IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO E LA QUESTIONE EUROPEA

di Ufficio Stampa

(Qui di seguito presentiamo la trascrizione della relazione introduttiva di Bruno Steri alla prima riunione del gruppo di lavoro su Unione europea ed euro, tenutasi lo scorso 19 novembre, integrata con i contributi dei compagni presenti.)

Cari compagni, in accordo col segretario, con la Presidente del Comitato centrale e con il responsabile del dipartimento Esteri abbiamo convenuto di rompere ogni indugio e convocare una prima riunione che ponga in cima all’agenda del partito la delicata tematica dell’Unione europea e della sua moneta unica, sia sul piano di un ulteriore approfondimento analitico sia su quello delle proposte operative. I due piani sono con ogni evidenza strettamente correlati: non si può infatti operare un salto di qualità sul terreno della concreta iniziativa senza un’articolata riflessione che coinvolga il corpo del partito e il suo gruppo dirigente – Segreteria, Direzione, Comitato centrale – e che precisi ulteriormente e con nettezza la posizione del PCI. Beninteso, non partiamo da zero. Nel merito abbiamo già avuto modo di esprimerci con iniziative e importanti momenti di discussione: ricordiamo in proposito, oltre alle specifiche indicazioni contenute nelle nostre Tesi, l’incontro “Liberare i popoli” promosso a Roma da ricostruirepc , con l’autorevole partecipazione di politici ed economisti, la discussione e il pronunciamento determinatisi in occasione dell’Assemblea nazionale costituente di Bologna, la partecipazione del segretario Mauro Alboresi al convegno internazionale tenutosi a Chianciano lo scorso ottobre, la partecipazione del PCI al coordinamento di forze politiche e sociali Eurostop. Ora l’obiettivo è quello di compiere insieme un altro passo in avanti, così da porci in grado di organizzare per i primi mesi del prossimo anno un incontro sul tema, con la presenza e il contributo di altri Partiti Comunisti europei. Non può sfuggire l’importanza di una problematica che campeggia, al pari della questione immigrazione, in primo piano sulla scena politica. Certo, data la modestia delle forze oggi disponibili (dei comunisti e della sinistra di classe in generale), non possiamo pretendere di dettare nel merito l’agenda del governo italiano. Possiamo e dobbiamo però far crescere a sinistra un orientamento intorno a questioni che gravano sulle condizioni di vita delle classi subalterne e che risultano assolutamente discriminanti sul piano della collocazione politica. Dopo la riunione di Bratislava, l’establishment Ue si è dato appuntamento a Malta per il prossimo gennaio e, successivamente, a Roma per il mese di marzo. E’ essenziale che, lungo tale percorso, si faccia sentire la voce dei comunisti.

Unione europea: a) i dati di un disastro

Provo quindi a fare il punto sul tema proponendovi una larga parte analitica, su cui non penso possano sorgere grosse divergenze di interpretazione, e una parte finale più complessa sul che fare: nella prima si tratta prevalentemente di prendere in seria considerazione alcuni dati evidenziati dalla letteratura economica non mainstream, mentre alla seconda compete di offrire – alla luce della precedente – elementi utili per la costruzione di un coerente orientamento politico. La tesi centrale della prima parte è la seguente: il progetto di un’Unione europea come comunità politicamente progressiva e socialmente solidale è fallito in quanto esso ha viceversa proposto (e sin dall’inizio formalizzato in Trattati) una società a misura degli interessi del grande capitale finanziario e a discapito della stragrande maggioranza della popolazione. Inoltre, come conseguenza della competizione tra capitali più forti e capitali più deboli nonché a dispetto della denominazione utilizzata (“Unione”), non vi è stato alcun processo di integrazione tra Paesi membri, ma al contrario l’ulteriore divaricazione di economie già in partenza diseguali.

A comprova di tali tesi, sono particolarmente significativi i risultati di un’indagine Nomisma, la società di studi economici che ha avuto Romano Prodi quale primo coordinatore dell’attività di ricerca. Il capo economista di questo think tank Sergio De Nardis ha recentemente messo in fila i dati del “potenziale manifatturiero” dell’Italia e in generale dei Paesi dell’Eurozona a partire dall’introduzione della moneta unica: si tenga presente che la produzione potenziale manifatturiera, ottenibile quando la capacità produttiva è pienamente utilizzata, si esprime in intensità (il potenziale di ogni singola impresa) e in estensione (il numero di imprese operative). Ebbene, l’indagine evidenzia per il nostro Paese un “ridimensionamento di base produttiva senza precedenti nella storia italiana, se si fa eccezione per le distruzioni della Seconda guerra mondiale” (Nomisma 2015). Focalizzando l’attenzione sul confronto tra Italia e Germania, “si vede che il nostro Paese aveva all’inizio della moneta unica una capacità manifatturiera per abitante superiore a quella dell’economia tedesca. Secondo questa misura, dunque, l’Italia era più industrializzata della Germania in rapporto alla popolazione. Tale vantaggio si è annullato a metà dello scorso decennio, per la sostanziale stabilità del potenziale italiano e l’aumento di quello tedesco. A partire dal 2007, con l’esplodere della crisi, il gap è divenuto negativo, allargandosi sempre di più nel corso degli anni, principalmente a seguito della caduta dell’industria italiana” (ibid.). Va sottolineato il fatto che la divaricazione si approfondisce col deflagrare della crisi capitalistica, ma inizia il suo corso ben prima, con l’introduzione dell’euro: “Una divergenza di andamenti tra le economie è, in realtà, osservabile sin dalle origini della moneta unica” (ibid.). In Italia, l’involuzione è ben visibile anche sotto il profilo del calo del numero di imprese manifatturiere, che tra il 2002 e il 2007 diminuiscono di 7.700 unita all’anno (Ateco 2002) e, dal 2008 in poi, di 10.600 l’anno (Ateco 2007). All’opposto, la Germania incrementa il numero delle unità produttive e, tramite questo, la capacità di produzione. Sono dati come quelli sopra menzionati che ad esempio hanno lasciato più che perplesso il dirigente della Linke Oskar Lafontaine, facendogli dire: “A me, osservatore tedesco, risulta molto difficile capire perché l’Italia ufficiale assista più o meno passivamente alla perdita del 30% delle quote di mercato delle sue industrie” (Lettera alla Sinistra, Micromega). Né può sorprendere il fatto che il reddito pro capite degli italiani, fino al 1996 grosso modo in linea con quello degli altri Paesi Ue, da quella data prenda inesorabilmente a scendere.

Ma soprattutto l’indagine di Nomisma mette in evidenza che quel che vale per l’Italia vale in generale per i Paesi dell’area mediterranea in contrapposizione ai Paesi del Nord Europa: si è cioè in presenza di un vero e proprio “processo di polarizzazione geografica centro-periferia”. Il potenziale manifatturiero infatti decade in Grecia, Portogallo, Spagna, Italia e Francia (in misura sempre meno pronunciata dal primo verso l’ultimo); mentre aumenta o si consolida in Germania, Olanda, Austria e Finlandia. Qui non c’è molto da interpretare, i dati sono dati. E anche se questo tipo di notizie cadono nel più assordante silenzio dei media ufficiali, non è difficile trovare ulteriori conferme di tale drammatica situazione. Ad esempio, Emiliano Brancaccio non ha cessato di sottolineare la progressiva accentuazione delle divergenze tra tassi di insolvenza dei capitali dell’Eurozona: in Paesi come la Germania e l’Olanda, il numero di imprese dichiarate insolventi ha continuato a calare, mentre in Grecia, Spagna, Portogallo, Italia ha continuato a crescere. Ciò ovviamente comporta conseguenze assai sgradevoli: “Al divario tra i dati sulle insolvenze segue poi, logicamente, un’accelerazione dei processi di acquisizione dei capitali deboli ad opera dei più forti (…) Stando alle dinamiche in corso, in un arco di tempo non particolarmente esteso i Paesi periferici dell’Unione potrebbero essere ridotti al rango di fornitori di manodopera a buon mercato o, al più, di meri azionisti di minoranza di capitali la cui testa pensante tenderà sempre più spesso a situarsi al centro del continente” (Uscire dall’euro? C’è modo e modo, Micromega). Nel merito, in un recente articolo pubblicato sul nostro sito, il segretario della Fgci Francesco della Croce ha correttamente ricordato, a proposito dell’impoverimento del nostro Paese, che non a caso per Antonio Gramsci “la sovranità deve essere una funzione della produzione” (Un’altra Europa è possibile, un’altra Ue no). Al contrario, l’evoluzione sopra evidenziata mostra una tendenza in atto verso una sperequata specializzazione per aree economiche all’interno di una stessa zona valutaria, sulla cui base da un lato si va verso il monopolio manifatturiero (tedesco) e dall’altro verso la desertificazione produttiva (in particolare del Mezzogiorno d’Italia).

Unione Europea: b) da big government a small government

Come si spiega un tale disastro? Parlare di “errori” è improprio. Più utile è illustrare gli effetti di un orientamento funzionale al grande capitale finanziario: effetti che sono stati sin dall’inizio socialmente rovinosi nonché disgreganti dal punto di vista della tenuta della compagine europea nel suo complesso. Quest’ultima si è trovata a dover fronteggiare gli squilibri causati dai differenziali di competitività esistenti al suo interno e, in particolare, la divaricazione nell’andamento delle bilance commerciali. La strada scelta per tentare un riequilibrio è stata quella dell’abbattimento del costo del lavoro per unità di prodotto, con l’obiettivo di incrementare la produttività dei Paesi “periferici” e sanare i loro conti con l’estero. In sostanza si è addossato l’onere sulle spalle dei Paesi debitori: ma il risultato è stata la distruzione della domanda interna. Il caso Grecia è a tal riguardo paradigmatico. La medicina somministrata si è rivelata per il grosso della popolazione molto peggiore del male e le contraddizioni, anziché affievolirsi, si sono accentuate: i salari reali sono crollati, i tagli alla spesa pubblica hanno compresso l’erogazione di servizi essenziali; ma anche i conti con l’estero sono peggiorati e il debito pubblico ha continuato a lievitare. Gli unici a guadagnarci sono stati i creditori (in particolare, banche tedesche e francesi), cui è ritornato il grosso dei cosiddetti “aiuti” concessi alla Grecia dall’Ue in cambio dei tagli draconiani. Il dramma greco rappresenta l’esito più estremo determinato da un medesimo orientamento di politica economica, quello imposto da Bruxelles (e Berlino).

In effetti, non si può capire nulla di quel che si è prodotto con la nascita dell’Unione europea e l’inaugurazione dell’euro se non si fissano i contorni di quello che è stato un epocale cambio di paradigma. Ricapitoliamo brevemente. Il 1° gennaio 1999 l’euro debutta ufficialmente sui mercati finanziari e il 1° gennaio 2002 entra effettivamente in circolazione in 12 Paesi dell’Ue. Ma le regole che presiedono a tale nascita sono prescritte ai singoli Paesi sin dal 1992, col Trattato di Maastricht: limite massimo del deficit pubblico al 3% del Pil; limite massimo del debito pubblico al 60% del Pil; limite massimo del tasso di inflazione all’1,5% rispetto alla media del Pil dei tre Paesi a più bassa inflazione. Italia e Belgio sono ammessi pur sforando il parametro del debito, la Grecia lo è anche se sfora tutti i parametri. La Commissione europea vigila sul rispetto di tali regole e sul rientro di chi le viola; la Banca Centrale Europea, in sintonia con la sua mission, ha il compito prioritario di controllare il tasso di inflazione. Questo evento ha rappresentato l’epilogo di una svolta storica che ha cambiato i fondamenti su cui era stata costruita la nostra Repubblica. L’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale, memore della grande crisi che aveva investito il mondo capitalistico negli anni 30, avviò la ricostruzione materiale e morale del Paese sulla base di una forte presenza pubblica nell’economia e della promozione di una società socialmente più equilibrata. Come ricorda Vladimiro Giacché nel suo Costituzione italiana contro Trattati europei, fu questo il compromesso sociale che produsse l’avvento del Big Government, di un capitalismo interventista teso a stabilire la propria egemonia sulla base dei principi della democrazia costituzionale e del riconoscimento del diritto al lavoro. Non a caso fu questa la temperie storica in cui venne alla luce la Costituzione italiana e in cui il Partito Comunista concepì la prospettiva di una “democrazia progressiva”.

Con l’Unione europea è tornato lo Small Government, lo Stato minimo e l’onnipresenza del mercato capitalistico (il laissez-faire, il lasciar fare alle regole del mercato). Ma con ciò si è compiuto il coronamento di un lungo processo di recupero di potere da parte delle classi dominanti. Nel nostro Paese, un passaggio fondamentale di tale involuzione è stato il divorzio tra Banca d’Italia e governo, promosso nel 1981 dall’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e dal governatore della Banca d’Italia Carlo Azelio Ciampi. Da allora in poi la nostra banca centrale è stata esentata dal compito di sostenere la spesa pubblica attraverso l’acquisto di titoli del debito pubblico, lasciando così tale funzione al libero gioco del mercato e dei privati. Non più calmierati, i tassi d’interesse hanno preso a gonfiare il nostro debito che, nel giro di dieci anni, è passato dal 58% al 120% del Pil. Detto per inciso, rievocare il suddetto momento critico serve a demistificare la litania del taglio della spesa pubblica, continuamente propinataci quale soluzione di tutti i problemi dai cantori dell’ideologia dominante. Basterebbe guardare all’andamento del rapporto tra spesa corrente primaria (spesa pubblica al netto degli interessi) e prodotto interno lordo in Italia e in Germania, nei vent’anni successivi al 1980, per vedere che non ci sono grandi differenze nell’incremento di spesa corrente primaria dei due Paesi: la differenza sta appunto tutta nella spesa per interessi (e poi, con la moneta unica, nella crescita piatta) a netto svantaggio dell’economia italiana.

Unione europea: c) indipendenza della Bce, centralizzazione della politica economica e monetaria

Con il varo dell’Ue – con l’accentramento della politica monetaria in capo ad un organismo indipendente quale è la Bce e con la sottrazione delle politiche fiscali e di bilancio all’autonoma disponibilità dei singoli governi – la dogmatica liberista è divenuta un imperativo scolpito nei Trattati: è il trionfo di Friedrich von Hayek, economista liberista per eccellenza, il quale per impedire il finanziamento dell’intervento pubblico predicava precisamente lo sganciamento della creazione di moneta dal controllo dei governi. Come è noto, i Trattati Ue vietano il finanziamento del debito dei singoli Stati (art.125 TUE), impedendo quella che dovrebbe essere una normale funzione di politica monetaria esercitata da una banca centrale: creare liquidità per fornire allo Stato risorse da spendere in servizi essenziali (politica industriale, sanità, istruzione ecc). Paradossalmente, in tempi di deflazione e con livelli drammatici di disoccupazione , l’unico assillo formalmente concesso alla Banca centrale europea è il contenimento dell’inflazione.

Nel nostro Paese, la creazione dell’Ue e il varo dell’euro erano stati presentati come il passo necessario per tenere i tassi d’interesse agganciati a quelli tedeschi e porre così un freno all’inarrestabile crescita del debito pubblico (la cui vera causa abbiamo visto poco sopra). La contropartita è stata la rinuncia alla propria sovranità monetaria, oltre all’applicazione di rigorosi piani “di aggiustamento strutturale” (leggi: contenimento della dinamica salariale e della spesa pubblica): ne sa qualcosa la Cgil, che proprio nella prima metà degli anni 90 avviò la stagione ”concertativa” (pagando prezzi talmente pesanti da determinare le dimissioni del suo segretario generale Bruno Trentin). La crisi sistemica in cui a partire dal 2008 è precipitato il modo di produzione capitalistico ha poi ulteriormente aggravato le condizioni di permanenza nell’Eurozona. Come è noto, i parametri di Maastricht sono stati ulteriormente inaspriti da successivi patti, che hanno ridotto a zero la tolleranza sul deficit pubblico e stabilito una tempistica ultra-rigorosa per il rientro dal debito, oltre a un totale potere di condizionamento da parte di Bruxelles e a più severe sanzioni in caso di infrazione (vedi Fiscal Compact, Two Pack e Six Pack).

In ogni caso, quale fosse la stella polare dell’Unione europea era ben chiaro sin dall’inizio. In una ben argomentata analisi, Sergio Cesaratto (Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga e come uscirne) ha sottolineato come, col deflagrare della crisi greca e da questa in poi, le politiche di Bruxelles abbiano unicamente puntato a tutelare i creditori esteri: la cosiddetta austerity non è affatto servita ad abbattere il debito pubblico bensì a consentire ai Paesi debitori un avanzo commerciale (ovviamente ai danni dei consumi interni) così da ripianare il debito estero. Tuttavia, determinando l’impoverimento dei suddetti Paesi, ciò non è servito a mettere in sicurezza la solvibilità delle loro economie e più in generale del sistema euro come tale. Il campanello d’allarme suonato dai mercati è risuonato all’interno della Bce: il divieto – esplicitato nei Trattati – di creare liquidità a sostegno delle esigenze primarie dei singoli Stati, non ha infatti impedito al governatore della Bce Mario Draghi un’interpretazione flessibile dei medesimi, per correre ai ripari quando un’ottusa applicazione del rigore monetario avrebbe potuto far saltare il banco. Nonostante i mugugni dei più oltranzisti di Bruxelles e Berlino, nel 2012 Draghi si è deciso a dichiarare la disponibilità della Bce a intervenire con acquisto di titoli di stato dei Paesi in sofferenza (tra cui l’Italia), pur di arrestare l’allora montante ondata speculativa e tentare di mettere in sicurezza la moneta unica e la stessa Ue. Un tale (contrastato) approccio “flessibile” è proseguito negli anni successivi, con le misure di quantitative easing (letteralmente: facilitazioni quantitative) tese a fornire liquidità ad un sistema finanziario paralizzato e ossigeno all’economia bloccata dalla crisi. Ciò non è servito a riavviare la macchina (le aziende non chiedono soldi e non investono se non vedono prospettive di profitto). In ogni caso, le provvidenze di Draghi non erano gratuite. Infatti, il messaggio è stato ed è a tutt’oggi il seguente: la Bce fa il suo dovere in ambito monetario, i governi devono fare il loro (i “compiti a casa”) in tema di politiche fiscali e del lavoro. Detto fatto: da tale logica, ad esempio, sono derivati il Jobs Act di Renzi e la Loi du travail di Hollande, con la libertà di licenziare senza giusta causa e l’attacco alla contrattazione collettiva di lavoro. Inoltre, se è vero che Draghi ha utilizzato un’interpretazione riequilibratrice delle regole monetarie dei Trattati, per aumentare la liquidità del sistema finanziario e comprare sui mercati debito dei Paesi più fragili, va altresì sottolineato che egli ha esercitato tale funzione con estrema (e unidirezionale) discrezionalità. Le scelte degli ultimi anni sono lì a dimostrarlo: nel 2011 la Bce nega liquidità all’Irlanda (il cui governo è costretto ad accollarsi tutto l’onere finanziario triplicando il debito pubblico); nella seconda metà del 2011 la nega all’Italia (lasciando agire il panico generato dall’impennata dello spread, fino a spingere il governo Berlusconi alle dimissioni); nel 2013 minaccia di negarla a Cipro (forzando il governo cipriota a mettere nel conto il prelievo forzoso dai conti correnti); e infine, last but not least, la nega alla Grecia di Tsipras, con le note conseguenze. Il potere di ricatto di una banca centrale sottratta a qualsiasi controllo da parte di assemblee parlamentari elette dal popolo esprime bene il vulnus inferto alle istituzioni democratiche da questa Europa: da un’Unione europea insofferente ai condizionamenti di libere elezioni e referendum e, di contro, affidata all’inesorabile guida di un “pilota automatico”.

In definitiva, l’esperienza di questi anni ci obbliga a prendere atto della strutturale contraddittorietà dell’impianto con cui ha preso forma l’Unione europea: oggi non possiamo non trarre le conseguenze politiche della sua irriformabilità. E’ stato correttamente osservato che a quelli che continuano a chiedere “più Europa” bisognerebbe rispondere che, a questo punto, il problema non è “quanta Europa” ma “quale Europa”. E che sarebbe ora di cambiare risolutamente strada.

Una questione nazionale

Prima di passare al “che fare”, conviene subito annotare che le vicende sin qui esposte propongono oggettivamente il configurarsi di una nuova questione nazionale. E poiché sappiamo che ciò ha indotto in qualcuno anche a sinistra qualche perplessità, è bene in proposito rendere esplicite alcune precisazioni: ricordando innanzitutto che – banalmente – c’è una totale contrapposizione tra l’approccio al tema di un Matteo Salvini e quello di un Antonio Gramsci, tra chi cioè predica un regressivo ripiegamento nazionalistico e chi si propone di costruire un’opposizione vincente al blocco di potere capitalistico transnazionale, scegliendo di volta in volta nel conflitto di classe i terreni di lotta più favorevoli alle classi popolari.

Sulla base di una tale consapevolezza, non può essere trascurato il fatto che gli ultimi mesi hanno visto tutti noi strenuamente impegnati nella difesa e, possibilmente, il rilancio della nostra Costituzione del ’48, la Costituzione nata dalla resistenza al nazifascismo. Né può sfuggire che questa Costituzione, oltre a subire l’attacco da parte della controriforma renziana, è gravemente insidiata e purtroppo già sfigurata – nella sua lettera e nella sua ispirazione profonda – proprio dalle prescrizioni dei Trattati Ue. In effetti, assecondando i suggerimenti della grande finanza internazionale (che aveva direttamente auspicato la revisione di quelle costituzioni nazionali che in Europa mantengono l’impaccio di un residuale spirito “socialisteggiante”), il 20 aprile 2012 è stata approvata dal parlamento italiano una legge costituzionale che modifica l’articolo 81, introducendo nella nostra carta fondamentale il cosiddetto “pareggio di bilancio”. Non si tratta di un dettaglio. Com’è noto, con tale norma si impedisce al governo in carica di operare in deficit, imponendo viceversa un equilibrio meramente contabile del bilancio pubblico. In tal modo – considerando qualunque impegno di spesa che sfori la parità di bilancio alla stregua di una dissipazione, indipendentemente dalla qualità della spesa medesima – è stato rimosso un fondamento delle politiche riformiste che consentirono uno sviluppo socialmente progressivo nel secondo dopoguerra dello scorso secolo. Il Partito Democratico (tutto il Partito Democratico) ha votato un tale scempio, mandando in soffitta oltre a Marx lo stesso Keynes e chiudendo esemplarmente la parabola della sua involuzione.

Una possibile replica a quanto detto è quella di chi ricorda che l’applicazione del pareggio di bilancio prevede comunque una certa flessibilità nel caso di eventi eccezionali che richiedano spese straordinarie o in considerazione di fasi economiche particolarmente critiche. Ciò è solo formalmente vero, poiché nella sostanza è la Commissione europea ad avere l’ultima parola sulla rilevazione della misura secondo cui una tale tolleranza debba concretizzarsi: e disgraziatamente, per la definizione di tale misura, a seconda dei sistemi di calcolo utilizzati si possono ottenere – e nel recente passato sono stati ottenuti – risultati assai diversi (lasciando inevitabilmente la porta aperta al dubbio che dietro gli esercizi contabili partoriti dalla supervisione di Bruxelles possano celarsi decisioni squisitamente politiche). Inoltre c’è da aggiungere che, particolarmente in economia, nessun metodo d’indagine è del tutto neutro rispetto agli interessi di classe: una tale implicazione si evidenzia clamorosamente nel caso dei controlli della Commissione europea. Spetta infatti a quest’ultima decidere quale sia l’ “indebitamento strutturale” di un Paese, cioè il saldo di bilancio al netto delle variazioni indotte dalle oscillazioni (negative) del ciclo economico e che quindi non possono essere attribuite all’azione discrezionale dei governi: in tal modo ci si propone di verificare l’effettiva virtuosità contabile del governo in questione. Per il calcolo di tale parametro viene utilizzato un “tasso di disoccupazione d’equilibrio”, con cui si intende il livello minimo cui il tasso di disoccupazione può scendere, in quanto al di sotto di esso si ingenererebbero dinamiche inflazionistiche. Ebbene, il tasso di disoccupazione d’equilibrio al di sotto del quale secondo Bruxelles in Italia non si dovrebbe scendere ha continuato a lievitare, passando dal 7,5% del 2011 all’11,4% del 2015. Con buona pace degli obiettivi di piena occupazione. Dovrebbe bastare un simile micidiale dato per indurre un governo di sinistra a porre un secco aut aut ai tecnocrati della Commissione e all’Ue in quanto tale. Purtroppo per ora non è alle viste alcun governo di sinistra.

In compenso abbiamo una Corte Costituzionale che non esita a porre il suo autorevole veto rispetto a provvedimenti promossi dal governo sulla base degli indirizzi comunitari ma che violano il nostro dettato costituzionale. E’ quello che ad esempio è accaduto nell’aprile 2015, quando una sentenza della Corte ha dichiarato illegittimo il blocco della rivalutazione delle pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo Inps per il biennio 2012-2013, contenuto nel decreto cosiddetto “Salva Italia” già emanato nel 2011 dal governo Monti: nella circostanza, la Corte ha riconosciuto la primazia dei diritti dei pensionati, tutelati dalla carta costituzionale, rispetto alle esigenze contabili prescritte da Bruxelles e disciplinatamente tramutate in legge dal governo italiano. Non serve aggiungere altro per comprendere che Trattati Ue e Costituzione italiana vanno in rotta di collisione sul piano dell’ispirazione di fondo, dei principi che sovrintendono al vivere associato. Difendere la nostra Costituzione dal pervasivo attacco del neoliberismo, preservandone la preminenza giuridica e di orientamento politico generale, è un modo giusto di ridare valore – il valore di una lotta progressiva – ad una questione nazionale che, nella fattispecie, fa tutt’uno con la tenuta degli assetti democratici.

Lavorare ad un’alternativa

E’ evidente che il tema della sovranità nazionale si intreccia con quello del che fare, della ricerca di una percorribile linea di rottura con questa Unione europea e di una realistica via d’uscita da quella che è stata definita la “gabbia dell’euro”. All’indomani del fallimentare esito del confronto tra la Ue e la Grecia di Alexis Tsipras, in effetti ha preso ad allargarsi il numero di politici, intellettuali, economisti , convinti della necessità di un superamento dell’attuale situazione. Nel testo già citato, Oskar Lafontaine ha posto il problema in termini chiari e lapidari: “ (Ci si chiede) quali possibilità abbia un governo guidato da un partito di sinistra , o un governo in cui un partito di sinistra sia coinvolto come partner di minoranza, di portare avanti una politica di miglioramento della condizione sociale di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, e delle piccole e medie imprese, nel quadro dell’Unione europea e dei trattati europei. La risposta è chiara e brutale: non esistono possibilità per una politica tesa al miglioramento della condizione sociale della popolazione, fintanto che la Bce, al di fuori di ogni controllo democratico, è in grado di paralizzare il sistema bancario di un Paese soggetto ai trattati europei “. Finché i governi dell’Europa mediterranea saranno sottoposti alle regole dell’Unione europea e dei suoi Trattati, finché ad essi sarà precluso il ricorso ai normali e autonomi strumenti di controllo macroeconomico (politica dei tassi d’interesse, politica dei cambi, politica di bilancio), sarà impossibile per essi sottrarsi ad un destino di impoverimento industriale e di disoccupazione. Dire questo non significa affatto cedere a pulsioni nazionalistiche: anzi, la storia recente – e in particolare quella dell’Ue – insegna che il trasferimento di tali funzioni ad autorità di livello sovranazionale apre la strada all’approfondirsi delle contraddizioni di classe imposte dal neoliberismo e al diffondersi – per contrasto – del nazionalismo reazionario. Consegnati ad un contesto in cui l’esistenza di una moneta unica preclude ai singoli Paesi la possibilità di svalutare una propria moneta (così da dare ossigeno all’export) e in cui si impedisce il ricorso alla spesa pubblica per investimenti, ai Paesi “periferici” non resta che stringere i cordoni della politica salariale e del mercato del lavoro. Solo così infatti diventa possibile reggere la “forte competizione” interna all’area, peraltro auspicata con furore ideologico dai Trattati, e migliorare la produttività, rispondendo alle politiche di dumping salariale praticate dai Paesi “centrali”, Germania in testa (va infatti ricordato che il vertiginoso surplus tedesco dei conti esteri ha potuto prendere il largo grazie alla (contro)riforma del mercato del lavoro varata dall’allora primo ministro Schroeder e grazie ad una spinta moderazione salariale, concretizzatasi tra il 1999 e il 2013 in una crescita dei salari monetari equivalente alla metà della media di tutta la zona euro).

Occorre in definitiva trarre le conseguenze politiche di una pesante constatazione: per le lavoratrici e i lavoratori, per la sinistra, per i comunisti, l’Unione europea è un problema; e l’euro è al cuore del problema. Tutte le consultazioni referendarie che nel corso di questi anni hanno consentito di esprimersi in merito hanno confermato l’ostilità di ampi settori popolari nei confronti di Bruxelles: hanno da subito cominciato francesi e olandesi, lo hanno ribadito più recentemente greci e inglesi. Oggi è incombente il pericolo che le destre imprimano un segno reazionario a tale diffusa opposizione, ad esempio strumentalizzando il tema dell’immigrazione e enfatizzando pulsioni di chiusura autarchica e xenofoba. La sinistra di classe e, in essa, i comunisti non possono stare a guardare, lasciando senza una sponda politica i genuini contenuti di classe dell’opposizione all’Ue e alle sue politiche antipopolari. Ciò vale a maggior ragione in considerazione del fatto che nel 2017 importanti scadenze elettorali metteranno alla prova le scelte dei due Paesi “guida” dell’Unione, la Germania e la Francia: Paesi che hanno visto lievitare in questi mesi i consensi alle destre anti-Ue. Mentre portiamo a termine la trascrizione della presente relazione, in un altro Paese essenziale per la tenuta della compagine europea, l’Italia, un’importante consultazione referendaria ha sanzionato la crisi definitiva del suo governo: un governo inadeguato anche sul fronte dei rapporti con l’Unione, capace di alzar la voce propagandisticamente a Roma, ma nella sostanza del tutto prono alle prescrizioni di Bruxelles e Berlino. Non sarà un caso se la tedesca Angela Merkel è l’unica leader restata in sella, tra i Paesi maggiorenti dell’Eurozona.

A sinistra c’è chi sostiene che si debba andare avanti tenendo conto del quadro globale, senza tornare indietro ad una perdente dimensione nazionale. In relazione alla questione dell’Unione europea e della sua moneta unica, si può anche sostenere ciò (ed anche con qualche legittima preoccupazione), ma bisogna sapere che se lo si fa senza aggiungere nulla sul che fare, di fatto ci si consegna allo status quo. Dobbiamo invece evitare come la peste una condizione di stallo: non si può esprimere un giudizio categorico e negativo sull’irriformabilità dell’Unione europea e sul carattere strutturale del suo impianto monetario, per le motivazioni esposte in questa relazione, e poi non offrire alcuna ipotesi alternativa, conseguente e concreta. In politica non esiste il vuoto: laddove si crea, qualcuno verrà ad occuparlo. Non vorremmo che fossero le destre. Com’è noto, in questi anni abbiamo provato a “riformare” l’Ue, opponendoci alle regole di Maastricht e dei Trattati, per così dire ”dall’interno”. I risultati sono sotto i nostri occhi: in particolare, va segnalato che oggi i lavoratori europei, oltre a stare peggio di ieri, sono anche più divisi di ieri. La ragione è che non ci siamo confrontati semplicemente con politiche sbagliate: ci siamo trovati davanti ad un consapevole orientamento regressivo e di classe, guidato dai “poteri forti” sovranazionali e insofferente ai lacci e lacciuoli di una democrazia partecipata (financo quella imposta dal responso elettorale: detto per inciso, in Italia è dal 2011 che non si vota più e che lorsignori decidono dall’alto, di volta in volta, l’esecutivo di turno). Non si può continuare a disquisire di Europa (magari riproponendo la rituale formula “No all’Europa della finanza, sì all’Europa dei popoli”), senza cogliere l’emergenza politica in cui stiamo precipitando e, con essa, l’urgenza dell’esplicitazione di una posizione chiara. Ciò vale ancor più alla luce della vicenda greca (che ha mostrato tutti i limiti dell’opzione “riformista”) e all’indomani della Brexit (che viceversa ha reso palese il fatto che stare senza Unione – e senza euro – non comporta alcuna “fine del mondo”).

Proposte in costruzione

Una volta reputato irrealistico l’intento di riformare l’Ue, ad esempio attraverso la rinegoziazione dei Trattati, nell’ambito della sinistra di classe europea e di molti partiti comunisti si è preso atto della necessità di pensare a un Piano B e sono state espresse proposte che mirano a individuare un concreto cammino per uscire “a sinistra” dall’impasse. Sono stati organizzati momenti di discussione comune. Su questa via anche in Italia qualcosa si è mosso per immettersi più organicamente sul terreno delle proposte compiute e del confronto operativo.

E’ evidente che – sicuramente per il contesto italiano – un primo ineludibile compito è quello di intensificare il lavoro propagandistico al fine di contrastare il clima allarmistico (fondato su una presentazione deficitaria dei dati reali) che circonda l’ipotesi di superamento della moneta unica e di deflagrazione o rottura dell’Unione europea. Al punto in cui siamo, sarebbe una scelta davvero avventuristica quella di rinunciare a far uscire dalla clandestinità le suddette eventualità; e, come detto, non vi è dubbio che l’evoluzione tutt’altro che drammatica del caso Brexit faciliti una tale opera di controinformazione. Studi recenti hanno inteso demistificare le previsioni di un distruttivo crollo del salario reale in caso di superamento dell’euro e conseguente svalutazione della moneta, fornendo dati assai più articolati concernenti 9 casi di sganciamento da un regime di cambi fissi avvenuti negli ultimi venti anni (Finlandia, Gran Bretagna, Italia e Svezia nel 1992; Repubblica Ceca e Sud Corea nel 1997; Argentina e Turchia nel 2001; Messico). Ebbene, solo in 2 casi (Argentina e Messico) su 9 si è registrato un forte calo, in altri 2 si è mantenuta una situazione stazionaria, nei rimanenti vi è stato un calo modesto. In tutti i casi, tranne uno, il salario reale è comunque tornato nel giro di cinque anni ai livelli precedenti. La conclusione è che, se non si può escludere un impatto negativo sui salari e sulla distribuzione del reddito, è però “da ritenersi risibile l’idea, molto diffusa a sinistra, secondo cui l’abbandono dell’euro comporterebbe inesorabilmente una svalutazione di tale portata da generare un crollo verticale dei salari reali”. Un punto resta tuttavia certo: “L’uscita da un regime di cambio fisso può avere o meno un impatto negativo sul potere d’acquisto dei lavoratori e sulla distribuzione del reddito nazionale a seconda che esistano meccanismi istituzionali – scala mobile, contratti nazionali, prezzi amministrati ecc – in grado di agganciare i salari alla dinamica dei prezzi e della produttività” (Uscire dall’euro? C’è modo e modo) . In definitiva, il prezzo di un uscita dall’euro può toccare interessi diversi, a seconda che dall’euro si esca a destra o a sinistra: il Partito Comunista Italiano deve cominciare a dire questo a chiare lettere alla nostra gente.

Alcuni Partiti comunisti europei lo stanno facendo. Quelli dell’area “periferica”, in particolare il Pc spagnolo e quello portoghese, hanno definito – ciascuno con una sua propria e originale analisi – una linea di rottura dell’Ue e di uscita dall’euro. Con tutti costoro va approfondito il confronto. Così come va tenuto in attenta considerazione l’appello di Oskar Lafontaine per la definizione di un Piano B di superamento dell’euro e di ritorno ad un regime di cambi flessibili: un nuovo SME (Serpente Monetario Europeo), con recupero della sovranità monetaria da parte dei singoli Paesi e la possibilità di calibrare entro limiti determinati operazioni di svalutazione e rivalutazione delle monete. Nell’intervento fatto nel corso della Conferenza “per un Piano B in Europa” (Parigi, 23 gennaio 2016), Emiliano Brancaccio ha giudicato positiva ma non sufficiente la suddetta proposta in quanto, “in una situazione di perfetta mobilità di beni e soprattutto di capitali, un Paese che tenda ad accumulare un deficit di partite correnti”, pur riacquistando la propria sovranità monetaria e potendo svalutare la propria moneta, non riuscirebbe comunque a perseguire politiche progressive di aumento dell’occupazione. Per questo, “il ritorno a una sorta di SME dovrebbe essere combinato con la possibilità di imporre controlli di capitali da e verso i Paesi che usino la deflazione per accumulare avanzi delle partite correnti” (il riferimento alla Germania è qui implicito). In altre parole, mentre le destre fanno della limitazione della libertà di movimento delle persone una loro bandiera, le sinistre dovrebbero invece tornare ad introdurre vincoli alla libera circolazione di capitali (e, se necessario, di beni): nello specifico, ciò vorrebbe dire, oltre che mettere in discussione la moneta unica, porre un freno alle sperequazioni del mercato unico europeo, ove continua ad approfondirsi il solco tra capitali (e Paesi) più forti e capitali (e Paesi) più deboli. In ciò consiste la proposta “International Social Standard sulla moneta” presentata dallo stesso Brancaccio il 7 dicembre scorso in occasione di una conferenza promossa dai parlamentari del GUE/NGL.

Nel nostro Paese, nonostante le incertezze e le difficoltà della politica, non ha mancato di svilupparsi un dibattito che ha oltrepassato la ristretta cerchia degli addetti ai lavori: ad esempio, è quello che è successo attorno alle tesi di Sergio Cesaratto. Di tali tesi, nell’economia della presente relazione, è sufficiente richiamare i seguenti punti: a) il modello euro ha consentito alla Germania di guadagnare un incolmabile guadagno di competitività rispetto agli altri membri dell’Eurozona; b) questa Europa a trazione tedesca non è riformabile e le sue scelte non sono errori ma l’espressione di un preciso orientamento, essendo costruita a tutela degli interessi dei capitali forti e dei Paesi creditori e come “strumento disciplinare delle classi lavoratrici, in particolare dell’indisciplinato Sud, Francia inclusa”; c) una larga parte della sinistra ha confuso internazionalismo con europeismo, impedendosi di comprendere che l’euro è il compimento della globalizzazione capitalistica, lo strumento con cui il capitale si sottrae al conflitto nell’unico luogo ove esso ha dato prova di potersi esplicare: lo Stato nazionale; d) non a caso, “l’Ue svuota del tutto lo Stato nazionale dei poteri monetari e fiscali, privando le classi lavoratrici del loro terreno naturale di conflitto”; e) per tutto questo, non c’è alternativa al puntare su un Italexit. Tra gli interlocutori di Cesaratto, ci limitiamo qui a citare Ernesto Screpanti il quale, muovendo dalla medesima analisi critica, ritiene tuttavia che l’eventuale “uscita dell’Italia dall’Unione europea vada intesa come una mossa tattica volta ad abbattere la dittatura ‘eurista’ e creare le condizioni per far ripartire rapidamente il processo di unificazione politica europea (dell’Europa del Sud, inclusa la Francia)”. Egli propone in sostanza un processo di federazione del Sud Europa. Non proseguo oltre. Ma, come si vede da questi rapidi riferimenti, anche in Italia c’è chi è impegnato a dare risposte alla concreta urgenza del che fare. In sintesi, si è ormai aperta una strada alternativa, ma c’è ancora una pluralità di voci sui mezzi utili a percorrerla. Occorre confrontare le suddette proposte e porle nei termini di un’operatività che sia all’altezza dell’urgenza politica e di una più diffusa consapevolezza. Spetta anche a noi, questo compito: cominciando con il programmare un incontro con i Partiti comunisti che in Europa si attestano su un orientamento affine.

Chiudo con un’ultima ed essenziale precisazione. La presente relazione ha focalizzato gli aspetti strutturali della questione, evidenziando le contraddizioni “interne” alla compagine Ue ma tralasciando, sia nell’analisi che nella proposta, elementi altrettanto dirimenti concernenti il contesto globale. E’ infatti del tutto evidente che l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Unione europea e della moneta unica porta con sé un orientamento generale nel merito dell’impegno antimperialista e delle relazioni internazionali: nella fattispecie, un’azione decisa contro le pulsioni aggressive di un’Alleanza atlantica egemonizzata dagli Stati Uniti e a favore della costruzione di un mondo multipolare in cui sia riconosciuto il ruolo progressivo dei cosiddetti Brics. Su questo essenziale versante è peraltro già all’opera il nostro dipartimento Esteri, che certamente continuerà – come ha sin qui fatto – a fornire un’informazione dettagliata sulle iniziative del partito e il necessario approfondimento sulla prospettiva immediata.

 

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