di Luca A. Rodilosso – resp. Europa dip. nazionale esteri PCI
In queste settimane autunnali, tra ottobre e novembre 2024, diversi eventi politico elettorali nell’Europa dell’est e nel Caucaso hanno segnato una situazione ormai pluridecennale di tensione e sostanziale incompatibilità politica tra quelle forze sociali, spesso sostenute anche logisticamente dall’estero e in particolar modo dagli Stati Uniti, che ormai come da canovaccio prestabilito invocano una “democrazia occidentale” alla stregua di una soluzione taumaturgica a ogni problematica di corruzione e partecipazione civica, e altre forze politico sociali che, per difendere interessi storicamente costituiti nel blocco ex sovietico, si concentrano attorno a figure del precedente potere oligarchico.
Tuttavia è da far presente che il fenomeno degli oligarchi in quei paesi risulta endemico e non è assolutamente tipico di posizioni considerate ad oggi filorusse; il caso ucraino e il disastro complessivo di quel paese che ne sta conseguendo dovrebbero aver insegnato – ma forse è troppo chiederlo per il nostro mainstream – che molti oligarchi hanno assunto e assumono, attraverso mentite spoglie, posizioni di controllo in fondazioni, associazioni per i diritti umani e la “democrazia”, posizioni formalmente pro europeiste e filo NATO. L’Ucraina in questi anni ne è un esempio: dagli affari in diverse società ucraine da parte del figlio di Biden passando per la compravendita di terreni agricoli del 40% del territorio ucraino da parte di multinazionali come Monsanto; gli affari multimilionari dell’oligarca Kolomojskj (sponsor di Zelenskij e di battaglioni neonazisti come Ajdar e Azov) alla svendita collettiva della posizione contrattuale dei lavoratori ucraini, spazzata via da una riforma del 2023 che, con deroghe in emergenza bellica ma senza uno specifico termine di esaurimento della riforma stessa, prevede sostanzialmente solo la dinamica individuale di determinazione del rapporto prestazione/salario, rendendo di fatto i cittadini ucraini “schiavi” del loro stesso Stato, e questo nonostante il forte tributo in vite umane che stanno fornendo per una causa di indipendenza e conflittualità indotta in trent’anni e più di raffinato lavoro di intelligence di massa.
Questo per spiegare sostanzialmente come la modalità di azione multilivello che tutta una serie di agenzie intergovernative occidentali e ong ha esercitato sullo spazio ex sovietico si è andata ad inserire negli strati più ricettivi di quella società sommersa, riemersa dopo la fine del mercato nero e del crollo dell’URSS nel 1991, che ha avuto l’ambizione di divenire “società civile” sul modello degli stati europei ma senza dare conto di diverse garanzie sociali alla popolazione e, soprattutto, mantenendo quell’abitudine corruttiva ai danni della collettività e dello Stato sviluppata nei decenni del mercato nero sovietico; abitudine che rimase comunque limitata e compressa dalla presenza del potere sovietico stesso.
I peggiori politici russofobi di oggi nei paesi ex sovietici come Georgia, Ucraina, Lettonia, Estonia, Lituania, e se estendiamo lo sguardo anche agli ex membri del Patto di Varsavia, in Polonia, Repubblica Ceca, come nelle migliori tradizioni dell’opportunismo umano, sono figli, diretti e indiretti, di un sistema economico e sociale che ha permesso alle loro famiglie di studiare, formarsi, ed in certi casi di compiere anche scalate di potere interne all’apparato del socialismo reale. Le sirene di arricchimenti facili, attraverso le leve di un nuova economia di mercato inserita forzatamente e artificiosamente nelle strutture di quei paesi, ha permesso a queste enclave oligarchiche di frodare la collettività o attraverso riforme istituzionali o più banalmente attraverso vere e proprie truffe a risparmiatori e creditori. Ma le divisioni di oggi, che nella narrazione occidentale tendono ad essere delineate nel binomio corruzione vs. anticorruzione, spesso associato parallelamente in maniera più che errata al conflitto filorussi – antirussi, sono molto più articolate e complesse, e vedono in campo non solo aspetti di carattere economico, che peraltro sono trasversali a entrambi i campi, ma anche di visione delle singole società nazionali e di ruolo che questi paesi aspirano ad avere in un mondo, come quello di oggi, in rapido cambiamento.
Le élite occidentaliste di paesi come Moldavia, Ucraina, Georgia, non hanno fatto i conti, drogate da finanziamenti e visioni del potere unidirezionali verso Stati Uniti e Alleanza Atlantica (in quanto l’Unione Europea è oramai uno strumento con una autonomia reale estremamente ridotta) con l’emergere del mondo multipolare, del ruolo di paesi come Cina e India, dei recenti sviluppi diplomatici di molti paesi sudamericani e arabi, e si ritrovano oggi con le loro società polarizzate, spaccate, senza possibilità di comunicazione interna e di trovare quel compromesso necessario alla tenuta di uno Stato unitariamente e civilisticamente inteso.
In Moldavia Il 3 novembre si è svolto il secondo turno delle elezioni presidenziali, dove tutte le forze di opposizione, pur avendo relazioni complesse tra loro, si sono unite nella necessità primaria di liberarsi dell’egemonia sul governo del partito PAS di Maia Sandu, dimostratosi una semplice marionetta delle politiche USA, UE e NATO nella Repubblica, e dall’altro della necessità di rilanciare politiche di pace, neutralità, sovranità e di non ostilità, amicizia e collaborazione con la Russia.
L’esito delle votazioni ha visto sul filo del rasoio e soprattutto con i voti esteri provenienti da Unione Europea e Stati Uniti, purtroppo la riconferma di Sandu, e questo potrebbe far rimanere la Moldavia stritolata nelle strategie liberiste e di guerra di USA, UE e NATO, senza riaprire scenari di politiche aperte al confronto, alla collaborazione, alla ricerca di processi di pace e quindi, a una prospettiva che veda nel multipolarismo emergente una nuova risposta alle relazioni internazionali.
I toni usati dalla presidente uscente e rientrante Maia Sandu nei confronti del suo avversario Stoianoglo e dei socialisti “filorussi” (“ladri, criminali,” e quant’altro di edificante questi “signori della democrazia” sanno dire) sono tutt’altro che rassicuranti: è la dimostrazione che quella “élite urbanizzata” sostenuta dall’occidente non ha alcuna intenzione di creare un terreno di dialogo con le realtà rurali più ancorate ai rapporti con la Russia: si rischia che regioni come Transnistria e Gagauzia siano il nuovo Donbass per la Moldavia.
Di fatto anche la Georgia vive una situazione non dissimile, con Abkhzia e Ossezia del sud in qualità di regioni separatiste riconosciute da Mosca, dal Venezuela e dalla Corea del Nord. Nonostante il riconteggio richiesto dalle opposizioni conclusosi da qualche giorno, il partito “filorusso” “Sogno Georgiano” del premier uscente Irakli Kobakhidze ha riconfermato la propria vittoria; ma non ci sarà pace per certi ambiti politici antirussi fintanto che al governo di questi paesi vi saranno partiti che lavoreranno per equilibrio e neutralità e cooperazione, in quanto per diverse ragioni storiche l’odio profondo e viscerale che hanno sviluppato pare non sanabile da nessun riconteggio e nessun tipo di accettazione elettorale o corte o commissione: se vincono i “filorussi”, ci devono essere per forza brogli e questi devono essere per forza “ladri”.
Non è uno scenario rassicurante, come si è visto con la degenerazione del conflitto civile in Ucraina che ha poi portato alla guerra. E non pare ci sia alcuna intenzione di elaborare una visione di cooperazione – sostanzialmente con tutto ciò che si considera “mondo russo” – in futuro. Qualsiasi visione e influenza politica che porti la Russia nel ruolo di attore con un minimo di influenza globale viene visto come male assoluto, non gestibile, con un utilizzo spropositato e fuori luogo di paragoni con la Germania nazista (senza ricordarsi che il nazismo fu inizialmente strumento capitalistico in funzione anti-marxista e antisovietica).
In questa visione, l’Unione Europea è divenuta negli anni pienamente organica, sancendo, con il voto del Parlamento Europeo che ha equiparato storicamente nazismo e comunismo, la propria direzione invasiva ed aggressiva verso est e verso la Russia ad ogni livello diplomatico, sociale e civile.
La situazione interna all’Unione Europea
“Chi semina vento, raccoglie tempesta” recita un famoso proverbio. Il quadro nell’UE è appunto in costante e dinamico cambiamento, non sempre univoco ma con qualche segnale sia per i comunisti sia per forze sociali genuinamente antisistema. Dopo la buona affermazione del Blocco Sarah Wagenchnecht in diverse elezioni regionali in Germania, nel contesto di una ancor più forte affermazione dell’estrema destra di AFD, anche le ultime elezioni regionali in Repubblica Ceca, oltre a quelle per il rinnovo del Senato, hanno visto la coalizione Stačilo!, guidata dal Partito Comunista di Boemia e Moravia (KSČM), dopo aver ottenuto un seggio al Parlamento Europeo nelle ultime elezioni, ottiene un risultato di ritorno sorprendente, con quasi 285mila voti, quinta forza del paese (da ultima quale era, nonché fuori dai radar delle soglie di sbarramento) e un ottenimento di 40 consiglieri regionali totali, di cui quasi 32 direttamente membri del KSČM.
In Polonia la situazione è, per la sinistra di classe, strutturalmente ancora molto difficile, ma elementi di rifiuto della guerra e di uno scontro con la Russia stanno iniziando a riemergere, per altre strade non attinenti alla “sinistra” socialmente intesa, come anche nel caso della Bulgaria dove la nuova formazione politica “Grandezza”, considerata filorussa dal mainstream, ha per la prima volta in quel paese raggiunto la soglia di sbarramento del 4% (ma ci sono dei problemi legati agli scrutini e ai riconteggi e relative polemiche che avrebbero escluso la formazione per soli 30 voti).
In sostanza, la strada per una vera e reale libertà dei popoli sta riemergendo attraverso un concetto, quello di sovranità, che per quanto svilito dai liberal atlantisti o impropriamente utilizzato dalle destre che in questa fase approfittano dei cambiamenti in atto per imporre egemonia e vivere di rendita di governo per diversi anni, sta piano piano riprendendo strada in una molteplicità di forme che potranno ai più risultare inattese, ma non certo a chi, come i comunisti, ha l’obbligo di dover analizzare e agire nella realtà del presente.
La strada per uscire dai nazionalismi deteriori è quella di questa Europa e della sua retorica “democratica” che porta continuamente a guerre ai suoi confini? Non lo crediamo assolutamente.