In questi giorni emerge prepotentemente la vicenda della nostra connazionale, giornalista de “Il Foglio”, incarcerata in Iran per supposta “violazione della legge islamica”; Cecilia Sala è stata al centro di appelli da parte della politica italiana che, senza approfondire la sostanza della questione e delle relazioni diplomatiche con l’Iran, hanno fatto richiamo a un generico umanitarismo e superiorità morale italiana e in generale dell’Occidente verso un paese considerato autoritario tout court. Di certo tale campagna, ad uso interno, ha dimostrato una scarsissima capacità diplomatica del nostro Governo e, se volessimo allargare il campo, anche delle opposizioni di centrosinistra, nel comprendere come, quando ci si pone in una situazione di conflitto internazionale, sia necessario adottare una serie di cautele e capacità di relazione a prescindere da quale sia la strategia e la direzione intrapresa. Tanto è che la famiglia della Sala in questi giorni ha richiesto il silenzio stampa.
La vicenda si incrocia con quella di un altro arresto operato sul territorio italiano, dalla Polizia italiana, nei confronti di un cittadino iraniano, Mohammed Abedini, su richiesta degli Stati Uniti, perché secondo gli USA avrebbe aiutato, attraverso la consegna di materiale elettronico riservato utile allo sviluppo di droni anche a uso militare, i Pasdaran iraniani.
Facciamo presente che i Pasdaran, corpo militare di élite iraniano, sono considerati gruppo terroristico dagli USA ma non dal nostro paese.
A dire di alcuni osservatori indipendenti, la documentazione probatoria per il fermo di Abedini non sarebbe ancora arrivata dagli Stati Uniti, e sempre secondo questi analisti pacifisti e secondo alcuni giornali meno schierati con le politiche di guerra, la reazione iraniana sarebbe identificabile proprio nell’arresto della nostra giornalista Cecilia Sala, e che solo grazie a questa azione le condizioni di detenzione dell’iraniano sarebbero migliorate, e che l’iraniano solo dopo la notizia dell’arresto della giornalista avrebbe ottenuto il suo diritto a comunicare con il proprio consolato. Abedini, sempre secondo questi analisti, inizialmente sarebbe stato portato in un carcere periferico, quello di Rossano Calabro, in regime di detenzione non propriamente idoneo, vicino peraltro a detenuti terroristi di fede sunnita, che per lui, iraniano e sciita, rappresentano una pericolosa compagnia di cella.
Tutta questa vicenda dimostra come, in un ambito delicato come le relazioni internazionali, e soprattutto in un periodo di scontro globale come quello di questi anni – dove, non dimentichiamolo, l’Iran sta per entrare nei BRICS, ha rapporti intensi con la Russia sul piano della tecnologia militare, ha rapporti economici importanti con la Cina – il nostro Governo, sovranista solo a parole, si dimostra perlomeno avventato eseguendo per conto terzi (gli USA) con una insolita immediatezza una richiesta di arresto – a quanto pare nelle fasi iniziali senza molte garanzie – di un cittadino di un paese al quale applichiamo già sanzioni economiche, dichiarandolo poi a mezzo stampa senza peraltro preoccuparsi tempestivamente delle potenziali ripercussioni che sarebbero potute accadere (e sono poi concretamente accadute) a nostri cittadini operanti in questo paese mediorientale dal quale proveniva l’arrestato.
A prescindere da quello che è il contenuto dell’attività giornalistica della Sala, che non abbiamo mai condiviso nella sostanza delle sue analisi, ovviamente come PCI siamo perché si lavori al rilascio quanto prima della nostra connazionale: al netto di eventuali sviluppi ulteriori che meglio chiariscano eventuali altre responsabilità della Sala, per le quali ad oggi non abbiamo elementi per esprimerci, l’attività giornalistica deve essere garantita nella libertà di svolgimento.
Non possiamo però non evidenziare come, se vale il diritto per qualcuno, questo vale anche per qualcun altro: se Abedini ha lavorato per il suo paese sovrano, al fine di sostenerlo e sostenere le sue strutture governative per la sua difesa, non crediamo che questo debba essere identificato come terrorismo come invece ritengono gli americani, ai quali dovremmo far presente che non tutto quello che loro ritengono essere questione di sicurezza nazionale debba essere considerato nella medesima maniera in Europa. Ne va della nostra sovranità, già fortemente compromessa dalle politiche di guerra della NATO e dalla totale accondiscendenza verso Israele e la sua politica neocoloniale: è importante peraltro ricordare che i bombardamenti israeliani hanno ucciso in un anno più di duecento giornalisti palestinesi, ma per loro nessuna considerazione né mobilitazione è stata fatta.
Ricordiamoci che molte volte dietro le sigle che vengono definite “terroristiche”, spesso ad uso e consumo delle politiche imperialiste, ci possono essere partiti, organizzazioni, stati, che godono di consenso nella popolazione, e che spesso tale definizione del “nemico” come soggetto terrorista, con il quale non è mai possibile instaurare una trattativa, è strumentalmente utile solo a politiche di guerra che tutto fanno meno che gli interessi delle popolazioni coinvolte. Quando poi ci sono stati i terroristi veri, vedi ISIS, si va sempre a scoprire che sono state creature sfuggite da mani e da menti anche molto vicine a quelle che noi definiamo “democrazie liberali”. Di sicuro l’Iran non è un modello di paese al quale una forza socialista o comunista aspira, ma è uno Stato, con le sue regole diplomatiche e i suoi canali di comunicazione, che governa su decine di milioni di persone. Meno retorica e più capacità diplomatica sarebbero da auspicare in una politica italiana sempre meno competente e sempre più succube di influenze esterne d’oltreoceano.
Dipartimento internazionale PCI