Donne e lavoro: Dalel e le altre

di Manuela Palermi, Presidente del Comitato Centrale del PCI

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Si chiama Dalel, credo che abbia 30/35 anni, l’ho conosciuta anni fa quando, con una delegazione della Cgil, andai in Tunisia per un incontro con i sindacati. Lei era ancora una ragazzina ed era già un’operaia. Da allora ogni tanto ci sentiamo.

Mi ha telefonato giorni fa, era domenica e lei era di cattivo umore. Non è affatto contenta di avere la domenica libera. Se fosse una domenica normale avrebbe indosso la divisa da lavoro, color verde chiaro, e starebbe in fabbrica, alla macchina da cucire. Ma la fabbrica di Dalel ora è chiusa. 65 operaie sono improvvisamente rimaste senza lavoro. “E’ brutta – dice – da anni mantengo una famiglia di sette persone ed ora, per comprare da mangiare, devo chiedere soldi in prestito”.

Dalel e le altre operaie hanno discusso a lungo, ore intere, poi hanno deciso che l’unica possibilità era quella di “recuperare” la loro fabbrica. Sono andate al sindacato ed hanno esposto la loro idea. Avrebbero fatto una cooperativa. Potevano farcela. Avrebbero chiesto al padrone di aiutarle ad avere le materie prime e a mantenere i clienti. Per un po’ avrebbero anche fatto a meno del salario, almeno finché non ci fosse stato un po’ di guadagno. E avrebbero anche fatto a meno dei contributi per l’assistenza sociale. Il sindacato le ha ascoltate, le ha messe in guardia, ha detto che era un’impresa quasi disperata, ma loro hanno insistito finché non l’hanno spuntata. Il sindacato ha steso un comunicato, c’era scritto che le operaie avevano ragione, e chiedeva il sostegno e la solidarietà di tutte le altre lavoratrici tessili.

Quel giorno, lasciando la sede del sindacato, Dalel e le altre si erano sentite imbattibili. Avevano pensato che ce l’avrebbero fatta e sarebbero diventate un simbolo per le donne di Chebba e dell’intera Tunisia.

Da allora sono passati quasi sei mesi e le cose sono ancora ferme. E lei, Dalel, ha sempre la domenica libera.

La fabbrica era la Mamotex. La sua impresa madre, la Sodrico, spediva la materia prima dall’Europa e poi vendeva le confezioni a grandi imprese europee che le mettevano sul mercato col marchio “made in Tunisia”. Assieme al sindacato, Dalel e le altre sono riuscite ad incontrare un dirigente della Sodrico che però ha fatto il pesce in barile: per il momento non può fare nulla, c’è scarsità di materie prime, magari col tempo.

Dice al telefono Lehdele, il sindacalista della UGGT (Unione generale tunisina del lavoro), che “quella della Sodrico è una scelta politica, altro che materie prime, non vogliono l’autogestione delle lavoratrici”.

Chebba ha ottantamila abitanti. E’ una città disseminata di laboratori e fabbriche tessili, un lavoro che viene svolto esclusivamente dalle donne. La Tunisia è il quinto fornitore di abbigliamento per l’Europa. Negli ultimi cinque anni è arrivata la crisi, 300 fabbriche hanno chiuso e si sono persi 4000 posti di lavoro.

“Dopo la rivoluzione del 2011 – dice Lehdele – molti imprenditori hanno lasciato la Tunisia, hanno detto che lo facevano per motivi di sicurezza. La verità è che le lavoratrici erano convinte che con la rivoluzione le cose sarebbero cambiate e chiedevano più soldi e più diritti. Le imprese hanno preferito il Marocco e la Turchia, dove lo sfruttamento è maggiore che da noi”.

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Dalel e le altre lotteranno con le unghie e con i denti, sono in fabbrica da quando erano bambine, Dalel aveva 13 anni. Le condizioni di lavoro alla Mamotex erano dure, c’erano prepotenza e soprusi. Si lavorava 10 ore al giorno per sette giorni, il salario era basso. Avevano una pausa di un’ora per mangiare, ma chi stava via per più di mezz’ora poi doveva lavorare mezz’ora in più. Il padrone le teneva chiuse a chiave nel reparto per dieci ore, tutto il tempo del turno di lavoro. Se una protestava, veniva punita, doveva stare in piedi contro la parete per ore. Il padrone diceva che erano incapaci, che non sapevano lavorare e tagliava il salario. “Ci umiliava, ci toglieva la dignità”. Dalel non l’ha mai denunciato, i primi a non capire sarebbero stati quelli della sua famiglia. Il padrone diceva che se l’avessero denunciato le avrebbe licenziate. “Si approfittava della nostra ignoranza, diceva che il sindacato ci avrebbe solo rubato i soldi”.

Nel 2013 le operaie della Mamotex decidono di rivolgersi al sindacato. Si prendono insulti da tutti, dai parenti, dagli amici, dalle operaie delle altre fabbriche. Loro resistono. Riescono ad ottenere turni di lavoro di otto ore al giorno e permessi per la maternità. Poi chiedono di aprire una trattativa sul salario. Il padrone rifiuta. Fanno sciopero, si riuniscono in assemblea. Alla fine vincono loro: qualche soldo in più e la garanzia dei contributi.

Oggi Dalel e le altre vogliono un lavoro, semplicemente un lavoro. Non possono neanche contare sui pochi soldi della sicurezza sociale perché quest’anno ne hanno diritto solo i lavoratori del turismo. Il governo ha deciso così dopo l’attentato dell’anno scorso a Sousse.

L’UGTT è convinta che lo Stato non sarà mai in grado di creare lavoro e che i privati stanno lì finché gli conviene, poi se ne vanno altrove, dove i salari sono più bassi e la possibilità di sfruttamento maggiore. Presto presenterà una legge sull’economia sociale e solidale, ispirata alle esperienze dell’America Latina. Sulla legge c’è scritto: “va promossa la possibilità di recuperare imprese attraverso cooperative di lavoratori che possano accedere al mercato e beneficiare degli incentivi fiscali”.

L’economia sociale e solidale non è nuova in Tunisia. E’ cresciuta negli anni 60, quando si formarono diverse cooperative in vari settori. La UGGT dice che l’esperienza è fallita “per colpa di Bourghiba”. Il governo decideva tutto, nominava i capi fabbrica, stabiliva in quale cooperativa dovevano andare… e lo sfruttamento era lo stesso di quello esistente nelle fabbriche private: durante l’orario di lavoro le operaie non potevano alzarsi, neanche se la schiena dopo ore doleva.

La legge per l’economia sociale e solidale della UGGT si basa su un progetto, cofinanziato dall’Unione Europea, che si limita per il momento a corsi di formazione. Dalel e le altre hanno chiesto di partecipare e sono state ammesse. Si discute di organizzazione di lavoro, di turni, di meccanismi di partecipazione democratica.

“Noi operaie una cosa l’abbiamo capita – dice Dalel – ed è che non abbiamo bisogno di un capo. Possiamo dirigere la fabbrica da sole e siamo in grado di farlo bene”. Poi, ridendo sommessamente: “Sai cosa ha scritto il poeta? Ha scritto che una donna tunisina non vale una donna, vale almeno una donna e mezza”.

 

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