CON L’UCRAINA ANTIFASCISTA: il PCI lancia una campagna nazionale sulla questione Ucraina

di Giusi Greta Di Cristina, dipartimento Esteri PCI

CN uCRAINA

Due anni son passati ormai da quella che fu definita dal mainstream la “rivoluzione di Piazza Maidan”, da quel sanguinoso sommovimento che rovesciò il governo legittimo, e  filorusso, di Yanukovych.

Due anni sono pochi ma abbastanza anche per chi aveva creduto ad una trama per cui il popolo era sceso in piazza a chiedere, una volta per tutte, di cancellare i rapporti – anche culturali, anche linguistici – con la Russia, per intraprendere un cammino più sinceramente europeista.

Peccato che ai molti, probabilmente, specie a causa della distorsione di cui le informazioni da noi sono spesso vittima preferita, sfuggì da subito la realtà sulla natura di quelle richieste e di chi se ne fece portavoce: neonazisti. Nel frattempo la Nato ordina alle forze armate ucraine di non muovere un dito, di lasciare che le cose vadano per un verso evidentemente già deciso.

Il presidente viene destituito: verrà sostituito da Poroshenko, accolto dall’establishment europeo (“un saggio leader” dirà di lui Matteo Renzi) e da quello americano come un salvatore, colui che avrebbe ristabilito la pace e l’armonia nel diviso popolo ucraino, portatore dunque di democrazia e baluardo dei diritti nazionali.

In realtà, Poroshenko, sostenuto dal suo partito, sostenendo l’Euromaidan, rappresentava esattamente quel che l’Europa finanziaria e gli Stati Uniti desideravano al governo dell’Ucraina. Washington e Bruxelles decidono infatti, fin da subito, chi saranno i futuri ministri del suo governo, tutti soldatini degli Stati Uniti e legati ai più retrivi ambienti della destra nazionalista: Natalie Jaresko, cittadina statunitense che ha lavorato al Dipartimento di Stato, al ministero delle finanze; Abromavicius, lituano, che ha lavorato per gruppi bancari europei, al ministero del commercio e dello sviluppo economico; Kvitashvili, ex ministro georgiano, al ministero della sanità; Saakashvili, anche lui georgiano, ex presidente, al governo della Regione ucraina di Odessa.

Ma né Poroshenko né la destra neonazista armata che lo sostiene è riuscita a colmare quel divario storico, culturale ed economico tra un Est filosovietico e l’Ovest nazionalista ed europeista: due mondi differenti di concepire non solo il mondo attorno ma il proprio Paese. È così cheil 6 aprile 2014 proprio in quell’Est filorusso scoppia una rivolta che vede coinvolte le regioni di Donetsk, Lugansk e Kharkiv, nello storico bacino del Donbass. È la guerra civile. Da quella data due regioni si sono proclamate indipendenti: la Repubblica Popolare di Donetsk e la Repubblica Popolare di Lugansk. In seguito ad un referendum tra queste due Repubbliche si è dato vita allo Stato Federale della Nuova Russia. Lo stato ucraino ne rivendica l’intero territorio e le considera come entità terroristiche.

In mezzo a tutto questo però c’è la strage di Odessa, col suo carico di terrore, di strazio, di morte, di complicità aberrante non solo della polizia, non solo dello Stato ucraino, ma anche dell’intera comunità internazionale, che in nessun momento ha premuto a che venissero fuori i filmati, le testimonianze, i verbali di quella pagina in cui sembrava d’esser tornati indietro di appena settant’anni. Una strage terribile, premeditata, in cui le persone presenti sono state quasi tutte uccise, torturate, violentate, bruciate vive, col silenzio assenso dei poliziotti presenti (e disarmati, come confermano alcune testimonianze di sopravvissuti).

Ma la strage non ha cambiato di una virgola il destino già segnato, già deciso dell’Ucraina.

Come ha correttamente evidenziato Zbigniew Brzezinski nel suo “La grande scacchiera” del 1989, l’attivo coinvolgimento degli americani – aiutati e sostenuti da paesi europei come la Germania – serve per “rafforzare la testa di ponte americana sul continente euroasiatico”, e questo è possibile solo risolvendo questioni nazionali sospese, come quella ucraina. Per far questo è necessario strappare Paesi ex Est dall’influenza russa e farli entrare di buon grado dentro l’Ue e consentire, così, l’allargamento della Nato sempre più a Est.

Ecco perché, oltre a decidere sulle nomine ministeriali del Paese, il Fondo Monetario Internazionale sta mantenendo in vita uno Stato economicamente alla canna del gas, con un Pil che è crollato del 12% nel 2015 (dopo il meno 7% del 2014) e la moneta ha perso il 70% del valore, come persino l’Economist ha scritto qualche tempo fa. Il FMI, dopo aver cancellato il 20% del debito estero dell’Ucraina, si è impegnata a versare immediatamente 11 miliardi con la promessa di versarne altri 11 entro il 2019, e così mantenere in vita l’economia ad uso e consumo degli interessi che sopra abbiamo spiegato.

Come sempre, però, ci sono quegli aspetti che nessun assetto autoritario o autoindotto può controllare: la medesima destra neoliberista che ha appoggiato il partito di Poroshenko e che avrebbe dovuto garantire la stabilità del suo regime, dinanzi alla débâcle economica havoltato le spalle al Presidente, affermando di non voler far parte della “banda” che non sta perseguendo la corruzione e vuole il totale controllo dei fondi pubblici.

Così, migliaia di morti, una guerra civile in corso in Donbass, nulla è servito a cambiare il volto dell’Ucraina che, dalle elezioni del 2014, ha sempre più assunto i connotati di un Paese di oligarchi impegnati ad arricchirsi grazie agli appalti pubblici, agli introiti della guerra e ai rapporti coi paesi europei (si pensi, come altro esempio, che Kiev ha ceduto l’intero controllo doganale a una impresa britannica) e con gli statunitensi. La situazione è resa ancor peggiore dalla presenza dell’estrema destra che continua ad agire con violenza e non sempre è frenabile, le forse democratiche che sono state screditate, il partito comunista dichiarato fuori legge, il fronte filorusso che tenta una rivincita.

È chiaro come il sole che trattasi di un quadro che tende all’esplosione. Soprattutto perché grazie ad un mercato nero delle armi fortissimo è naturale ipotizzare che presto vi sarà un’ennesima “rivoluzione” in cui le forze nazionaliste e antirusse (come il Settore Destro, braccio armato giovanile di ultradestra del Maidan) potrebbero avere la meglio su quelle filo-europee.

Neppure gli accordi di Minsk (1 e 2) sono riusciti a porre fine alla guerra civile che è in atto contro le popolazioni del Donbass: il Minsk 2, infatti, subentrato al primo perché non erano state rispettate le premesse, e firmato da Ucraina, Russia e dalle Repubbliche di Donetsk e Lugansk (con la presenza di Merkel e Hollande come mediatori) non ha ottenuto i risultati sperati: s’è reiterato l’immediato cessate il fuoco e il ritiro delle truppe, al quale sarebbe seguita la linea politica della riforma costituzionale da parte del governo ucraino, che avrebbe riconosciuto lo statuto speciale delle due Repubbliche. Esse avrebbero proceduto alle elezioni e l’Ucraina avrebbe ripreso il controllo del confine con la Russia.

Ma ancora adesso, a un anno di distanza dal Minsk 2, il processo di pace è ben lontano dal giungere a un punto di stabilità: nelle Repubbliche non si sono ancora svolte le elezioni poiché, secondo lo Stato ucraino, le due Repubbliche non sono pronte. Questo atteggiamento è, ovviamente, percepito in Donbass come una mancanza di volontà concreta di dialogare politicamente con le due Repubbliche.

Dal 1 settembre di quest’anno è stato proclamato un ulteriore cessate il fuoco, a dimostrazione che la guerra civile non si è arrestata ma che prosegue a fasi alterne. L’Ucraina, con molte probabilità, preferisce l’inazione per costringere ad accettare la presenza degli Stati Uniti in qualità di risolutore della controversia.

Stando alla realtà dei fatti, spesso nascosta o mascherata dalle nostre fonti di informazione, difficilmente la comunità internazionale muoverà un dito per le popolazioni del Donbass.

Ecco perché i partiti comunisti europei e internazionali devono mobilitarsi non solo per favorire una informazione veritiera e legata ai fatti ma anche per aiutare attivamente i popoli della regione del Donbass colpiti dalla guerra civile.

Il  Partito Comunista Italiano ha già aderito al Coordinamento Ucraino Antifascista e il suo Dipartimento Esteri parte – con l’iniziativa pubblica di Messina dell’8 novembre – con una campagna nazionale volta a far luce sul caso Ucraina, volta ad esprimere la totale solidarietà ai comunisti ucraini perseguitati, assassinati e gettati nell’illegalità dal governo illegittimo di Poroshenko e volta manifestare il proprio sostegno   alle popolazioni del Donbass ingiustamente colpite da una guerra civile che vuole, ancora una volta, asservire esseri umani agli interessi imperialisti.

Invitiamo le compagne e i compagni, le cittadine e i cittadini ad informarsi e informare, affinché si crei un fronte unito e forte contro l’attuale governo ucraino e affinché siano chiari i presupposti della Resistenza antifascista ucraina.

Accanto al Donbass, per la libertà dei popoli!

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