Le specificità dell’economia del Vietnam*

di Fabio Massimo Parenti, docente Università di Firenze; Dipartimento Esteri PCI

 

La Repubblica Socialista del Vietnam ci ricorda ciò che dovrebbe essere patrimonio della cultura internazionale. Ovvero, che vi sono molteplici strade allo sviluppo, ciascuna appropriata alle differenti condizioni storico-geografiche dei singoli paesi. Il fine è comune (ogni popolo ambisce a migliorare le proprie condizioni di vita), le strade sono differenti. Più in particolare, la continuità della prospettiva socialista non significa che Vietnam, Cuba e Cina, ad esempio, abbiano seguito lo stesso identico percorso. Certamente possiamo trovare punti di forza e debolezza comuni, tuttavia, le condizioni storiche, i contesti geopolitici e le peculiarità territoriali offrono esempi di diverse vie nazionali allo sviluppo.

Modello ibrido

Il Vietnam, anche dopo l’avvio del “rinnovamento” (DoiMoi), presenta una traiettoria di sviluppo non assimilabile né al neoliberalismo, né al modello chiamato “Stato per lo sviluppo”, dei paesi di nuova industrializzazione dell’Asia-Pacifico. Con l’apertura progressiva ai mercati internazionali, l’esperienza vietnamita ha ibridato elementi di questi modelli, mantenendo però delle sue peculiarità.

Ad esempio: la decollettivizzazione fondiaria non è corrisposta a un processo di privatizzazione delle terre. La redistribuzione di queste alle famiglie (risoluzione 10) ha favorito una crescita della produttività (come avvenne in parte già dagli anni Cinquanta)che, insieme agli investimenti statali, ha segnato la continuità della riorganizzazione rurale anche nei momenti di nuova industrializzazione. Qui troviamo una diversità radicale con i paesi occidentali (lo spiega bene Arrighi in riferimento alla Cina). L’Occidente ha interrotto la rivoluzione agricola a favore dell’industrializzazione.Sulla scia di Adam Smith, secondo Arrighi è necessario cogliere la differenza tra un modello di sviluppo “naturale”, interpretato come uno sviluppo di mercato non capitalista (la cui evoluzione si muove dall’agricoltura al commercio estero), ed uno “innaturale”, (ri)concettualizzato come modello capitalista (dal commercio estero all’agricoltura e segnato da un militarismo spinto).

Il percorso di sviluppo rurale vietnamita ha consentito di creare domanda per le nuove industrie, di diversificare le produzioni su larga scala e di fornire una forza anticiclica nei periodi di crisi (non è un caso che l’agricoltura continua ad avere un peso significativo, 17% del Pil, benché minore rispetto all’industria, 39%, e ai servizi, 44% – fonte ufficiale, 2016).

 Ancor più importante, e in tandem con il processo di industrializzazione, ciò ha permesso dal 1986 al 2006 una consistente riduzione della povertà (scesa dal 58 al 16 per cento). Trend proseguito negli anni seguenti, con un’ulteriore riduzione dal 16 all’8,4 per cento (2006-2014).Va detto tuttavia che le contrazioni maggiori sono avvenute nelle regioni più urbanizzate, quelle del fiume Rosso a nord e del Mekong a sud.

Contrariamente agli orientamenti neoliberali, il ruolo dello Stato in economia ha continuato ad essere molto forte e significativo, mantenendo la funzione di guida dei processi di sviluppo. Alla metà degli anni Novanta le istituzioni finanziarie internazionali, spesso contradditorie, hanno criticato il Vietnam di essere troppo lento nelle riforme di mercato…. Tuttavia, quando i risultati produttivi e la capacità di attrazione degli investimenti sono emersi in modo inequivocabile, esse hanno cambiato parere cercando di attribuire i meriti alle ricette da loro proposte [profetizzavano un collasso che non si è verificato e sono state contraddette dalla realtà].

Controllare le leve chiave dell’economia e liberalizzare gradualmente alcune aziende e alcuni settori ricalca maggiormente le esperienze dei“developmental state”(Taiwan, Corea del sud e Singapore). Maggiormente, ma non totalmente, perché il Vietnam non ha avuto le stesse agenzie statali che altrove hanno spinto a creare conglomerati privati competitivi al livello internazionale. Con alcune debolezze il Vietnam è rimasto piùrelegato alla dipendenza dagli IDE (1988-2008, il 70% asiatici), dirottati prevalentemente, almeno fino agli anni 2000, verso le produzioni a basso valore aggiunto. Ovvero, verso i settori labour intensive (no quelli capital intensive, come avvenuto nelle tigri asiatiche di prima generazione) che importano semilavorati, componentistica e beni di produzione, soprattutto dai paesi asiatici (vedi deficit con Corea del sud, Asean e Cina), per poi implementare lavorazioni finali (di assemblaggio) ed esportare nei mercati internazionali (in particolare Usa e Ue). Una maglia di doppia dipendenza internazionale.

Hub manifatturiero

Al livello internazionale il Vietnam è riuscito a integrarsi nell’ordine economico regionale e internazionale, divenendo un hub manifatturiero del Sud-est asiatico. Il modello seguito dal Vietnam è un ibrido tra soluzioni export-oriented e import-substitution. Alcuni settori strategici, a stretto controllo statale (infrastrutture, energia, finanza e trasporti) hanno cercato, anche tramite joint venture o utilizzando gli aiuti allo sviluppo, di acquisire tecnologia. E su questo c’è ancora molto da fare per salire nella catena del valore. Altri settori, invece, sempre tramite l’esplosione di IDE, si sono rivolti all’esportazione di beni e servizi, come sopra menzionato.

Gli IDE sono stati fondamentali alla creazione di capitale fisso, con trend superiori anche alla Cina (investimenti esteri in capacità produttiva a lungo termine), ed il Vietnam è stato tra i paesi più attraenti al mondo. A seguito delle crisi, questi flussi e i tassi di crescita si sono tuttavia ridimensionati.

Stato, imprese e lavoro

In realtà, esiste un controllo statale anche nel settore non statale. Esempio: le imprese estere più grandi hanno joint venture proprio con imprese di proprietà di Stato. In quest’ultime, tuttavia, si riscontrano problemi di management aziendale oltre a carenze di competenze. E’ noto che la guida statale non sia stata sempre efficace – secondo alcuni lo Stato avrebbe lasciato troppa autonomia ed esercitato un limitato coordinamento governativo.

La ristrutturazione delle imprese statali, avviata massicciamente negli anni Novanta e nei settori non strategici, ha generato chiusure e fusioni. Dopo la crisi regionale della seconda metà degli anni Novanta, ci fu un’altra fase di equitisation negli anni Duemila, di riforme della pubblica amministrazione e delle imprese di Stato. Tutto per favorire l’espansione e la regolamentazione delle imprese private e l’attrazione di IDE, al fine di compensare i nuovi problemi sociali legati alle ineguaglianze tra città e campagna e allo smantellamento parziale delle tradizionali coperture sociali. In questo senso il periodo 2010-2015 ha fatto registrare vari avanzamenti.Ad esempio: gli scioperi sono aumentati, anche quelli illegali, ma le autorità non li hanno repressi, anzi i media sono stati sempre dalla loro parte e si è fatta pressione sul governo per risolvere i problemi delle condizioni di lavoro. Alla luce di ciò molti programmi sono stati attivati per recuperare terreno sul piano del welfare.

A fronte di un trend generale di crescita della classe media, in Vietnam persistono debolezze relative alle politiche industriali.Nell’ibridazione vietnamita ci sono sfide enormi. E’ necessario:

  • Ridurre l’eccessiva dipendenza dagli IDE, che implicano un problema di limitazione di sovranità
  • Rivedere il proprio ruolo nell’ordine della divisione del lavoro regionale. Investimenti in ricerca e sviluppo a partire dal Partito e dallo Stato…
  • Migliorare il monitoraggio dei processi di confische fondiarie per far spazioai parchi tecnologici(le decisioni provinciali sono spesso intraprese senza adeguate valutazioni e coordinamento con lo Stato).

In conclusione, rileviamo che per la sua duttilità, malgrado alcune debolezze che abbiamo brevemente sintetizzato, il Vietnam è stato tra i paesi che hanno mostrato maggiore resilienza alle crisi regionali e a quella globale. Il paese è stato colpito ed ha subito delle conseguenze negative, ma grazie ai controlli sui flussi di capitali e ad un robusto processo di ristrutturazione socioeconomica il Vietnam ha continuato a crescere.

Indicatore di sviluppo umano (UNDP)

Indice di sviluppo servizi sanitari (UNDP)

Dinamicità del reddito pro capite (UNDP)

Tasso di povertà in base al reddito (%) (GAO)

  2004 2006 2008 2010 2010* 2012 2013 2014
                 
National average 18.1 15.5 13.4 10.7 14.2 11.1 9.8 8.4
By area                
Urban 8.6 7.7 6.7 5.1 6.9 4.3 3.7 3.0
Rural 21.2 18.0 16.1 13.2 17.4 14.1 12.7 10.8
By region (6 regions)                
Red River Delta 12.7 10.0 8.6 6.4 8.3 6.0 4.9 4.0
Northern Midland and mountainous areas 29.4 27.5 25.1 22.5 29.4 23.8 21.9 18.4
North Central and Central coastal areas 25.3 22.2 19.2 16.0 20.4 16.1 14.0 11.8
Central Highlands 29.2 24.0 21.0 17.1 22.2 17.8 16.2 13.8
South East 4.6 3.1 2.5 1.3 2.3 1.3 1.1 1.0
Mekong River Delta 15.3 13.0 11.4 8.9 12.6 10.1 9.2 7.9
By region (8 regions)                

 

 

*intervento di F.M. Parenti al Convegno “ Vietnam: le rivoluzioni”, organizzato dal Dipartimento Esteri del PCI a Marghera, il 18 febbraio 2017

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