80° della scomparsa di Antonio Gramsci: Il mio Gramsci critico

di Patrizio Andreoli, Segretario Regionale PCI Toscana

Il patrimonio fecondo di un comunista che sa ancora parlare al nostro presente. Un innovatore profondo, compagno di strada e di lotta. Un piccolo ‘grande uomo’, maestro di vita e di cultura, gigante della storia i d’Italia.

Ma Gramsci è davvero morto?… E’ vero. Ottanta anni sono molti, e non solo in termini di tempo assoluto ma per la densità e qualità dei fatti, degli sconvolgimenti e delle novità che li hanno caratterizzati. Da quel 27 aprile 1937, giorno della sua scomparsa, il nastro della storia -della nostra storia, della storia di tutti- si è dipanato esaurendo il novecento sino a lambire parte del nuovo secolo e millennio. Eppure -lui-, che non ha visto lo scatenarsi della seconda guerra mondiale, né l’abbattimento del fascismo e nazismo, né lo scardinamento di fine secolo del campo socialista, né ha vissuto il formidabile sviluppo tecnologico di questi decenni, l’affermarsi di una vorticosa globalizzazione e la nascita del web, -lui- che non ha potuto vivere l’intera pagina repubblicana fino all’epilogo di questo nostro oggi opaco, contraddittorio e carico di grumi sociali; mai è stato così vivo ed attuale. Letto, tradotto, studiato, ovunque commentato e persino ad intervalli regolari distorto in maniera indecente fino alla falsificazione da un vulgata revisionista che dinanzi alla sua costante fortuna culturale e politica, ne ha tentato il depotenziamento ed un’impossibile normalizzazione in chiave liberaldemocratica e a-comunista (il Gramsci convertitosi in punto di morte, quello abbandonato o emarginato dal Partito, quello richiedente clemenza a Mussolini etc.); ha resistito al revanscismo politico ed alla resettazione della cultura critica successivi all’89, al nullismo e al nichilismo dei nostri tempi, alla damnatio memoriae che ha preteso sepolti sotto le macerie del novecento Lenin e Togliatti, Dimotrov, Tito, Lucàks e Kardelj… e molti altri. Intellettuali e uomini della vicenda comunista, presentati come improponibili, vecchio armamentario di un nucleo culturale e di una proposta di cambiamento gravati dalla lunga ombra dell’esperienza sovietica a cui associare il grigiore di copertine tristi e di testi indigeribili. Sempre consapevoli che “la storia la scrivono i vincitori”, noi sappiamo che non è affatto così o in grandissima parte così. Tant’è vero che nella lettura del nostro presente troviamo confermato -per esempio- l’inveramento di quel formidabile nucleo vivo di riflessione che attiene all’egemonia su cui un altro comunista, per l’appunto Gramsci, si è esercitato in maniera feconda. Una storia, al momento vinta appunto dagli altri che dopo la fine del secolo hanno avuto per proprio obbiettivo strategico la vendetta sul ’17 soviettista e le ragioni di riscatto del lavoro subalterno sulle ragioni del profitto e del capitale! Perché, dunque, Gramsci non ha subito la stessa sorte? Perché non è stato massacrato sotto i colpi violenti dell’ondata anticomunista che ha caratterizzato questi ultimi decenni, laddove si è aggredito in radice ogni riferimento a quelle idealità ed esperienze storiche, fino a suggerire e promuovere senza imbarazzo alcuno un uso dello stesso termine comunista quale offesa corrente, apostrofazione pubblica negativa e disvalore assunti dal senso comune? Antonio, aveva in odio ogni tratto retorico ed era privo di servilismo (persino inconsapevole) intellettuale. Un tratto di rigore e di coraggio nell’indagine che sin  da quel suo cogliere e riflettere sul punto di ragione che sta nelle posizioni dell’avversario -di queste comprendendo la fortuna, i limiti e la necessità storica, i perché e i per come- per poi maturare spunti utili all’avanzamento di una critica radicale che quelle ragioni superasse; ne hanno fatto un innovatore profondo e vero al servizio di una teoria e praxis della trasformazione non solo da declamarsi ma piuttosto da misurarsi con la realtà. La sua scrittura, mai icastica ma sempre pronta alla preoccupata percezione della complessità e delle contraddizioni (senza trombonisti o edulcorazioni), ne ha fatto un comunista amato per la sua integrità, per la sua fierezza intellettuale, per la freschezza –giovane e inalterata- della sua indagine sul Partito, sugli intellettuali, sulla letteratura e vita nazionale, sulla storia d’Italia. Vessato dal fascismo e costretto ad anni di studio solitario matto e disperatissimo (per mutuare un tratto leopardiano a cui mi piace associarlo), è impressionante come con quel poco di cui disponeva o poteva essergli procurato in piena dittatura (a lui, tagliato ferocemente fuori dall’agone politico e dalla cronaca dei suoi tempi), egli abbia saputo penetrare ed illuminare così a fondo temi essenziali e generali della società italiana, della storia e filosofia politica. La tensione etica, il pudore (segnato persino dalla sua etnia), la colloquialità delle “Lettere dal carcere” (un monumento della letteratura civile del novecento), il lavoro dei “Quaderni” (monumento alla coscienza critica ed alla coscienza comunista), la sua attività di agitatore e giornalista nella Torino operaia prima, e di dirigente politico del Partito Comunista d’Italia poi (a partire dal superamento delle angustie del bordighismo e del primo comunismo italiano); ne fanno un iniziatore del nostro cammino. Lui, che “odiava gli indifferenti”, oggi avrebbe molto sofferto. Ma son sicuro che senza piagnisteo ci avrebbe spronato a non arrenderci e ad “investire” nell’ottimismo della volontà dinanzi a una ragione spaurita e pessimista circa i compiti immensi che ci stanno dinanzi in questo mondo non meno grande e terribile (anzi!) del suo. Tuttora, quando cammino portando in tasca un testo o una sua brochure piegata e sofferente schiacciata com’è tra appunti e pagine personali; mi fanno compagnia la sua tensione ideale e densità delle sue riflessioni. E sento la dignità del nostro impegno. La sua necessità. S’avvia allora, una discussione ideale infinta e fraterna nello sforzo di capire di più, fino all’azzardo dell’individuazione di nuove vie di lotta e di liberazione per gli uomini; per tutti gli uomini che fanno la storia. E il cervello e lo spirito respirano alto, oltre le miserie di un presente che talora sgomenta. E tu sai che essere comunista, è ancora essere sino in fondo partigiano. Antonio Gramsci è il mio Mozart della (filosofia e prassi) politica. Egli non rende più leggera, ma illumina e rende più chiara la mia fatica. Nessuna retorica. Nessuna icona. Nessun mito (che egli avrebbe aborrito). Solo un compagno di strada e di battaglia. Un compagno di nome Antonio. Un “piccolo grande uomo, maestro di vita e di cultura, innovatore critico del pensiero comunista, gigante della storia d’Italia.

 

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