Con Gramsci, 80 anni dopo

di Alexander Höbel, Segreteria Nazionale PCI, responsabile Cultura e formazione

 

80 anni fa, il 27 aprile 1937, Antonio Gramsci concludeva la sua esistenza, ucciso dal fascismo che aveva visto in lui un avversario implacabile e per questo lo aveva condannato a una detenzione lunga e crudele. Oggi, a 80 anni esatti dalla sua scomparsa, la sua figura viene celebrata, ricordata e studiata in tutto il mondo. A che cosa è dovuta questa straordinaria popolarità su scala globale? E perché noi comunisti italiani continuiamo a ritenere la sua opera come il contributo fondante della nostra identità e della nostra cultura politica? Sono due questioni diverse, ma intrecciate. Se oggi infatti Gramsci viene ricordato ovunque e per noi rimane punto di riferimento essenziale, è per motivi in parte coincidenti. Gramsci è infatti celebrato e studiato non solo come antagonista irriducibile del fascismo; non solo come fondatore del Partito comunista d’Italia assieme a Bordiga, Terracini, Togliatti, Grieco, Camilla Ravera, ai giovani Longo, Secchia, Teresa Noce; ma anche come colui il quale – dagli scritti giovanili alle Tesi di Lione, dal saggio sulla questione meridionale ai Quaderni del carcere – ha dato un contributo enorme al marxismo novecentesco, e più in generale al pensiero critico contemporaneo.

L’attuale diffusione e popolarità del pensiero di Gramsci è ancora effetto – una sorta di onda lunga – di quella salvaguardia e valorizzazione del suo contributo teorico, dovuta in primo luogo a Palmiro Togliatti, al Pci, alle sue strutture di ricerca e ai suoi intellettuali, e costituisce una sorta di rivincita postuma, a 25 anni dalla Bolognina, rispetto alla sciagurata liquidazione di quel grande partito e al tentativo di cancellarne la cultura politica.

Ma il motivo determinante sta proprio nella natura del pensiero di Gramsci che, più che come teorico della “rivoluzione in Occidente”, può essere definito un teorico della complessità dei processi di transizione, e dei processi di transizione in società complesse, articolate, più o meno avanzate. In questo senso la sua elaborazione costituisce davvero una pagina decisiva nell’evoluzione del marxismo; è tutta interna a quella concezione del mondo e della storia, e ne rappresenta – direi al pari del pensiero di Lenin – uno sviluppo fondamentale nel XX secolo.

Le categorie concettuali da lui elaborate costituiscono tuttora una bussola essenziale per orientarsi nel mondo: egemonia, come processo di apprendimento delle classi lavoratrici nel loro porsi e proporsi come nuove classi dirigenti della società e dello Stato; rivoluzione passiva, ossia il modello delle ristrutturazioni operate dalle classi dominanti con la costruzione del consenso dei dominati; intellettuale collettivo e moderno Principe, ossia lo strumento politico e organizzativo – il Partito in primo luogo – che i subalterni si danno per la trasformazione radicale degli assetti sociali.

“Questo miracolo dell’operaio che quotidianamente conquista la propria autonomia spirituale” – scriveva Gramsci nel 1920 – “lottando contro la stanchezza, contro la noia, contro la monotonia del gesto che tende a meccanizzare e quindi a uccidere la vita interiore, questo miracolo si organizza nel Partito comunista”. È qui che l’operaio “collabora ‘volontariamente’ alla attività del mondo […] pensa, prevede, ha una responsabilità […] è organizzatore oltre che organizzato”, e “sente di costruire un’avanguardia” che trascina con sé “tutta la massa popolare”[1]. Sono parole che ancora oggi emozionano e incoraggiano.

Fondamentale fu poi il lavoro, avviato da Gramsci nel 1924, teso a individuare le “forze motrici” della rivoluzione italiana: operai industriali e salariati agricoli del Centro-Nord e braccianti del Mezzogiorno. Oggi i settori sociali potenziali protagonisti del cambiamento non sono gli stessi, e tuttavia la lezione di metodo fornita da Gramsci rimane attuale, e implica un nuovo sforzo di analisi e di organizzazione.

Anche altre categorie centrali nel suo pensiero sono di estrema attualità: la dimensione molecolare dei processi di trasformazione, l’alternarsi di guerra di movimento e guerra di posizione, la complessità della lotta politica nei paesi a capitalismo avanzato, il ruolo decisivo della battaglia delle idee, la necessità di costruire una nuova intellettualità di massa e quella unità tra struttura e sovrastruttura, forze sociali e idee guida che rappresenta per Gramsci il blocco storico, nel quale – per dirla con Marx – “le idee diventano una forza materiale”.

Oggi naturalmente, rispetto ai tempi di Gramsci, molte cose sono cambiate e i legami tra politica e cultura si sono molto allentati. Tuttavia la riflessione del rivoluzionario sardo rimane di estrema attualità. “Non può esserci elaborazione di dirigenti – si legge nei Quaderni – dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti […]. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti”, “il giorno per giorno […] invece della politica seria”; ma anche “miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura”, sempre più staccata dalla realtà storica. In questo contesto, scrive Gramsci pensando alla Germania del primo dopoguerra, la burocrazia “sostituiva la gerarchia intellettuale e politica”[2]. Oggi basterebbe sostituire la parola “burocrazia” con “tecnocrazia” o “tecnostruttura” per avere un quadro abbastanza simile a quello descritto.

In un altro passo dei Quaderni Gramsci fa un altro ragionamento interessante: “A un certo punto della vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali”, che “non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe”. A quel punto la situazione “diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto […] all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici”, mentre si rafforza il “potere della burocrazia […] dell’alta finanza”. In questa che si configura come una vera e propria “crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso”, la classe dominante “muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo”; dunque “mantiene il potere, lo rafforza […] e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione”, i quadri politici. Ne deriva “il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico [ma possono essere anche due o tre, aggiungerei] che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe” dominante. Insomma, “non sempre [i partiti] sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche”, ma le conseguenze del loro disgregarsi sono molto pesanti[3].

Sono parole di grande attualità, che ci rimandano a quella idea di “crisi organica”, nella quale “il vecchio muore e il nuovo non può ancora nascere”, che per Gramsci è anche tipica delle “fasi storiche di transizione”[4].

Presupposto essenziale del cambiamento è però la formazione di una nuova identità collettiva dei lavoratori e delle lavoratrici – stabili e precari, italiani e immigrati – al di là di quella “coscienza corporativa” che la frammentazione della nostra società favorisce ed enfatizza. Già nello scritto sulla “quistione meridionale”, Gramsci osservava:

Nessuna azione di massa è possibile se la massa stessa non è convinta dei fini che vuole raggiungere e dei metodi da applicare. Il proletariato, per essere capace di governare come classe, deve spogliarsi di ogni residuo corporativo […]. Il metallurgico, il falegname, l’edile, ecc. devono non solo pensare come proletari e non più come metallurgico, falegname, edile, ecc., ma devono fare ancora un passo avanti: devono pensare come operai membri di una classe che tende a dirigere i contadini e gli intellettuali, di una classe che può vincere e può costruire il socialismo solo se aiutata e seguita dalla grande maggioranza di questi strati sociali. Se non si ottiene ciò, il proletariato non diventa classe dirigente, e questi strati, che in Italia rappresentano la maggioranza della popolazione, rimanendo sotto la direzione borghese, danno allo Stato la possibilità di resistere all’impeto proletario e di fiaccarlo[5].

Egemonia significa dunque politica delle alleanze, ma anche sottrarre le classi lavoratrici all’influenza ideologica e politica delle classi dominanti, comprese le loro propaggini più avanzate, sapendo che la battaglia egemonica non va condotta solo all’interno del proprio campo, ma agendo in tutti i gangli della società, come insegna il Lenin del Che fare?, mirando cioè a costruire un’influenza culturale e politica sulle masse più larghe. E qui si giunge al ruolo degli intellettuali, alla costruzione di una nuova intellettualità di massa, a partire da quell’intellettuale collettivo che è, per il Gramsci letto da Togliatti, il Partito comunista.

Anche oggi, per costruire un blocco sociale alternativo alle classi dominanti, le forze che aspirano a organizzare le classi lavoratrici devono “disgregare il blocco intellettuale” avversario, demistificarne l’ideologia, smascherarne le bugie. E ridare al mondo del lavoro salariato quella coscienza collettiva e unitaria che rimane essenziale per avviare la controffensiva.

Anche per questo il pensiero del fondatore del comunismo italiano non solo è ancora fecondo, ma è anche uno strumento prezioso per chi vuole abolire lo stato di cose presente e contrastare la barbarie che avanza.

Come Partito comunista italiano, siamo orgogliosi di avere Antonio Gramsci come punto di riferimento essenziale della nostra cultura politica, di poterci rifare – certo, non da soli – alla sua figura e al suo pensiero, decisivi per quella storia alla quale esplicitamente ci richiamiamo. E siamo felici di avere intitolato a lui e a Palmiro Togliatti quella Scuola di formazione politica per la quale stiamo lavorando e che il 12 maggio prossimo vedrà a Roma, dopo il convegno su Togliatti che si tenne a Campoleone nel 2016 (https://www.ilpartitocomunistaitaliano.it/2017/04/13/palmiro-togliatti-la-via-italiana-passato-e-futuro-del-comunismo/), una nuova importante iniziativa.

[1] [A. Gramsci], Il Partito comunista, “L’Ordine Nuovo”, 4 settembre e 9 ottobre 1920, in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti 1978, vol. II, pp. 151-152.

[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi 1975, pp. 387-388.

[3] Ivi, pp. 1603-1604.

[4] Ivi, p. 311.

[5] Ivi, p. 251.

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