TRUMP E LA COMPETIZIONE GLOBALE

di Ufficio Stampa

Incontro/dibattito organizzato dalla Rete dei Comunisti, Roma 4 marzo 2017

Intervento di Bruno Steri

Care compagne e cari compagni,

vi ringrazio per l’invito. Partecipo volentieri a questa discussione che trovo molto importante e opportuna. Condivido infatti un punto d’analisi centrale, sottolineato dai promotori dell’incontro di oggi: l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti è certamente un fatto in sé significativo, ma anche e soprattutto un evento politico che – assieme ad altri – riveste un’importanza più generale, in quanto costituisce il segnale di un vero e proprio cambio di fase nei rapporti globali e un’inversione nel processo di globalizzazione, così come era andato imponendosi in questi ultimi due decenni. Mi pare altresì giusta l’indicazione di altri due eventi politici che – insieme a quello suddetto – sono anch’essi espressione del medesimo cambiamento epocale: il referendum inglese, che porta la Gran Bretagna fuori dall’Ue (vedremo nel prossimo anno e mezzo con quali modalità e quale tempistica) e il No italiano alla controriforma costituzionale. Tre eventi diversi, ma che hanno un fondamentale punto in comune, che articolo qui nelle due seguenti peculiarità:  tutti e tre palesano una frattura negli establishment borghesi, con la sconfitta di quelli sin qui egemoni; in tutti e tre si evidenzia il fatto che l’opinione della maggioranza si afferma contro i desiderata della classe politica dominante e nonostante il martellante frastuono della sua grancassa mediatica.

Per tornare alle presidenziali Usa, possiamo legittimamente godere per la sconfitta della signora Clinton, una candidata assai pericolosa per i destini del mondo: anche se ciò non significa affatto godere della vittoria di Donald Trump, un miliardario fascistoide ideologicamente connesso alle pulsioni profonde della provincia americana. Ha fatto bene Joaquin Arriola a sottolineare nella sua relazione che il nuovo presidente, seppure eccentrico e per certi versi sin qui imprevedibile, non può comunque esser considerato alla stregua di una presenza casuale e isolata: egli esprime un blocco di potere critico nei confronti delle precedenti amministrazioni e si incarica di rappresentare un’America stanca delle aperture globalizzanti ma tutt’altro che ripiegata su se stessa. Un’America portatrice di un protezionismo che prelude a nuovi assetti globali e ad una rinnovata aggressività armata. La critica ai fallimenti della globalizzazione, resi visibili dalla profonda e persistente crisi capitalistica, ha sancito una discontinuità e aperto una nuova fase, caratterizzata dall’inasprimento della competizione sul mercato mondiale e da un riassetto delle relazioni globali. Un riassetto che ruota comunque attorno ad un medesimo cardine: quello della tutela, costi quel che costi, dell’”american way of life” e dell’affermazione del primato degli Usa (innanzitutto militare) sul mondo.

In ogni caso, resta il fatto che Trump si è imposto contro il potere dell’esecutivo egemone, evidenziando quindi una frattura nella classe dominante Usa. Penso sia corretto interpretare tale sostanziale divergenza alla luce della contraddizione tra la frazione di classe dirigente legata alla finanza, al potere della moneta, che in questi anni ha guidato il processo di globalizzazione, e la frazione di borghesia che è più direttamente espressione dell’economia reale, legata all’apparato produttivo e ai redditi prodotti dall’economia interna. Una contraddizione che è strutturalmente immanente al modo di produzione capitalistico: come annotava Karl Marx, nel sistema capitalistico c’è sempre la tentazione di generare denaro da denaro, saltando l’ “intralcio” della produzione di merci: la quale però, prima o poi, reclama i suoi diritti sotto forma di crisi. In questo sistema sociale la crisi non è l’eccezione ma la regola.

Trump si è trovato a rappresentare gli sconfitti dalla globalizzazione. A cominciare dalla classe operaia statunitense: quando a Detroit ha minacciato di far pagare salata in termini di tasse l’eventuale delocalizzazione in Messico delle aziende automobilistiche,  egli non solo si è guadagnato il voto di un settore operaio, ma più in generale ha colpito uno dei sacri principi della globalizzazione stessa: la libera circolazione dei capitali. Detto di passata, solo degli idioti (o dei furbi) possono pensare (o fingere di pensare) che dire questo significhi essere a favore di Trump. Noi ci limitiamo a registrare ciò che accade. Piuttosto il punto è un altro. Il punto è che la famiglia democratica, dei cosiddetti Democratici, tanto in America quanto in Italia,  a furia di essere sempre più liberal e sempre meno social , ha perso la sua egemonia. Non è un caso se, negli Usa come in Italia, il mondo del lavoro o non vota più o vota a destra; se a Roma il Pd riscuote (pochi) consensi ai Parioli e ne perde (tanti) a Tor Bella Monaca. Serve a poco sbraitare contro “il populismo”, invece di riflettere sui propri errori; ed è vergognoso mischiare in tale anatema chi come noi lotta per una trasformazione sociale  e chi da destra, dietro generiche pulsioni antisistema, non a caso elude il tema del superamento del capitalismo.

L’elezione di Trump ha confermato nel Paese capitalistico più potente del mondo tale flessione politica. Vedremo poi quanto egli confermerà i toni impetuosi della sua campagna elettorale o se giocherà anche la carta della mediazione. In che misura ad esempio concretizzerà il distacco critico nei confronti dell’Unione europea: quel che è certo è che l’inasprirsi della competizione globale non mancherà di confermare la già esplicitata irritazione per il regime favorevole di cui gode l’export tedesco, favorito dalla sottovalutazione dell’euro negli scambi commerciali. Sta di fatto che il primato economico e militare degli Stati Uniti continuerà ad essere, come è stato sin qui, la stella polare della politica internazionale anche per la nuova amministrazione. Nel merito, penso che gli Usa restino di gran lunga il principale pericolo per il pianeta. Lo testimonia il deteriorarsi della situazione ucraina (ferita purulenta nel cuore dell’Europa, con le reiterate violazioni dei patti di Minsk da parte del governo nazifascista di Kiev), la tracotante espansione della Nato verso Est (obiettivo: la Russia) e la sua minacciosa presenza nell’area del Pacifico (obiettivo: la Cina). Per questo il No alla guerra, alla presenza di basi e bombe atomiche dentro i confini del nostro Paese, nonché la costruzione di un movimento per la pace devono rimanere in cima alla nostra agenda politica.

Accanto a questo No, è parimenti essenziale far sentire il nostro No all’Unione europea e alla sua moneta unica. Noi siamo e operiamo in Italia e l’Italia è in Europa: sul grosso della popolazione del nostro Paese pesano le politiche antipopolari di Bruxelles. Per questo è importante  far sentire la voce dei comunisti in piazza il prossimo 25 marzo, quando i padroni del vapore europeo saranno a Roma a celebrare i tetri fasti di questa Unione.

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