In ricordo di Bangaly Soumaoro
A una manciata di chilometri dalla Bari da bere, quella percorsa dai tacchi a spillo di Lolita Lobosco o dalle suole esistenzialiste del maresciallo Fenoglio per intenderci, c’è un luogo nascosto alla vista dei più e ben protetto da un fitto reticolato di filo spinato. Nel cuore di una vecchia base militare dell’Aeronautica, dove prima sorgeva l’inguardabile roulottopoli tirata su alla bell’e meglio durante le innumerevoli emergenze sbarchi, dal 2008 è attiva una struttura, il CARA, che, a dispetto del nome grazioso e rassicurante rappresenta una delle tante vergogne nazionali che offusca il ritratto di “italiani brava gente” che ci siamo cuciti addosso sin da tempi non troppo recenti. Chi lo ha progettato deve aver avuto in mente il razionalismo teutonico e l’ottimizzazione degli spazi che ha ispirato i costruttori di opere monumentali come Auschwitz I, Monowitz, Birkenau ma senza forni, perché siamo democratici e preferiamo annichilire l’individuo seguendo le leggi dello Stato.
Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo, ecco la targa che si staglia ai cancelli di ingresso, ben sorvegliati da militari armati. Oltre la soglia si intravede una serie di baracche, pardon, moduli abitativi prefabbricati, collocati attorno a uno spiazzo centrale nel quale sorge, ormai in disuso, il tendone della mensa comune. I plessi dei servizi igienici sono quattro e si dispongono sui due lati del campo, separati dalle unità abitative. Contano 20 docce e 20 wc ciascuno e servono una popolazione che oscilla tra le 744 (capienza regolamentare) e le 1488 unità (capienza massima tollerabile). Non serve un pallottoliere per farsi un’idea dell’insufficienza dei servizi minimi e delle condizioni disastrose in cui versano per incuria e assenza di manutenzione. Nessuna area verde all’interno, né spazi per ripararsi dal sole e dalle torride temperature estive. Tettoie fatiscenti, campetti dove tirare due calci a un pallone, una minuscola ludoteca di 70 mq per i minori ospiti e spazi dedicati al culto, spesso forieri di tensioni etnico-religiose tra gli ospiti di varie nazionalità. Di questo si compone l’efficiente sistema di Accoglienza dei Richiedenti Asilo.
«Non c’’è mica da lamentarsi», pensa il cittadino comune. «Arrivano qui clandestinamente, vengono accolti, gli diamo un tetto, vestiti, cibo, il telefonino e persino soldi!» (ricordate il ritornello dei 35 euro al giorno? Deve esserci stato un problema di misunderstanding, poiché la quota reale corrisponde a un buono giornaliero di 3 euro e 50 centesimi con il quale acquistare sigarette, giornali e poco altro allo spaccio interno alla struttura. E neppure nella favolosa città di Bari, la nuova ville Lumière del cinema e delle serie televisive, si campa con 3 euro e 50).
«E poi non sono prigionieri, possono girare per la città e delinquere liberamente, purché rientrino alle 20». Peccato che i mezzi a disposizione degli ospiti siano pochi e gli orari delle corse non consentano loro di lavorare (a nero) e di essere sfruttati come schiavi dai democratici imprenditori locali, dall’esercito di caporali arroccati nelle campagne o dalla fiorente industria malavitosa a meno di non scavalcare la recinzione e di attraversare, spesso a piedi o con biciclette di fortuna, la statale 16 o i binari della ferrovia. «Stanno meglio che in albergo», sostiene la vulgata. «E bivaccano per mesi perché non hanno voglia di far nulla», non certo perché il sistema li abbandona a loro stessi in un limbo giudiziario perenne in attesa di una risposta alla domanda l’asilo ben oltre i 35 giorni previsti per legge; un sistema effettivamente detentivo che di accogliente ha ben poco e che non è in grado di sopperire alle emergenze (sanitarie, sociali, umane) che genera. Non si contano i disagi psichici tra gli ospiti (ansia, insonnia, depressione, aggressività, disturbi del comportamento), né i tentativi – spesso andati a “buon fine” – di suicidio. Eppure per la brava gente che vive oltre il filo spinato sono solo una marmaglia senza volto, che non merita gli stessi diritti e le stesse opportunità delle “persone normali”.
«Bevono, fanno a botte, danno di matto, fanno solo danni. Sporcano e puzzano, sono indecorosi». Salvo quando li sottopaghiamo per nettare i decorosi deretani dei nostri anziani genitori, perché noi non ci possiamo sporcare le mani. «E poi sono neri, mica come i barboni che non li distingui dai cartoni e dall’immondizia perché sono talmente invisibili da non avere manco più una faccia».
Ma a volte hanno un nome e quel nome finisce sui giornali. Come Bangaly Soumaoro, 33 anni, proveniente dalla Guinea e ospite del CARA insieme alla sua compagna, che lo scorso 4 novembre è deceduto all’ospedale del San Paolo nell’indifferenza (e inefficienza) generale. Sembrava l’ennesimo suicidio, uno dei tanti gesti di disperazione estrema che i migranti compiono per sfuggire a condizioni di vita disumane, quando si spegne anche la speranza di ottenere l’agognata risposta alla domanda di asilo. Così si sono affrettati a riportare i giornali nei numerosi articoli che hanno divulgato la notizia, accompagnata dalla menzione delle proteste degli ospiti che si sono recati in corteo dal Prefetto chiedendo giustizia e dignità. Ingestione di pile che avrebbe determinato un arresto cardiaco di fronte al quale i medici si sono dovuti arrendere. Ma dall’autopsia effettuata dal prof. Francesco Introna, direttore dell’Istituto di Medicina Legale del Policlinico di Bari, emerge una verità molto diversa: Soumaoro è morto a causa di un’ulcera mal (o forse mai) curata. Da giorni lamentava forti dolori intestinali, tenuti a bada dal personale sanitario del CARA esclusivamente con l’ausilio di paracetamolo. Quando infine si sono decisi a portare il paziente in ospedale era già troppo tardi e Bangaly è tornato a essere un nome da dimenticare, un corpo morto da rimpatriare, una vita insignificante che non meritava di essere salvata, uno dei tanti nemici in questa insensata guerra tra poveri che il sistema capitalista ha insinuato nella nostra società, nella nostra forma mentis, nel nostro modo di dividere il mondo in bianco e nero, buono e cattivo, vivo o morto e che noi assecondiamo inseguendo un’illusione di benessere e di prosperità.
Finito il clamore, asciugate le lacrime di circostanza e stemperata l’indignazione a comando torneremo a storcere il naso quando un migrante si accomoderà accanto a noi in autobus o ci precederà in fila alla posta, quando il suo odore pungente offenderà le nostre narici o la sua lingua incomprensibile – quasi quanto il dialetto barese? – ci infastidirà e ci sembrerà barbarica. E dimenticheremo persino di rivolgergli un pensiero di gratitudine quando compreremo al mercato i pomodori a pochi spiccioli perché raccolti da schiavi senza volto, senza diritti, senza nome.
Sara Ricci
Presidente sezione PCI “Filippo D’Agostino” – Bari