Trump e le relazioni tra Stati Uniti e Cina[1]

Fabio Massimo Parenti[2],docente università di Firenze; dipartimento esteri PCI

 

Non ci sono i presupposti reali per vedere la Cina come una “minaccia”, se non da punti di vista politici faziosi o ignari della realtà. Il mondo degli affari ne è consapevole, ma potrebbe rimanere vittima di giochi geostrategici pericolosi. Se da un lato le nuove possibili relazioni tra gli Usa e la Russia rappresenterebbero la più grande discontinuità e il maggior merito dell’amministrazione entrante, dall’altro Trump, in continuità con Obama, non modificherà probabilmente le numerose operazioni anticinesi che gli Usa perseguono dal Mediterraneo all’Estremo Oriente. A loro rischio e pericolo. Andare contro la Cina, cosa che gran parte del mondo degli affari non vuole, si ritorcerebbe contro gli Stati uniti, come centro di potere e come popolo. Questo articolo cerca di offrire un ragionamento a sostegno di tali valutazioni, dimostrando in che direzione stia mutando l’assetto di potere al livello mondiale. Il rischio ultimo, che non vorremmo tenere nemmeno in considerazione, è che l’apparato militare-industriale statunitense abbia un’inerzia superiore alle ragioni della storia.

 

“Minaccia” cinese o timori egemonici statunitensi?

Èpoco salutare fare pronostici in politica internazionale, soprattutto se non si considerano le tendenze di lungo termine, ma i media, si sa, vogliono scoop e novità eclatanti. E così accade che dall’elezione di Trump si paventa sempre più spesso lo scontro con la Cina, alla luce delle dichiarazioni “belliche” del nuovo presidente. In realtà la competizione geopolitica con la Cina è una tendenza in atto da tempo ma sempre attenuata, dagli anni Settanta a oggi, da una crescente interdipendenza economico-commerciale e, in parte, finanziaria.

Alimentata dalla narrazione mediatica occidentale, e dalla correlata vulgata sulla cosiddetta “minaccia”, l’idea di un possibile conflitto con la Cinaandrebbe declinata piuttosto come il desiderio di una parte del sistema di potere statunitense di non perdere il predominio globale degli Usa che, già da qualche tempo, sono stati ridimensionati dalla riorganizzazione in senso multipolare della geografia economico-politica mondiale. Senza l’ascesa della Cina questo cambiamento non sarebbe così evidente.

Di questa tendenziale ed esistente competizione politica tra Usa e Cina i media se ne accorgono, semplicisticamente, con “il carismatico” Trump, salvo, in precedenza, non aver mai connesso i fatti. Dagli interventi del sistema US-Nato nei Balcani Occidentali alle operazioni belliche in Nord-Africa e Medioriente. Come se il pivot to Asia di Obama fosse stata una strategia pacifica (mentre aveva chiare connotazioni militari) e la distruzione di interi stati sovrani un atto dovuto dell’Occidente, sempre capace a distorcere i leader di altri paesi (troppo indipendenti da noi), senza mai affrontare una seria autocritica della propria involuzione. Ma andiamo per ordine.

 Fenomeno Trump: niente di nuovo sotto il sole

L’ascesa di Trump è stata pompata dalla grande stampa, così come si è fatto e si fa con i terroristi jihadisti: più se ne parla e più il fenomeno cresce. Ovviamente c’è dell’altro, ma questo meccanismo, ben conosciuto, dei mezzi di comunicazione sussiste. Dopodiché è arrivata la vittoria alle presidenziali e l’insediamento alla Casa Bianca di un magnate del settore immobiliare. Dov’è la novità? Per capire questo fenomeno – l’ascesa di Trump – dobbiamo sgombrare subito il campo da fraintendimenti. Primo: come da regolarità di regime democratico bipartitico, la vittoria del candidato repubblicano alle lezioni del 2016 ha confermato il copione della procedura elettoralistica degli Usa. Due mandati ai democratici e due ai repubblicani, così come avveniva regolarmente almeno dagli anni Ottanta. Secondo: parlare di presidente voluto dal popolo è un eufemismo, se è vero che, anche qui come da lunga tradizione, l’affluenza alle urne è stata al di sotto del 60% degli aventi diritto al voto. Il numero delle persone che non hanno votato alle ultime presidenziali statunitensi oscilla tra i 90 e più di 100 milioni, a seconda se si considera la popolazione eleggibile in età di voto o il totale della popolazione in età di voto. È noto che diversi milioni di cittadini americani sono in prigione (la popolazione carceraria pro capite più alta del mondo, 666 su 100 mila[3]), ma anche escludendo questo numero rimangono fuori decine di milioni di persone “eleggibili”. Perché non hanno votato? Forse il sistema politico è poco, se non per nulla, rappresentativo della reale composizione sociale del paese? Terza costante: definire Mr. Trump un uomo anti-sistema è un’altra caricatura irreale. Laureato alla Wharton School of Finance, Trump è un uomo d’affari che ha seguito le orme del padre per ciò che riguarda il settore immobiliare, per poi ampliare le proprie attività nei settori energetici e delle telecomunicazioni. Con un patrimonio di 9 miliardi di dollari al 2015, le recentissime dimissioni formali dalle sue società, ora gestite dai figli, sono una formalità, appunto, che non attenua i suoi conflitti di interesse. Certamente Trump dava e darà fastidio a quella componente dell’élite che lo vede come concorrente (come succedeva con Silvio Berlusconi in Italia), ovvero a una parte del sistema di potere legata ai democratici, come George Soros, il grande finanziatore di Hillary, ma la sua appartenenza al circolo degli uomini più ricchi del mondo non è un dato neutrale. La conferma e prova provata è arrivata proprio dai nomi e cognomi della sua squadra di governo (se tutto andrà liscio). Diversi generali e tutti superricchi, prevalentemente bianchi e cristiani. Il segretario di Stato è Rex Tillerson, ex amministratore delegato della Exxon Mobil e favorevole a una politica di riavvicinamento alla Russia (mostrando in questo caso una visione assolutamente auspicabile per la sicurezza internazionale). Il segretario alla Difesa James Mattis è stato invece in prima fila nelle operazioni belliche in Iraq e Afghanistan, mentre quello alla Sicurezza Interna John Kelly è particolarmente attento al Centro e Sud-America. Per citare altri nomi chiave, l’esecutivo sarà composto anche dal segretario al Tesoro Steven Mnuchin, ex Goldman Sachs, dove ha lavorato a lungo per poi creare un proprio private equity fund con cui ha acquisito nel 2009 una banca specializzata in mutui immobiliari, e dal responsabile al commercio WilburRoss che, insieme a Peter Navarro (a capo di un nuovo organo per le questioni commerciali), ha avuto posizioni particolarmente dure contro la Cina. L’apparato militare e finanziario statunitense troverà dunque in questi soggetti la propria rappresentanza, altro che governo anti-sistema.

 Cina o Russia? Chi è il nemico numero uno degli Usa?

A prescindere dalla diversa retorica tra democratici e repubblicani, la sostanza della politica estera degli Stati Uniti, di dominio ed egemonia internazionale, non è mai stata messa in discussione dall’alternanza elettorale(ciò è stato ben argomentato, in chiave storica, dal professor JohnMearsheimer nel suo saggio The Tragedy of Great PowerPolitics del 2001).

Il ripristino delle relazioni diplomatiche e commerciali tra Usa e Cina, gradualmente fin dagli anni Settanta, ha avuto motivazioni geopolitiche (allontanamento della Cina dall’Urss, peraltro già avvenuto per scelta autonoma della Cina) ed economiche (creazione di nuove opportunità per il mondo degli affari). Dagli anni Novanta, tuttavia, Cina e Russia hanno cominciato un lento processo di riavvicinamento tattico che si è accelerato negli anni Duemila, trasformandosi in una forma di partenariato strategico, anche come conseguenza dei pericoli rappresentati dalla destabilizzazione di intere regioni ad opera del sistema US-Nato. Nel contempo, le aperture russe alla Nato sono definitivamente tramontate a causa delle continue interferenze statunitensi nelle ex Repubbliche sovietiche e dalla debolezza dell’Unione europea. Il sistema US-Nato ha cominciato così a vedere con disappunto i processi di integrazione in Eurasia guidati da queste potenze riemergenti (si veda D. Nazemroaya, The Globalization of Nato, 2012).

Con la riorganizzazione e il rafforzamento della Federazione russa, la sua capacità di difendere gli alleati strategici, come in Ucraina e in Siria, e di proporre e lavorare per un ordine internazionale realmente multipolare, la Russia è via via divenuta il nuovo bersaglio geopolitico degli Stati Uniti. Con Trump la situazione potrebbe essere normalizzata, ma nulla è certo in questo campo. Quel che è più certo, invece, riguarderebbe l’ostilità della nuova amministrazione verso la Cina. La questione Taiwan, ovvero la messa in discussione del principio di un’unica Cina, quella del Mar Cinese Meridionale, ove sembra che gli Usa vogliano essere più assertivi (benché le pressioni e interferenze siano state fortissime anche con Obama) per bloccare le legittime operazioni cinesi nel proprio spazio di azione e, infine, l’idea di intervenire sui flussi commerciali, sono le principali tematiche sollevate negli ultimi mesi. Quanto c’è di preoccupante in tutto ciò?

 Mar cinese meridionale: la Cina non accetta interferenze

Per quanto riguarda la questione delle isole del Mar cinese meridionale, la Repubblica popolare ha ampiamente argomentato la propria posizione, rifiutando le decisioni prese da un tribunale “internazionale” richiesto unilateralmente da Manila e a cui Pechino non ha accettato di partecipare, nel rispetto di ciò che è previsto proprio dal diritto internazionale. Non a caso la sentenza si è mostrata molto di parte, negando in toto i diritti rivendicati da Pechino su base storica (su questo rimando a una mia precedente analisi[4]). Peraltro, la Cina sta operando da tempo a livello bilaterale per risolvere le dispute con i paesi della regione, che pure hanno le loro rivendicazioni. Molti passi in avanti sono stati fatti nella condivisa volontà di soluzioni e compromessi bilaterali: in primis con le Filippine, riavvicinatesi alla Cina, ma segnali positivi arrivano anche dal Vietnam. Non dimentichiamo che queste isole erano state occupate da Filippine e Vietnam negli anni Settanta e nel tempo vi hanno costruito infrastrutture e piste di atterraggio. Solo la Cina era rimasta indietro e dalla fine degli anni Ottanta sta cercando di recuperare terreno. Quindi, anche nella contesa di queste isole gli Usa adottano, per interessi geopolitici, un doppio standard e soprattutto continuano a intromettersi in aree che non sono di loro competenza. Ècome se la Cina volesse imporre una propria idea di gestione delle rotte e delle infrastrutture marittime nel Mar dei Caraibi. Non sarebbe tollerabile. Quindi, perché si dovrebbero tollerare gli sconfinamenti della marina militare Usa e le più recenti prese di posizione dell’amministrazione entrante? Tra l’altro la libertà di navigazione non è in discussione da parte di Pechino, che la garantisce per i propri interessi, e non ci sono segni che facciano pensare diversamente. Il maggior controllo che Pechino sta cercando di guadagnare è legittimo in relazione alla valenza strategica di aree confinarie di importanza vitale per il transito di merci e i flussi energetici. Aspetti su cui non si vuole, ragionevolmente, consentire interferenze straniere di tipo militare.

Come abbiamo detto i media sono spesso succubi delle dichiarazioni altisonanti e i repubblicani anche oggi rimangono coerenti alla loro tradizione, con prese di posizione particolarmente nette che hanno un alto impatto mediatico. In realtà, al di là dello stralcio del TPP, non si può prevedere una netta differenza rispetto alla politica di Obama in merito alla volontà di contenere l’ascesa della Cina. La precedente amministrazione ha infatti lavorato assiduamente per rinvigorire lo storico “serpente” militare che da quasi settant’anni minaccia la sicurezza della Repubblica Popolare, attuando nuove pressioni geostrategiche. Come ha notato correttamente James Petras in un suo articolo del 2015: “Obama ha ordinato un importante consolidamento navale nel Mar Cinese Meridionale ed ha intrapreso ampie attività di cyber-spionaggio di industrie cinesi e del governo tramite grandi imprese high-tech degli Stati Uniti, come rivelato da Edward Snowden nella pubblicazione di documenti confidenziali della NSA. Dopo un decennio perduto a versare miliardi di dollari in avventure militari alla periferia della politica mondiale, Washington ha finalmente scoperto che non è lì dove si deciderà il destino delle nazioni, specialmente delle grandi potenze, se non in senso negativo – di emorragia di risorse su cause perse. Il nuovo realismo e le priorità di Obama a quanto pare sono ora concentrate sul Sud-est e Nord-est asiatico, dove economie dinamiche fioriscono, i mercati stanno crescendo a un tasso a due cifre, gli investitori stanno guadagnando decine di miliardi di dollari in attività produttive e il commercio si sta espandendo a ritmo tre volte il tasso degli Stati Uniti e dell’Ue[5].

 Commercio e investimenti: tra tensioni geopolitiche e benefici reciproci

La Cina ha sostituito gli Usa e l’Ue come primo partner commerciale dell’America Latina, investendo miliardi in progetti congiunti e fornendo prestiti favorevoli. L’interscambio di beni e servizi con i maggiori paesi asiatici è cresciuto più velocemente rispetto a quello con gli Usa. Ergo, il pivot to Asia, obamiano o trumpiano che sia, presenta fondamenta economiche fragili. Non è un caso che dal G20 di Hangzhou all’ultimo vertice Apec a Lima l’interesse per i progetti multilaterali promossi dalla Cina (si pensi alla FTAAP, alla RCEP o alla AIIB)[6]stiano riscontrando sempre più successo[7]. La Cina dunque non ha bisogno di fare la voce grossa come gli Usa, che con lo stralcio del TPP(nato debole perché escludeva la Cina) escono ulteriormente delegittimati. Comunque, in un’ipotetica nuova guerra commerciale nessuno ne uscirebbe vincitore, come ha ragionevolmente ricordato XiJinping a Davos. Anzi, proprio gli Usa sembrano essere in una situazione di maggiore debolezza. Non solo le reti produttive e commerciali cinesi in Asia vanno consolidandosi, spesso in tandem con le relazioni geopolitiche, ma la Cina rimane il primo paese-creditore degli Usa[8] e il principale contributore alla parziale ripresa economica statunitense. Gli investimenti cinesi (come in parte esplicitato più avanti) hanno rappresentato negli ultimi anni una risorsa fondamentale anche per la creazione di nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti (così come si evince dal rapporto Understanding the US-China TradeRelationship, preparato dal US-China Business Council, gennaio 2017).

Sul piano dell’interscambio commerciale l’interdipendenza tra Usa e Cina è fuori discussione ed è sostenuta dalla comunità d’affari di entrambi i paesi. Le questioni geopolitiche rischiano tuttavia, e lo hanno fatto costantemente, di mettersi ulteriormente di traverso. Soprattutto se sulle questioni marittime e su Taiwan (ma anche sulla Siria) prevarrà la irragionevolezza dettata soprattutto dall’inerzia di quell’apparato militare-industriale da cui metteva in guardia Eisenhower nel 1961.

La crescita dei flussi commerciali ha apportato vantaggi ad entrambi i paesi. Quello di cui spesso non si tiene in considerazione è il dato delle esportazioni cinesi nette, che sono molto inferiori di quelle totali, perché riguardano ovviamente quella parte di surplus al netto delle importazioni.

Fig. 1 – Fonte:http://chinaeconomyandsociety.com/2017/01/19/us-china-trade-the-forgotten-shall-be-forgotten-no-more/

Peraltro, c’è da notare che le importazioni cinesi dagli Usa sono aumentate costantemente ed a volte, come nel periodo 2006-2008, ad un ritmo superiore a quello delle esportazioni della Repubblica Popolare verso gli Usa[9].

Guardando ai dati ufficiali statunitensi si rileva che nel 2015 la Cina è divenuta il primo partner commerciale per ciò che concerne il flusso bidirezionale di merci, superando il Canada. Qui il deficit Usa si è ampliato, benché la Cina rappresenti il terzo mercato mondiale per le esportazioni delle merci statunitensi ed abbia ancora enormi potenzialità di crescita. Nello stesso anno, per quanto riguarda i flussi di servizi la Cina è stata il quarto partner degli Usa, che in questo settore hanno fatto registrare un crescente surplus. Ciò è segno della vitalità dell’economia cinese, di cui il mondo degli affari statunitense non può fare a meno, anche e soprattutto per l’aumento della domanda cinese di servizi avanzati e prodotti innovativi.

Fig. 2 – Fonte: US International Trade Commission, pagina 167

US merchandise trade with China, 2011-2015

Fig. 3 – Fonte: Understanding US-China Trade relations, pagina 10

US exports – a wide variety of goods and services to China

 Come abbiamo ricordato le questioni geopolitiche hanno di tanto in tanto inficiato le relazioni economiche tra gli Usa e la Cina. Diversi investimenti e acquisizioni cinesi sono state ad esempio bloccate nel corso degli anni Duemila – per ragioni di sicurezza nazionale – e vari investitori cinesi hanno subìto importanti perdite a seguito della crisi statunitense. A fronte di queste e altre restrizioni di accesso al mercato americano è possibile asserire che le lamentele occidentali sulla chiusura del mercato cinese non siano legittime, né giustificate. Un rapporto dell’Università della California e Los Angeles offriva a tal proposito dati interessanti già in riferimento al 2006, quando gli investimenti diretti degli Usa in Cina erano di gran lunga superiori rispetto a quelli cinesi negli States (più di 20 miliardi contro 600 milioni). Nel tempo tuttavia questi flussi di investimento bidirezionali sono cresciuti moltissimo, a dimostrazione di una sempre maggiore interdipendenza tra le forze economiche dei due paesi, che non è stata dettata solo da parziali processi di deregolamentazione, ma soprattutto dalla convergenza di interessi produttivi e commerciali, nell’ambito di politiche nazionali che hanno mantenuto anche severe misure protezionistiche. Entrambi i paesi in realtà mantengono, sussidiano e proteggono determinati settori considerati strategici.

Sempre in merito ai flussi di investimenti esteri diretti, è utile segnalare uno studio recente delRhodium Group di New York dal quale emerge che dal 1990 a oggi gli investimenti degli Usa in Cina sono stati pari a 228 miliardi e quelli cinesi negli Usa a 64 miliardi, dati superiori ai numeri ufficiali di ciascun paese. Alla luce di ciò, il rapporto suggerisce un rafforzamento dei legami bilaterali.

Proteggere alcuni settori non vuole dire isolarsi, come ci insegna la storia trentennale delle relazioni sino-statunitensi.Dal punto di vista economico la Cina si è mostrata non di rado più aperta degli Usa. Peraltro, come già accennato, proprio negli anni seguenti la grande crisi gli investimenti cinesi verso gli Usa hanno cominciato ad accelerare, anche come conseguenza del crescente numero di imprese private desiderose di investire all’estero, e hanno fornito un sostegno significativo alla ripresa statunitense (ufficialmente riconosciuto dal US-China Business Council).

 Fonte: Understanding US-China Trade relations, pagina 11

Fig. 5: Chinese FDI into the US is accelerating

 Escalation? Cui prodest?

Non ci sono i presupposti reali, i dati di fatto, per vedere la Cina come una “minaccia”, se non da punti di vista politici faziosi o ignari della realtà. La Cina è una opportunità. Dagli anni della crisi globale il suo trend di crescita è stato fondamentale per l’economia mondiale, contribuendo nell’ordine del 30%, una quota enorme rispetto allo 0,3% di contributo degli Usa. Il mondo degli affari statunitense non vuole perdere le opportunità derivanti dall’espansione dei mercati cinesi (né gli investimenti, né i nuovi consumatori) ed è consapevole che il modello di sviluppo cinese sta puntando con decisione sul settore terziario, sull’innovazione (i dati sulla registrazione di nuovi brevetti vedono la Cina capofila mondiale da alcuni anni) e sui consumi interni, col fine ultimo di favorire una crescita sostenibile che, nel 2016, si è attestata su un ragguardevole 6,7%. Non a caso i tre quarti della crescita economica cinese del 2016 sono attribuibili proprio all’aumento dei consumi interni.

Se da un lato, come detto in apertura, le nuove possibili relazioni con la Russia rappresenterebbero la più grande discontinuità e il maggior merito individuabile nell’amministrazione entrante, almeno per le prospettive della pace internazionale, dall’altro Trump, in continuità con Obama, non modificherà probabilmente le numerose operazioni anticinesi che gli Usa perseguono dal Mediterraneo all’Estremo oriente. A loro rischio e pericolo. Ci pare infatti di poter asserire che gli Usa non sono più nella condizione di dettare unilateralmente le regole (la propria volontà e i propri interessi) a un mondo che è profondamente cambiato. Andare contro la Cina, cosa che gran parte del mondo degli affari non vuole, si ritorcerebbe contro gli Stati Uniti, come centro di potere e come popolo. Il rischio ultimo, che non vorremmo tenere nemmeno in considerazione, è che l’apparato militare-industriale statunitense abbia un’inerzia superiore alle ragioni della storia.

[1] Questo articolo è uscito su Eurasia, Rivista di Studi Geopolitici, n. 1, 2017, pp. 123-133.

[2]Fabio Massimo Parenti, Ph.D., è professore associato di Geografia (ASN) e docente internazionale all’Italian International Institute Lorenzo de’ Medici – Marist College. Insegna Global Financial Markets, China’s Development and Global Shift, Globalization and Social Change e War and Media. Tra i suoi libri, Geofinanza e geopolitica, 2016 Milano; Mutamento del sistema-mondo. Per una geografia dell’ascesa cinese, Roma 2009 e Gli spazi della globalizzazione (a cura di), Reggio Emilia 2004. Ha inoltre pubblicato articoli su riviste scientifiche nazionali (es. Rivista Geografica Italiana, Bollettino della Società Geografica Italiana, Limes) e internazionali (es. Human Geography e GeoJournal), contributi in volumi collettanei, voci per l’Universale Treccani e articoli divulgativi su varie testate giornalistiche.

[3] Questo dato ufficiale, relativo al 2015, aumenterebbe se includessimo le persone in libertà condizionale. Da notare inoltre che un rapporto delle Nazioni Unite del 2015 ha criticato gli Usa per essere il solo paese al mondo a condannare all’ergastolo cittadini minorenni senza prevedere la libertà condizionale.

[4] F.M. Parenti, Mar Cinese Meridionale, la posizione di Pechino dopo la decisione dell’Aia, 14 luglio 2016, http://www.agichina.it/punta-di-pennello/notizie/mar-cinese-meridionale-la-posizionebr-/di-pechino-dopo-la-decisione-dellaia

[5] James Petras, US-China relations: The Pentagon versus Hi-Tech, 19 settembre 2015 http://petras.lahaine.org/?p=2053

[6] Free Trade Area of the Asia Pacific; Regional Comprehensive Economic Partnership; Asian Infrastructure Investment Bank.

[7] Per approfondimenti rimando a F.M. Parenti, Cina nuovo motore della globalizzazione? Sul vertice Apec dopo la vittoria di Trump, 25 novembre 2016, http://www.ilcaffegeopolitico.org/49255/cina-motore-della-globalizzazione-sul-vertice-apec-la-vittoria-trump

[8] Le statistiche statunitensi continuano a separare mainland e Hong Kong e per questo a fine 2016 segnalavano un sorpasso del Giappone a seguito di nuove vendite cinesi di assetdenominati in dollari.

[9]In questo caso ci riferiamo, in base ai dati ufficiali del US TradeCommission, al tasso di crescita, cioè relativo alla dinamica del flusso e non al volume in termini assoluti.

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