A cinque anni dal barbaro assassinio di Gheddafi

di Domenico Losurdo, Comitato Centrale PCI (ripreso da www.marx21.it)

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5 anni fa, il 20 ottobre 2011, veniva barbaramente assassinato il leader della Libia anticolonialista Mu’ammar  Gheddafi. Per ricordarlo e a eterna vergogna dei responsabili di questo crimine, da Sarkozy alla signora Clinton, che ora non a caso si appresta a divenire Presidente degli USA, riprendo alcune pagine del mio libro La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma (DL).

L’esultanza della signora Clinton per il crimine

Quante vittime ha provocato una guerra, che peraltro «non ha portato ai libici la “libertà dal tiranno” ma ha creato l’ennesimo Stato fallito, in preda a bande armate» e all’«estremismo islamico» (Panebianco 2013)? Per rispondere a questa domanda diamo la parola a un filosofo di fama internazionale: «Oggi sappiamo che la guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300 vittime della repressione iniziale» perpetrata dal regime che la NATO era decisa a rovesciare (Todorov 2012). Occorre aggiungere che la repressione colpiva una rivolta che certo aveva basi anche endogene ma alla quale erano tutt’altro che estranei i servizi segreti occidentali, a cominciare da quelli inviati dal governo di Londra i quali – ha rivelato la stampa britannica più autorevole – già da un pezzo si proponevano di assassinare Gheddafi, ricorrendo a ogni mezzo (infra, cap. 3, § 7). E, in effetti, la guerra sanguinosa del 2011, scatenata mentre non pochi paesi in particolare dell’Africa e dell’America Latina premevano per una conferenza internazionale e per la ricerca di una soluzione pacifica, si concludeva con il linciaggio di Gheddafi e lo scempio del suo cadavere.

Appresa questa notizia, esultava scompostamente Hillary Clinton. Scimmiottando il celebre «veni, vidi, vici» di Giulio Cesare e aggiungendo un tocco di brutalità all’originale, l’allora segretario di Stato esclamava: «venimmo, vedemmo, egli morì!» (we came, we saw, he died!»). Interrogata da un reporter presente all’esternazione se la sua visita a Tripoli avesse avuto qualcosa a che fare con la fine di Gheddafi, la signora rispondeva orgogliosa: «Sono sicura di sì». Qualche tempo dopo, in occasione di una trasmissione televisiva, un giornalista di «Fox News» chiedeva a Hillary Clinton se per caso rimpiangeva il suo precedente commento imperiale, dato che l’uccisione del leader libico era stata definita un «crimine di guerra» da diversi studiosi di diritto. Il giornalista era costretto a ripetere la domanda, ma l’unica risposta che riusciva a ottenere era: «Non intendo commentare». Il significato della guerra e della sua conclusione era comunque chiaro. Il notiziario di «Fox News» titolava: «Obama brandisce un altro scalpo» (Forte 2012, pp. 130-31).

Sarebbe tuttavia errato perdere di vista il ruolo essenziale svolto dai servizi segreti francesi nel crimine di guerra di cui qui si parla. Diamo la parola al «Corriere della Sera»: «E’ un segreto di Pulcinella che a Parigi volevano eliminare il Colonnello»; l’allora Presidente Nicolas Sarkozy era deciso a evitare in ogni modo che si venisse a sapere dei massicci finanziamenti elettorali a lui versati dal «dittatore» (Cremonesi 2012a). Dunque, colui che è stato forse il campione più zelante della «guerra umanitaria» era in realtà il principale beneficiario dei petrodollari del «dittatore», prima accolto con tutti gli onori all’Eliseo e poi messo a tacere con un regolamento di conti privato e dunque con un assassinio di stampo mafioso. Si poteva pensare o sperare che queste rivelazioni avrebbero provocato un sussulto di indignazione. Nulla di tutto questo è accaduto: evidentemente, il comportamento appena visto viene considerato più o meno normale dalle cancellerie occidentali e dall’opinione pubblica prevalente in Occidente. Il successore di Sarkozy, François Hollande, si è affrettato a sottolineare la continuità della politica estera della Francia. Il presidente “socialista“ e i suoi omologhi “democratici” non hanno cambiato idea, nonostante che sia paurosamente aumentato il numero dei profughi provenienti dalla Libia: essi fuggono da un paese “fallito”, o più esattamente costretto dalla NATO al “fallimento”, partendo da «campi» controllati dalle milizie, «dove si stupra sistematicamente, dove si tortura sistematicamente, dove vengono stabilite le tariffe per essere imbarcati verso l’ignoto, dove nessun controllo può essere effettuato da alcuno» (Venturini 2014).

Gheddafi e i leader terzomondisti

[Con l’appoggio di Camusso e Rossanda alla guerra contro la Libia] di nuovo emergeva la devastazione culturale e politica che aveva investito la sinistra. Dileguata era la memoria storica: cento anni prima l’Italia aveva scatenato contro la Libia una guerra coloniale, essa sì non priva di pratiche genocide. E a trattenere le due illustri esponenti della sinistra italiana non servivano neppure le prese di posizione dei leader dei Terzo Mondo che si pronunciavano per una soluzione negoziata o che, per voce del presidente del Nicaragua Daniel Ortega, chiamavano a difendere il «fratello» Gheddafi contro la «feroce campagna», mediatica prima ancora che militare, scatenata contro lui dal neocolonialismo. Sulla stampa italiana e internazionale si poteva leggere tranquillamente delle covert actions messe in atto dai servizi segreti occidentali già diversi anni prima dello scoppio della crisi; vedremo che gli stessi giornali e riviste impegnate ad appoggiare la guerra contro la Libia di Gheddafi tracciavano un quadro tutt’altro che lusinghiero dei ribelli, i quali si abbandonavano a saccheggi contro il loro stesso popolo, passavano per le armi i soldati fatti prigionieri, sfogavano la loro rabbia contro neri e migranti neri, sbrigativamente assimilati a mercenari del regime e trattati di conseguenza. Facendo ricorso a un’informazione appena più sofisticata, si poteva ricavare un quadro più equilibrato dei mutamenti intervenuti in Libia sull’onda della rivoluzione anticoloniale a suo tempo guidata da Gheddafi: la durata media della vita dei libici era passata da 51 a 74 anni, era stata realizzata l’alfabetizzazione di massa anche per le donne, il reddito pro capite era aumentato in misura assai notevole. Sul piano internazionale il regime si era opposto all’installazione di basi militari straniere, si era battuto per lo sviluppo autonomo e per l’unità economica e tendenzialmente politica dell’Africa. Su questa base il leader libico si era attirato sì l’ostilità implacabile dell’Occidente ma si era anche guadagnato, nonostante il carattere personale e autoritario del suo potere, la stima di non pochi leader del Terzo Mondo, compreso Nelson Mandela (Forte 2012, p. 143 e passim). Tutto ciò era ignorato da Rossanda. Ma anche a voler sottoscrivere l’analisi da lei tracciata della Libia del 2011, resterebbe pur sempre da rispondere alla domanda: per una leader storica del movimento di ispirazione marxista e comunista, le promesse non mantenute della rivoluzione anticoloniale sono un motivo sufficiente per schierarsi con la controrivoluzione neocoloniale?

Forse, a spiegare la presa di posizione di Camusso e Rossanda è stata la fretta, la mancanza di informazioni adeguate; ma, se si è realmente verificato, il ripensamento non è stato reso pubblico. Ancora una volta impietosa si rivela l’ironia della storia. A suo tempo, mentre infuriava la carneficina del primo conflitto mondiale, furono i bolscevichi a rivelare, assieme ad altri accordi dello stesso genere, l’accordo Sykes-Picot propriamente detto, e a denunciare la realtà della spartizione delle colonie che si occultava dietro l’ideologia della guerra dell’Intesa, ipocritamente impegnata a difendere la causa della democrazia e della pace nel mondo. Ai giorni nostri, ad avallare di fatto il nuovo Sykes-Picot sono stati il segretario di un grande sindacato che nel corso della sua storia si è distinto anche sul fronte della lotta anticolonialista e antimilitarista, e una figura di spicco di un «quotidiano comunista» che generalmente ha svolto e svolge un ruolo significativo nel contrastare le avventure belliche del potere dominante.

Come al susseguirsi delle guerre neocoloniali così all’aggravarsi del pericolo di guerra su larga scala la risposta della sinistra occidentale è debole o del tutto inesistente; eppure, si vanno estendendo i focolai di un conflitto che potrebbe essere catastrofico e varcare persino la soglia nucleare. Si direbbe che sia dileguata persino la memoria storica di una grande stagione di lotta contro la guerra e i pericoli di guerra!

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