericano il controllo delle Filippine è fondamentale per la superiorità strategica. Da questo dipende il controllo del Sud Est Asiatico.  Washington non ha esitato a boicottare chiunque si opponesse ai suoi piani insediando governi accomodanti. Ne sa qualcosa l’attuale sindaco di Manila, Joseph Estrada che ha dichiarato che dietro la sua estromissione da presidente nel 2001 c’erano gli Stati Uniti. Washington avrebbe continuamente premuto perché Estrada facesse gli interessi americani a scapito di quelli nazionali. Gli USA potrebbero tentare un colpo di stato appoggiato da militari, narcotrafficanti e oligarchi. Estrada, sostenitore anch’egli del perno sulla Cina, ha dichiarato data l’immensa popolarità di Duterte ciò provocherebbe l’immediata reazione di milioni di sostenitori del presidente eletto e l’opposizione della comunità di businessmen orientata verso la Cina. Lo stesso Duterte ha apertamente accusato la CIA di volerlo far fuori. Egli ha anche accusato l’America di ospitare dei narco-oligarchi filippini. Il presidente filippino ha dichiarato “Sarò spodestato? Bene. Fa parte del mio destino. Il destino porta tante cose. Se muoio, questo fa parte del mio destino. A volte i presidenti vengono assassinati”.

Le indagini su un trafficante d’armi, attivo tra le Filippine e gli Stati Uniti, rivelano che si sta preparando un attentato contro Duterte. Il giorno seguente una bomba esplode al mercato di Davao, la città di cui Duterte è stato sindaco e dove è in visita proprio quel giorno. Muoiono 15 persone, Duterte che potrebbe essere il vero obiettivo è trasferito in una stazione di polizia. L’attentato è rivendicato da un gruppo islamista vicino all’ISIS. Qualche sospetto sui servizi occidentali per l’uso spregiudicato che hanno fatto del terrorismo in Medio Oriente comincia a balenare anche nella testa dello stesso Duterte.

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Tracollo del Pivot to Asia

Il Pivot to Asia era la strategia dichiarata degli USA per ostacolare l’ascesa pacifica della Cina creandole attorno un vero e proprio cordone sanitario.

Il tracollo del Pivot to Asia annunciato da Hillary Clinton cinque anni fà lo si può intravvedere da quanto riportato dallo stesso mainstream che parlando di Duetrte rileva : “Non solo via al business, ma via anche alle forze armate americane. «Via tutte le truppe straniere dalle Filippine entro due anni. Sono disposto a sospendere gli accordi di ospitalità delle basi Usa»”. Si parla di cinque basi la cui permanenza è garantita da un accordo siglato con il suo predecessore. «Li voglio fuori. Queste saranno le ultime manovre militari e giochi di guerra con gli Stati Uniti». E ha spostato di un mese, al dopo-elezioni americano, il dialogo sul rinnovo delle basi.

Gli strateghi del Pentagono vogliono apertamente condizionare le rotte marittime della Cina e usare le nuove basi nelle Filippine per provocare e accerchiare la Cina. Duterte intende porre fine a tutto questo.

Rileva La Stampa: “Nel frattempo, anche il Vietnam ha un inedito riavvicinamento con la Cina, contro la quale era alleata fino a pochi mesi fa…assieme alle Filippine. Il premier vietnamita prima ha mandato il ministro degli Esteri ad addobbare con corone di fiori il mausoleo di Mao Tze-Tung a Pechino, e poi ha ricordato che il Vietnam non dimentica l’assistenza ricevuta in passato dalla Cina. Proprio contro gli Stati Uniti.

Indirette prove di nuove alleanze, nutrite dal timore di perdere il treno di un nuovo ordinamento strategico, dove lo zio Sam viene cacciato, mentre il drago cinese apre le sue ali sull’Oceano Pacifico.” Il primo ministro del Vietnam, Nguyen Xuan Phuc, ha concordato nei colloqui con Xi che la “cooperazione marittima attraverso trattative amichevoli” sia il modo migliore di procedere.

Il premier cambogiano Hun Sen ha dichiarato che un ambasciatore al di fuori dell’ASEAN (insomma quello americano) ha dimostrato di conoscere il verdetto del Tribunale dell’Aja ancora prima che fosse emesso cercando appoggio per la sentenza e ottenendo invece il rifiuto del leader cambogiano. La Thailandia ostenta la propria neutralità nella disputa sul Mar Cinese Meridionale riservandosi magari un ruolo da mediatore. La classe media di questo paese ha in parte origini cinesi come parecchi politici, uomini d’affari  e intellettuali. Con più di sette milioni di cinesi la Thailandia è assieme all’Indonesia il paese con il maggior numero di popolazione originaria dell’Impero di Mezzo. Durante la guerra fredda essi hanno subito l’isolamento, la discriminazione razziale e la persecuzione politica aizzata proprio dai padroni americani. Sono cose che non si dimenticano. Otto milioni di turisti cinesi hanno visitato la Tailandia nel 2015 con un aumento del 71% sul 2015. Due elementi hanno caratterizzato la politica indipendente della Tailandia: la caccia al terrorista uiguro (“terrorista buono” per gli USA)  dopo gli attentati anti cinesi nella capitale e l’opposizione all’ingresso di Joshua Wong, il leader in fasce della “Rivoluzione degli ombrelli” di Hong Kong, che ovviamente veniva ad aizzare una rivoluzione colorata all’Università di Bangkok.

Tsai Ing-wen eletta presidente di Taiwan dopo una schiacciante vittoria e sostenuta da un grande consenso, in pochi mesi ha visto la sua popolarità precipitare del 25%. Siccome il Partito Democratico Progressista della Tsai, propende per un programma pro-indipendenza, Pechino ha sospeso ufficialmente i colloqui bilaterali.

La Cina ha anche frenato il turismo assai redditizio, che ha portato milioni di visitatori dalla all’isola durante la presidenza di Ma Ying-jeou del Kuomintang. Inoltre sono stati colpiti gli investimenti sull’isola. Un serio problema per tanti lavoratori che hanno perso il lavoro. La Cina dunque può essere un’opportunità ma può anche essere determinante negli equilibri interni. Visto l’indebolimento dell’egemonia americana sul continente asiatico si intensificano i rapporti tra Cina popolare e gli altri paesi che storicamente gravitano nell’area americana. Uno di questi è Malesia. Secondo il New York Times: “con la presidenza Obama agli sgoccioli, la leadership cinese sta approfittando del momento per sgretolare la politica in Asia del presidente, offrendo proposte economiche e militari attraenti ai tradizionali alleati degli Stati Uniti nella regione”. Rincara la dose il Washington Post che si chiede se, sulla scia di Duterte, sarà proprio la Malesia ad “abbracciare” la Cina.

Nonostante (come nel caso filippino) esistano controversie di sovranità sulle acque del Mar cinese meridionale, il primo ministro malese Najib Razak, giunto a Pechino, ha espresso la volontà di acquistare veloci motovedette cinesi in grado di trasportare missili nell’ambito di quello che viene definito come il “primo significativo accordo in materia di difesa” tra i due Paesi. Già Cambogia, Laos, Tailandia e Indonesia hanno formalizzato crescenti legami economici con la Cina. Gli Stati Uniti rimangono a contare sulle dita d’una sola mano i pochi paesi fedeli alla linea che peraltro coincidono con i paesi in stagnazione Giappone, Australia, Corea del Sud con i quali gli USA non possono circondare alcunché.

Pechino gestisce a livello bilaterale le controversie con i Paesi vicini, dodici paesi su quattordici hanno firmato intese congiunte e così mette in crisi la strategia politico-militare statunitense.  Il TPP è lo strumento per mantenere la supremazia americana in Asia escludendo la Cina e dettando le proprie regole nell’Asia Pacifico. Ora l’elettorato americano timoroso delle conseguenze per la perdita dei posti di lavoro in patria ha costretto i due candidati alla presidenza a mandare tutto all’aria.

Il TPP era l’asse dell’accerchiamento anti-Cina. La Cina invece ha dato una sua risposta che sembra funzionare egregiamente ossia il partenariato economico globale regionale (RCEP) con più di cinquanta paesi membri in tutto il mondo, compresi i dieci paesi che costituiscono l’Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico (ASEAN), più Australia, India, Sud Corea e Nuova Zelanda. Paesi che rappresentano la metà della popolazione mondiale e il 30% del Pil globale. La Cina è il maggiore finanziatore e Washington non è stata invitata. Il presidente peruviano Pedro Pablo Kuczynski, dato ormai per defunto con la vittoria di Trump il TPP, ha chiesto un nuovo accordo commerciale che coinvolga oltre a Pechino anche Mosca e non per forza gli Stati Uniti. Nella sostanza il RCEP il partnernariato proposto dai cinesi.

Barack Obama ha ormai rinunciato al TPP tenendo conto della vittoria di Donald Trump. Il Congresso a maggioranza repubblicana lo avrebbe comunque respinto.

James Woolsey, ex direttore della CIA e consigliere del Presidente Donald Trump su sicurezza nazionale e intelligence condanna l’opposizione dell’amministrazione Obama all’apertura alla Cina, soprattutto la decisione di non aderire alla proposta di Pechino della Asian ­Infrastructure Investment Bank.

In un articolo su South China Morning Post, James Woolsey, sostiene che il rifiuto di Washington sarebbe stato un “un errore strategico” e prevede una risposta “molto più calorosa” da parte di Trump al Presidente Xi Jinping sull’iniziativa “One Belt, One Road”.  Gli Stati Uniti e il Giappone sono i due soli paesi del G7 che non hanno aderito al AIIB, visto come una mossa di Pechino con l’ambizione di esercitare maggiore influenza regionale. Woolsey sotiene che Trump dovrebbe aderire alla AIIB e sostenere gli sforzi della Cina per rilanciare le rotte commerciali lungo l’antica via della seta, come segno di buona volontà di Washington per spianare la strada per futuri accordi.

Wang Huiyao, direttore del centro per la Cina per la globalizzazione, un think tank di Pechino, ha detto: “La Cina potrebbe invitare gli Stati Uniti a partecipare la AIIB dopo l’insediamento di Trump.” La presidenza di Trump non sarebbe necessariamente un male per il legami economici Sino-americano nonostante la sua retorica anticinese onnipresente in tutte le campagne elettorali dagli anni novanta in poi. Le prime mosse di Trump prevedono un incontro a tempi brevi con l’omologo cinese.

L’America ha una storia ingloriosa di guerre, massacri, colpi di stato, ecatombi nucleari che riguarda una lista lunghissima di paesi asiatici: Corea, Giappone, Vietnam, Laos, Cambogia, Filippine, Indonesia, Malesia, Afghanistan, Pakistan ecc e potrebbe essere meno popolare di quanto normalmente si crede. L’arma della Cina non sono nè le bombe nè le rivoluzioni colorate ma gli utilissimi quattrini per creare infrastrutture e sviluppo, gasdotti ed oleodotti, treni ad alta velocità, finanziamenti attraverso l’Asian Infrastructure Investment Bank, il tutto nella strategia vincente della Nuova Via della Seta.

 

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