Ieri la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il quesito referendario per l’abrogazione totale della legge 86/2024 (legge Calderoli), secondo quanto comunicato dall’Ufficio stampa della Consulta, perché l’oggetto e la finalità risulterebbero poco chiari per la scelta consapevole degli elettori.
Contestualmente ha ammesso i cinque Referendum, concernenti la cittadinanza per gli extracomunitari, il Jobs act, l’indennità di licenziamento nelle piccole imprese, i contratti di lavoro a termine e la responsabilità solidale del committente negli appalti.
Per quanto attiene al quesito referendario più dibattuto, che puntava all’abrogazione della legge Calderoli , mentre sul piano giuridico ci asteniamo da qualsiasi osservazione in attesa di leggere la sentenza, riteniamo comunque, sul piano politico, che tale decisione abbia voluto preservare il Titolo V° della Costituzione, così come purtroppo deturpato dalla improvvida modifica del 2001, e consolidato dalle dichiarazioni delle forze politiche dell’intero arco parlamentare di questi ultimi mesi e dai ricorsi parziali delle Regioni, che hanno sostanzialmente mostrato di condividere il principio e l’impalcatura della regionalizzazione del 116 e della privatizzazione dei diritti sociali, che ne consegue.
La stessa scelta, infatti, di presentare quesiti referendari di abrogazione parziale, insieme a quello totale, ha comportato, come abbiamo più volte sostenuto, non solo l’ambiguità sul piano della battaglia politica, circa l’obiettivo, ma anche un’impostazione perdente sul piano giuridico.
Del resto questa decisione prevedibile, ma non per questo meno deludente, è la logica conseguenza della sentenza della stessa Consulta 192/2024, che pur smantellando i cardini della secessione leghista, come abbiamo già sottolineato con un apposito comunicato (a partire dalla ripristino del ruolo del Parlamento in tutto l’iter per l’attribuzione delle funzioni alle Regioni), ha sancito la legittimità costituzionale della legge ed ha facilitato l’affermazione che il Referendum sarebbe calato su una legge diversa da quella di prima della sentenza.
Il PCI, sempre da un punto di vista socio-politico, non può non sottolineare che tale decisione non ha tenuto in alcun conto la volontà di oltre un milione e trecentomila elettori, ai quali viene ora negata qualsiasi possibilità di contrastare “in nuce” un progetto che, comunque, divide il Paese e consolida le disuguaglianze tra i territori e tra gli stessi diritti dei cittadini.
Ma, soprattutto, ciò che dà ragione alla nostra analisi è che alla base della decisione della Consulta c’è in sostanza, l’affermazione (sostenuta da un indiscutibile fondamento giuridico) che non si poteva ammettere un Referendum teso ad abrogare una norma costituzionale (cioè l’art 116, c.3 del Titolo V°), con ciò dimostrando, ancora una volta, che è questa la vera battaglia politica che il PCI ha da tempo proposto alle forze democratiche, sociali, sindacali e della Sinistra alternativa: dobbiamo batterci per la riscrittura del Titolo V° della Costituzione, per ripristinare la sua ratio originaria, deturpata dalla controriforma del 2001, voluta per assecondare le smanie secessioniste della Lega e realizzata da un Governo di centrosinistra, che ha aperto la stura a pericolose riforme costituzionali e a tutti i tentativi di secessione, succedutisi nel tempo.
Roma 21 gennaio 2025
Responsabile Democrazia, Costituzione e Riforme
Walter Tucci