Lavoro: dall’analisi dei dati ISTAT

di Giorgio Langella, Direzione nazionale PCI

I dati più recenti continuano a raccontarci l’Italia del lavoro in forte difficoltà. È evidente che le soluzioni adottate e i correttivi proposti da chi è al governo del paese non risolvono il problema e che è assente una seria pianificazione di quanto è necessario fare.

A dicembre 2016 il tasso di disoccupazione totale è, secondo le stime fornite dall’ISTAT, “stabile” al 12% (quello giovanile risulta in crescita e raggiunge il 40,1%). I disoccupati ammontano a oltre 3,1 milioni di unità.

Negli ultimi 12 mesi, per ogni classe di età, i disoccupati sono in crescita.

disoccupati 15-24 anni 25-34 anni 35-49 anni Oltre 50 anni Totale
Dicembre 2016 644.000 877.000 1.062.000 520.000 3.103.000
Dicembre 2015 595.000 862.000 1.017.000 485.000 2.959.000
  49.000 15.000 45.000 35.000 144.000

Per quanto riguarda gli occupati, solo gli ultracinquantenni crescono. Le fasce d’età intermedie (dai 25 ai 49 anni) sono in forte calo. Quella che comprende i giovani tra i 15 e i 24 anni è praticamente stabile.

occupati 15-24 anni 25-34 anni 35-49 anni Oltre 50 anni Totale
Dicembre 2016 960.000 4.063.000 9.838.000 7.922.000 22.783.000
Dicembre 2015 959.000 4.083.000 9.987.000 7.512.000 22.541.000
  1.000 -20.000 -149.000 410.000 242.000

Questi numeri evidenziano che i disoccupati creati in 12 mesi sono il 37,3% rispetto all’aumento della forza lavoro (che è pari a 386.000 unità).

Questo invecchiamento degli occupati è certamente il risultato della riforma “Fornero” sulle pensioni che aumenta progressivamente l’età pensionabile sia quella anagrafica che quella lavorativa (i contributi versati). Il lavoro non solo non è per i giovani, ma non è neanche più un diritto. Non è una forma alta di riscatto sociale personale e collettivo l’hanno trasformato, per chi ce l’ha, a una condanna a vita.

I licenziamenti con o senza giusta causa sono in forte crescita. I voucher sono diventati una forma abituale di retribuzione del lavoro.

Di lavoro si continua a morire per infortunio (da inizio anno sono 60 i morti sui luoghi di lavoro) e per malattie professionali. La sicurezza è diventata un “lusso”. È qualcosa che costa e, quindi, nel sistema capitalista è bene venga tagliata. Bisogna risparmiare per ottenere sempre maggiore profitto. I responsabili della mancanza di sicurezza, anche se individuati, raramente vengono condannati. Le responsabilità ci sono ma l’insicurezza nei luoghi di lavoro è qualcosa che vogliono farci credere frutto del caso. I numeri, invece, ci spiegano che c’è qualcosa di più e di più strutturale. Ci fanno capire, con i fatti e non con le opinioni, che sono troppi i casi perché possano essere considerati tragiche fatalità.

I salari sono sempre più insufficienti a garantire una vita dignitosa. Nel 2016 si è registrato il più basso aumento retributivo di sempre. Secondo una ricerca OCSE un lavoratore su dieci guadagna meno del minimo salariale che dovrebbe essere garantito contrattualmente. Si vogliono cancellare i contratti collettivi nazionali e si parla di reintrodurre le “gabbie salariali” scardinando il principio fondamentale della parità di retribuzione a parità di lavoro. A fronte di tutto questo, l’evasione fiscale e la corruzione diventano endemici e raggiungono livelli impensabili.

Lo scenario del mondo del lavoro è, quindi, disperante e disperato.

Il risultato è una precarietà diffusa e una mancanza di prospettiva disarmante. Le istituzioni sembrano (e lo sono) impegnate in altre questioni. In un paese dove tutto viene trattato come emergenza, la questione della mancanza di lavoro lavoro, che è ormai strutturale, viene affrontata in maniera evidentemente non adeguata.

Le soluzioni che vengono prospettate sono le solite. Si prevedono incentivi alle imprese. Si elargisce qualche elemosina ai lavoratori o ai pensionati che rientrano in una fascia di reddito ben determinata. Si promette di andare in pensione anticipata pagando un vitalizio agli istituti di credito che prestano i soldi. Si annunciano tagli indiscriminati delle imposte. In definitiva niente di strutturale a favore dei lavoratori e del paese. Le manovre sono a favore solo di lorsignori. Per chi vive del proprio lavoro restano solo le briciole, gli slogan inebrianti. Tutto si limita a una miserabile propaganda che confonde le menti.

Intanto anche nel nostro paese la prospettiva di vita cala e questo è dovuto alla crescente povertà anche di chi vive del proprio lavoro che non può permettersi le cure necessarie alla propria salute.

Siamo di fronte a una sperequazione crescente che vede pochi individui possedere ricchezze pari a quelle di oltre la metà dell’intera popolazione mondiale. Una ingiustizia intollerabile che cresce di anno in anno. È il risultato del trionfo del capitalismo che garantisce ricchezza e privilegi a una elite fortemente minoritaria e toglie lavoro, salute e istruzione alla stragrande maggioranza della popolazione. Un sistema spaventoso che dovrebbe essere spazzato via da una normale presa di coscienza di massa. Coscienza che viene soffocata da “lorsignori” che possiedono qualsiasi fonte di informazione, che fomentano conflitti e guerre devastanti per i popoli, che piegano la cultura alla loro disastrosa ideologia che fa del profitto individuale il motore del loro mondo.

Le privatizzazioni e l’assenza dello stato nello sviluppo economico ed industriale del paese ha prodotto risultati catastrofici.

Bisogna reagire. È necessario che lo Stato (ri)diventi protagonista dello sviluppo del paese assumendo nuovamente un ruolo fondamentale di pianificazione e controllo in economia in particolare nei settori strategici industriali, finanziari e dei servizi.

Si deve agire per:

  • svuotare e cancellare il “Jobs act” con il ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ed la sua estensione a tutte le imprese;
  • confermare il contratto nazionale di lavoro come architrave dei rapporti di lavoro;
  • aumentare i salari reali di chi vive del proprio lavoro;
  • diminuire l’orario di lavoro a parità di salario percepito;
  • approvare una vera riforma fiscale che si fondi sul principio costituzionale della progressività delle imposte, che diminuisca le tasse a chi ha redditi bassi e le alzi per i redditi più ricchi, che immetta una patrimoniale progressiva sulla ricchezza;
  • aumentare la sicurezza sul lavoro (infortuni e malattie professionali) reintroducendo la piena responsabilità dei proprietari di impresa;
  • diminuire l’età pensionabile e riportare l’anzianità di lavoro a 40 anni di contributi versati;
  • contrastare le delocalizzazioni con normative che prevedano l’esproprio delle attività produttive e delle aree dismesse secondo quanto previsto in Costituzione.

Poca sicurezza, alta precarietà, basse retribuzioni, nessuna garanzia che il lavoro sia quel diritto universale sancito dalla Costituzione. Una Costituzione che su queste cose (così come su tante altre) viene puntualmente ignorata da governi che fanno scelte politiche sempre dalla parte del padrone.

Bisogna chiedere, anzi pretendere, che la Costituzione, confermata dal voto popolare del 4 dicembre, venga attuata in tutta la sua interezza. Che vengano applicati i principi e le regole che prevedono l’esproprio delle attività produttive di interesse collettivo e che decretano come prioritario il ruolo sociale dell’impresa. La nostra repubblica è fondata sul lavoro di tutti e non sul profitto di qualcuno. Questo semplice principio lo dobbiamo ricordare sempre, così come dobbiamo agire perché diventi realtà.

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