CINA – DA “ SABBIA INFORME” A POTENZA GLOBALE, di Diego Angelo Bertozzi: un’opera da studiare.

cina bertozzi

Pubblichiamo alcuni stralci del libro, di recente pubblicazione, CINA- DA “ SABBIA INFORME” A POTENZA GLOBALE, di Diego Angelo Bertozzi, Imprimatur edizioni, pagine 333, euro 19,00.

La parte che pubblichiamo affronta il momento di passaggio tra “la chiusura di fatto della fase più calda della Rivoluzione culturale” ( 1966-1969) e l’inizio di quella delle “Quattro modernizzazioni”, che prepara il terreno all’attuale sviluppo cinese.

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Riforma e apertura: la lunga marcia economica

La morte di Lin Biao e il fallimento del complotto non pongono tuttavia fine agli scontri all’interno del Partito comunista. La lenta ma inesorabile ricostruzione delle strutture di partito e la chiusura di fatto della fase più calda della Rivoluzione culturale agiscono in modo da limitare la portata degli stessi, anche perché a farsi sentire è un’opinione pubblica che vuole chiudere definitivamente un intero periodo di disordini.

Se a livello strettamente ideologico non si mettono in discussione – soprattutto da parte di Mao – i fondamenti della Rivoluzione culturale, e con questi il primato della lotta di classe, esce allo scoperto, fino a farsi maggioranza, una linea politica che si richiama esplicitamente alle sperimentazioni economiche dei primissimi anni Sessanta successive al disastro del “Grande balzo in avanti”.

Due sono le personalità che raccolgono questa eredità, due rivoluzionari e uomini di Stato che anno vissuto e superato, in modo diverso, tutte le fasi della rivoluzione socialista: Zhou Enlai, primo ministro fin dal 1949, e Deng Xiaoping, pronto a riprendere il suo posto dopo l’esilio forzato in una fabbrica di trattori.

Il primo, con alle spalle una lunga esperienza di costruzione e tenuta amministrativa, è l’ideatore della formula delle “Quattro modernizzazioni”, presentata già nel 1964, e ritiene indispensabile restituire piena autorità al partito e costruire un apparato statale autorevole per procedere al progresso economico e sociale della Cina e farla uscire dalla condizione di Paese ancora arretrato. A suo parere innovazioni tecnologiche, liberalizzazioni, ristrutturazioni dell’apparato produttivo e incentivi materiali sono misure necessarie per avviare e raggiungere due tappe: l’edificazione di un sistema economico indipendente e relativamente completo entro il 1980 e il raggiungimento dei vertici del sistema economico mondiale entro la fine del secolo. Di contro resiste un’ala che potremmo definire di “estrema sinistra” – capitanata da quella che sarà presto definita la “Banda dei quattro” – che ripropone, in una situazione di progressivo isolamento e impotenza, i temi della lotta contro il deviazionismo di destra e la restaurazione borghese, del primato della fedeltà politica (il “rosso”) sulle competenze (il “bianco”), della mobilitazione delle masse per accelerare lo sviluppo economico e che si oppone alla riabilitazione di quadri allontanati durante la Rivoluzione culturale. La campagna “Critica a Lin e a Confucio” è l’ultimo tentativo di quest’ultima per fermare il processo in atto: dietro l’attacco ai valori tradizionali confuciani, e al ricorso all’analogia storica, si cela quello diretto al primo ministro e alla sua politica di restaurazione tanto in campo amministrativo quanto in quello economico.

La morte di Mao (9 settembre 1976) e la messa fuorigioco degli ultimi fortilizi della Rivoluzione culturale (arresto della “Banda dei quattro”), facilitano l’avvio della fase che potremmo considerare la più “prosaica” della costruzione del socialismo cinese; quella che si confronta con i tempi lunghi della realtà, con le contraddizioni di un Paese ancora arretrato al quale non basta certo la mobilitazione perenne delle masse per modernizzarsi. Così scriveva a fine anni Sessanta, mentre in Europa la figura di Mao raggiungeva il massimo splendore, il sinologo belga Simon Leys (in realtà Pierre Ryckmans):

Egli voleva risolvere il sottosviluppo industriale ed economico sostituendo alle strutture di base – di cui la Cina era decisamente priva – le risorse umane dell’intero paese, galvanizzate da un’ondata generale di entusiasmo rivoluzionario. Il sogno di Mao era di riuscire a catapultare la Cina verso il comunismo partendo da fattori sovrastrutturali anziché da fattori materiali: al posto dell’energia elettrica di cui parlava Lenin, l’energia rivoluzionaria. […] Un modo idealista e volontarista di accostarsi ai problemi, peculiare dell’artista e del poeta, per i quali la realtà non si impone come momento imprescindibile, ma deve essere inventata, forgiata, seguendo e spostando gli imperativi d’una visione puramente soggettiva e interiore. È significativo il posto che occupa, nell’opera di Mao, il famoso aneddoto del vecchio folle che aveva deciso di spostare le montagne con la sola forza delle proprie braccia. Il ritorno sulla scena di Deng è difficile e contrastato, dovendo superare le feroci critiche della sinistra, una nuova marginalizzazione, e poi sostenere una paziente lotta per avere la meglio all’interno del partito su Hua Guofeng, il successore designato di Mao; per imporre il criterio della “ricerca della verità nei fatti” a quello dei “due qualsiasi” (difendere qualsiasi politica del presidente Mao e realizzare qualsiasi istruzione del presidente Mao) cui si ispira nella sua breve stagione di potere proprio quest’ultimo. Nella sua formula, il padre della modernizzazione cinese prende il testimone direttamente dal Mao pragmatico mentre rifiuta categoricamente l’ermetismo di un pensiero racchiuso nelle formule del Libretto rosso; le considerazioni che seguono rappresentano una sorta di manifesto del socialismo con caratteristiche cinesi contemporaneo; la Rivoluzione culturale è una fase chiusa da poco e resistenze alle riforme sono ancora presenti in un partito che ha vissuto per due lustri nel culto di Mao:

Se il modo di pensare diviene rigido, culto libresco, separazione dalla realtà, si trasforma in malattia grave. Chi ne è colpito non osa più dire una parola o fare un passo che non sia menzionato nei libri, nei documenti o nei discorsi dei dirigenti: si finisce col copiare tutto. […] Non arriveremo da nessuna parte nel movimento delle quattro modernizzazioni, a meno che si rompa la rigidità nel modo di pensare e si emancipino le menti dei quadri e delle masse. […] È impossibile per un partito o per una nazione progredire se tutto deve essere fatto seguendo i libri, se il modo di pensare diviene rigido e ci si abitua alla fede cieca. La vita di un tale partito o nazione verrebbe a cessare e perirebbe. Il compagno Mao Zedong continuava a ripeterlo nel corso dei movimenti di rettifica. Solo se emancipiamo le nostre menti, cerchiamo la verità nei fatti, partiamo in qualsiasi cosa dalla realtà e integriamo la teoria con la pratica potremmo far avanzare facilmente il nostro programma di modernizzazione, e solo allora il partito potrà sviluppare ulteriormente il marxismo-leninismo e il pensiero di Mao.

La volontà di Deng è chiara ed emerge a partire dalla fine degli anni Settanta: il percorso verso la realizzazione di una società comunista è lungo e non può essere certo il risultato di fughe in avanti ideologiche o della perpetuazione di una situazione che, per quanto egualitaria, resta inchiodata a una sorta di povertà condivisa; no, è il momento di puntare con decisione sullo sviluppo delle forze produttive per garantire alle masse cinesi un tenore di vita sempre più elevato e per consentire al Paese intero di colmare il gap tecnologico con le maggiori potenze capitaliste e imperialiste. La contraddizione principale, quindi, non è più quella tra borghesia e proletariato, ma quella che oppone le necessità quotidiane di un miliardo di persone alle condizioni assai precarie dell’apparato produttivo. Un processo sperimentale di sviluppo sintetizzato nella formula delle “Quattro modernizzazioni” (agricoltura, industria, difesa nazionale e scienza) che si conferma, all’indomani della Terza sessione plenaria del Comitato centrale del Pcc del 1978 (successiva all’XI congresso del Pcc e alla V Assemblea nazionale del popolo), come svolta duratura della politica economica cinese, sancendo il definitivo accantonamento della Rivoluzione culturale. A essere estese sul lungo periodo sono teorizzazioni e politiche già avanzate e messe in pratica, anche se tra mille difficoltà e brevi periodi, in tempi precedenti.

È l’avvio di una vera e propria Nep cinese con obiettivi che vogliono tempi lunghi, sperimentazioni e un clima di pace interna e all’esterno. Una “modernizzazione socialista” che richiede la rottura con un’economia ultracentralizzata, la cooperazione con i Paesi economicamente avanzati, la riforma della produzione agricola e la rivalutazione delle capacità tecniche e scientifiche.

Il richiamo ai tempi lunghi per la modernizzazione non è una novità per la dirigenza cinese, soprattutto nei primi anni della Repubblica popolare. Possiamo brevemente riprenderlo e darne conto, anche solo per mostrare quanto possa essere sbrigativa e superficiale la sentenza che – soprattutto a sinistra – condanna la fase di riforma come “abbandono” o ancor di più “tradimento” consumato ai danni di Mao. È proprio quest’ultimo ad aver richiamato più volte sul lungo processo di sviluppo economico, sulla necessità di decenni per realizzare uno Stato socialista industrializzato: «Dobbiamo diffondere l’idea che il nostro paese va costruito con un duro lavoro e praticando. Bisogna far capire a tutti i giovani che il nostro paese è ancora molto povero e che questa situazione non può essere modificata in poco tempo […]».

E a conferma di come l’attuale prassi del Partito comunista cinese, con l’apertura al mercato, all’iniziativa privata e alla collaborazione con le figure sociali emerse sull’onda di uno sviluppo economico impietoso, abbia solide radici nell’originario patto sociale della rivoluzione, ci sono queste dichiarazioni che risalgono al 1957, nelle quali è esplicito il riferimento a un sforzo collettivo che non esclude la collaborazione con una borghesia sinceramente nazionale: la contraddizione tra la borghesia nazionale e la classe operaia, tra sfruttati e sfruttatori ha certamente un carattere antagonistico, ma nelle condizioni concrete della Cina questa contraddizione può essere «trasformata, se trattata nel modo giusto, in contraddizione non antagonistica ed essere risolta con metodi pacifici». Tempi lunghi quindi, e necessità di collaborare con una borghesia nazionale che accetta la guida del Partito comunista cinese, come già era chiaro nell’immediata vigilia della nascita della repubblica popolare quando, sempre lo stesso Mao, specificava che per portare l’economia a un livello più alto la Cina doveva «utilizzare tutti i fattori del capitalismo urbano e rurale che siano vantaggiosi e non nocivi all’economia nazionale e alla vita del popolo» e i comunisti erano chiamati a unirsi «alla borghesia nazionale in una lotta comune». E proprio il tema della lotta comune per far uscire il Paese dalla condizione di sottosviluppo, con ampie fasce della popolazione ancora intrappolate nella miseria, è ripreso da Deng Xiaoping per lanciare il lungo percorso di quella che viene definita «una grande rivoluzione» per superare l’arretratezza economica e tecnologica e consolidare la guida del Partito comunista.

Un programma di ampio respiro che deve coinvolgere ogni settore: «Perché il suo obiettivo è quello di mutare l’attuale stato di arretratezza delle nostre forze produttive, ciò comporta inevitabilmente molti mutamenti nei rapporti di produzione, nella sovrastruttura e nelle forme di gestione delle imprese industriali ed agricole, nonché mutamenti nell’amministrazione statale di queste imprese, in modo da venire incontro alle esigenze della produzione su vasta scala».

Quello che prende avvio con le prime riforme è ancora una volta un gigantesco “processo di apprendimento” e di “sperimentazione” – che si sviluppa ancora oggi – fondato sull’abbandono di ogni sterile dogmatismo, e che vede l’intero Paese impegnato nello studio delle tecniche e delle tecnologie più avanzate detenute dalle potenze capitaliste che, oltre a decretarne l’indiscutibile superiorità militare, potrebbero essere utilizzate per minacciare ancora una volta l’integrità del Paese asiatico. Si punta sull’utilità, a fini dello sviluppo del socialismo, di metodi e mezzi sviluppati in ambito capitalista, affidando al mercato un ruolo regolatore ausiliario sotto l’orientamento dell’economia pianificata: «[…] noi dobbiamo imparare dai popoli dei Paesi capitalistici. Dobbiamo far uso della scienza e della tecnologia che essi hanno sviluppato, e di quegli elementi della loro conoscenza ed esperienza accumulata che possono essere adattati al nostro uso. Mentre importeremo tecnologia avanzata e altre cose per noi utili dai Paesi capitalistici – in modo selettivo e pianificato – non impareremo mai né importeremo mai il sistema capitalista […]».

Il giudizio su Mao. E il ricordo di Mao

 Diversi storici e studiosi hanno raggiunto un sostanziale accordo sulla valutazione di Mao Zedong e del suo operato durante tutto il processo rivoluzionario fino alla Rivoluzione culturale, passando dalla nascita della Repubblica popolare. D’altronde, è inutile negarlo: la figura del Grande timoniere parla ancora a noi in quanto simbolo dell’orgoglio, del riscatto e dell’unità nazionale per un Paese e un popolo ritornato alla ribalta sulla scena mondiale. La sua liquidazione e riduzione a semplice mostro al pari di un Hitler non solo è un’operazione superficiale e semplificatoria, ma impedisce anche la comprensione di un intero progetto di riscatto nazionale.

In poche parole non è possibile ridurre il giudizio agli errori e alle tragedie che sono seguiti ad alcune delle sue decisioni, ancor di più se non si tiene conto dell’isolamento internazionale e della persistente minaccia bellica che per molto tempo hanno pesato sulla Cina popolare, impedendole anche di portare a conclusione la riunificazione del Paese. Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che la storiografia riconosce a Mao indubbi meriti.

Possiamo qui limitarci ad alcune e più recenti considerazioni di eminenti studiosi, non certo toccati da smanie agiografiche. Per la storica Linda Benson nonostante «le due battute d’arresto dovute al Grande balzo e alla Rivoluzione culturale, complessivamente l’economia cinese compì indiscutibili progressi durante il periodo maoista. Il settore industriale si espanse rapidamente e la produttività agricola ancora una volta era in crescita quando Mao morì. Le infrastrutture cinesi si svilupparono: venne estesa la rete ferroviaria e aumentò in numero di strade. All’infuori dei più remoti villaggi, l’elettricità arrivò ovunque e l’aspettativa di vita salì a 65 anni nel 1976, un incremento notevole rispetto ai dati del 1949». E non è tutto, perché a essere garantiti sono stati diritti fino ad allora impensabili: «Con le nuove leggi della Repubblica popolare le donne avevano la stessa posizione sociale degli uomini e per effetto del movimento delle comuni avevano cominciato a lavorare fuori casa. Benché i tentativi di sviluppare l’istruzione pubblica fossero falliti ripetutamente, a causa delle campagne politiche, il numero degli alfabetizzati crebbe durante tutto il periodo, in parallelo al numero di scuole e università. Questi risultati sono parte dell’eredità lasciata dalla prima generazione di rivoluzionari».150 Non distante da questo è il giudizio di un prestigioso biografo come Maurice Meisner, convinto che la dinamica economica che negli ultimi decenni ha trasformato la Cina sarebbe stata impossibile senza i risultati del periodo maoista, soprattutto l’unificazione della nazione e la riforma agraria. Molti, a suo giudizio, sono i successi raggiunti: […] la creazione di un governo centralizzato efficiente; il raggiungimento della piena indipendenza dopo un secolo di invasioni straniere e interferenze coloniali; la campagna di riforma agraria che attenuò alcuni dei peggiori abusi del vecchio sistema dei proprietari terrieri e che fornì i fondi per stimolare la modernizzazione in uno dei paesi più arretrati al mondo; la conseguente inaugurazione di un programma di rapida industrializzazione di successo; impressionanti miglioramenti nel campo dell’alfabetizzazione, della scuola, della salute pubblica e, cosa ancor più notevole, il quasi raddoppio dell’aspettativa di vita nel corso dei venticinque anni del governo Mao, da una media di 35 anni nella Cina di prima del 1949 ai 65 anni alla fine dell’era di Mao, alla metà degli anni Settanta.

Perché abbiamo riportato ampiamente queste considerazioni è presto detto: la stessa dirigenza cinese postmaoista, nello specifico quella guidata da Deng Xiaoping, ha espresso il proprio giudizio cercando di separare gli aspetti positivi da quelli negativi, evitando una completa – e probabilmente poco credibile – liquidazione sullo stile di quella sovietica compiuta nel 1956 nei confronti di Stalin. La legittimità del Partito comunista cinese, che si ritrova a operare al termine di un decennio di disordini e sconvolgimenti, poggia anche sul ruolo avuto da Mao nel riportare dopo un secolo il Paese alla piena sovranità, all’unità e all’integrità territoriale.

     (a cura di Fosco Giannini, resp. dipartimento Esteri PCI)

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