DONNE E POLITICA. IERI OGGI E DOMANI

di Liliana Frascati, A.Do.C. – Assemblea delle Donne Comuniste

Il 3 ottobre 2020, a Milano, è stato tenuto un convegno sull’argomento “DONNE e POLITICA IERI OGGI e DOMANI: UNIAMOCI PER ESSERE LIBERE TUTTE”, organizzato dall’A.Do.C., assemblea delle donne comuniste, e curato dalla compagna Maria Carla Baroni, componente del Comitato Centrale del PCI.

Il convegno, che è durato tutto il giorno, è stato voluto per portare a conoscenza delle femministe di oggi tre grandi figure del passato, Rosa Luxemburg, Aleksandra Kollontay e Camilla Ravera, nonché per mettere in relazione reciproca donne che praticano le varie forme della politica, con
l’obiettivo di realizzare azioni comuni, mantenendo comunque la propria autonomia politica ed organizzativa.

L’introduzione, tenuta dalla compagna sopra richiamata, ha spaziato dall’antichità ad oggi per descrivere il cambiamento e l’evoluzione del ruolo pubblico delle donne; poi sono seguite fino al tardo pomeriggio le relazioni su donne comuniste e femministe, sul rapporto donne e contrattazione, sulle donne nelle varie forme della politica e, quindi, le conclusioni.

Come A.Do.C. si è valutato che un testo dedicato a tutto il convegno si sarebbe ridotto ad una mera elencazione di temi e, quindi, si è ritenuto opportuno dedicare un articolo per ogni momento dell’iniziativa, che verrà pubblicato nei successivi numeri della rivista. Il resoconto che segue, il primo, riguarda l’introduzione che spiega il tema di donne e politica, così come si è evoluto nel tempo.
In tema di politica, il termine “potere” è scivolato, dalla sua definizione originaria come capacità o possibilità di agire e produrre effetti, alle accezioni di influenza, autorità, imposizione, dominio, sopraffazione. Le modalità con cui sono state presentate, fino a tempi recenti, le donne nella storia, di una storia scritta solo da uomini, dice molto anche su come vengono percepite e considerate oggi le donne di potere, pur nelle mutate condizioni di accesso allo stesso.

Se infatti si pensa a donne, politica e potere nella storia, vengono in mente Cleopatra d’Egitto, Isabella di Castiglia, Elisabetta I d’ Inghilterra, Caterina II di Russia, Maria Teresa d’Austria e Vittoria d’Inghilterra. La stessa Cleopatra non fu la splendida creatura immortalata sullo schermo da Elisabeth Taylor, perché le monete coeve la ritraggono bruttina di viso, con naso e mento sporgenti. Ma seppe essere una donna libera e audace, intelligentissima e molto colta, che parlava nove lingue, promosse la cultura, innovò la politica monetaria e fiscale del suo paese, diede impulso all’economia, organizzò eserciti, sedò rivolte, condusse trattative politiche con rara abilità diplomatica, estendendo l’impero tolemaico su quasi tutta la sponda orientale del Mediterraneo e rendendolo snodo ineludibile tra Oriente e Occidente. Ma ancora prima di lei, regnarono in Egitto ben otto donne faraone e mogli di faraoni e reggenti; la più importante fu la grandissima Hatshepsut (sul trono dal 1498 al 1483 a. C.), nota quantomeno agli amanti dell’arte per la costruzione del suo magnifico tempio funerario di Deir el Bahri vicino a Tebe.

Si ricordano anche grandi regine che lottarono per liberare il loro paese da popoli invasori: l’egizia Lahhotep (1570 a. C.), vittoriosa contro gli ittiti, Boudicca o Baodicea di Britannia (33-60 d.C.) e Zenobia di Palmira (240- 275 d.C.), che, nonostante il loro coraggio e le loro capacità, dovettero alla fine soccombere alla potenza dell’impero romano. Tra le regine guerriere
occorre comprendere anche Kahina, figura fondamentale nella resistenza berbera durante la conquista Omayyade del Nord Africa (odierna Tunisia) nel VII secolo.
Le principali culture che sono alla base della civiltà occidentale, quella greca con Aristotele e quella cristiana con i Padri della Chiesa, hanno descritto le donne sprovviste di anima, di intelletto, di progettualità, di creatività, di capacità di governo e di grandi imprese; inoltre, deboli fisicamente, psichicamente e moralmente. Né furono da meno altre grandi culture come quella araba e quella cinese. Tale considerazione è ancora presente, in varie forme più o meno attenuate, nell’ormai avviato
secolo XXI.

Nella storia del nostro Paese ci furono donne di potere che governarono i loro territori in periodi particolarmente difficili e turbolenti: Galla Placidia (388-450 d.C.) imperatrice romana, e Teodolinda (570-627) regina dei Longobardi, figure forti e carismatiche; Adelaide contessa di Torino (1016-1091), per 30 anni figura fondamentale nel determinare il radicamento
territoriale e il destino storico della dinastia dei Savoia e protagonista, insieme alla cugina Matilde di Canossa (1046 -1115), dell’età in cui l’Europa cristiana fu divisa dalla lotta per le investiture, e coautrice, insieme a quest’ultima, del riavvicinamento tra l’imperatore Enrico IV e papa Gregorio VII; Eleonora d’Arborea (1347-1404), a capo di un esteso principato sardo, il cui merito principale fu di aver promulgato, con la “Carta de Logu “, in lingua volgare e quindi comprensibile a tutti/e, un testo di leggi che contemperavano gli interessi contrapposti degli agricoltori e dei pastori, riguardo all’uso del territorio e che dimostravano notevole modernità ed equità sociale nel disciplinare i rapporti interpersonali, soprattutto a tutela delle donne, anche in caso di stupro da lei considerato reato contro la persona e non contro la morale (per inciso, in Italia venne introdotta
solo nel 1996 la legge analoga sulla violenza sessuale; Caterina Sforza (1463-1509), che coraggiosamente contese anche in armi il suo piccolo Stato romagnolo a Cesare Borgia e ai suoi alleati francesi. In altri contesti, si ricorda Melisenda, regina di Gerusalemme (1105-1161), figura carismatica che governò per 20 anni la città conquistata dai Crociati.

Nei vari Paesi europei si segnalano le imperatrici della casa di Sassonia, le sovrane franco-occidentali, tra cui la grande Eleonora d’Aquitania, e le sovrane sveve. Secondo Cesarina Casanova, autrice di “Regine per caso. Donne al governo nell’età moderna” i casi di donne che esercitarono il potere in Europa, più o meno formalmente, hanno in comune il fatto di
essere stati resi possibili da situazioni di instabilità politica o per effetto dell’assenza o dell’interruzione del principio di continuità dinastica in linea maschile. Tra tali donne di potere, Margherita Beaufort, contessa di Richmond (1443-1509), riuscì a mettere fine alla guerra delle Due Rose in Inghilterra, grazie alla sua abilità di combattente prima e di negoziatrice
poi. Nell’impero degli zar, quattro donne furono zarine nel XVIII secolo, prima di Caterina II, e ressero l’impero con pugno di ferro, anche se gli uomini che le avevano fatte incoronare ritenevano che avrebbero potuto manovrarle come fantocci.

Da segnalare anche Margherita d’Angoulème regina di Navarra, sua figlia Giovanna d’Albret e Renata di Valois, divenuta duchessa d’Este le quali, nella Francia del XVI secolo, in cui predominava l’intolleranza religiosa, fecero politica ponendosi come ponte nei confronti della Riforma protestante e agendo per un rinnovamento che riportasse l’esperienza religiosa ai valori del cristianesimo originario.
Si ritiene che le donne di potere fin qui citate operarono come avrebbe operato un uomo nelle stesse situazioni; le uniche che portarono una differenza femminile furono le tre aristocratiche francesi, che propugnarono comprensione tra posizioni differenti e ricerca di valori condivisi, ed Eleonora d’Arborea, la giudicessa sarda che dovremmo essere orgogliose di considerare la prima Madre costituente della storia italiana, operante 600 anni prima delle 21 donne elette nel 1946 all’Assemblea Costituente.
Vi furono anche sultane mamelucche, mongole, nelle isole Maldive e dell’Indonesia, e regine arabe, yemenite ed egiziane.

Alcune avevano ricevuto il potere in eredità, altre avevano dovuto assassinare gli eredi per ottenerlo e lo avevano assunto esclusivamente in aderenza agli schemi dominanti, cioè maschili. Pur essendo state personalmente alla testa di battaglie, avendo inflitto disfatte e concluso armistizi, sono state completamente rimosse dal sentire comune e dalla cultura ufficiale, ancora più che in Occidente.
Negli oltre due millenni dell’Impero cinese, si ricordano tre imperatrici: Donna Lu, nata nel 220 a.C., ottima governante con il titolo di imperatrice madre, anche se spietata nel liberarsi dei vari pretendenti al trono e delle loro madri; Wu Tsertien (624 -705) che mutò il suo status prima da concubina imperiale a imperatrice consorte e poi a imperatrice regnante,
fondando una propria dinastia; Tsu Hsi (1835-1908), prima anch’ella concubina imperiale e poi imperatrice madre, che di fatto regnò ininterrottamente sulla Cina per ben 47 anni. In tempi più recenti, Song Qinling (1893- 1981), fu moglie di Sun Yat-sen, artefice della rivoluzione del 1911 e del passaggio dall’Impero alla Repubblica di Cina. Dopo la costituzione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, Song Qinling ricoprì diversi incarichi di primo piano, tra cui quello di presidente (dal 1968 al 1972) della Repubblica Popolare Cinese guidata da Mao Zedong ed è tuttora ricordata come “madre della Patria”.
Rimanendo in Asia, Hazrat Mahal, begum dell’Awadh, piccolo Stato indipendente nel nord dell’India, nel 1857 si batté eroicamente, sostenuta dall’intera popolazione, contro l’imperialismo britannico per mantenere la libertà del suo popolo.

Passando nelle Americhe, Micaela Bastidas Puyucahua (1744-1781), moglie dell’imperatore Inca Tupac Amaru II, ministra, fu precursora dell’indipendenza del Perù e simbolo della lotta contro la dominazione spagnola, infine trucidata dagli oppressori e tuttora venerata nel suo Paese.
A grandi linee, si è configurato, qua e là nel tempo e nello spazio, il rapporto fra donne e potere politico. Invece, il potere religioso, che è stato sempre anche potere politico, escluse le donne nelle tre religioni monoteistiche: Ebraismo, Cristianesimo ed Islamismo. Diversamente, nelle antiche culture egizia, greca e romana, le donne avevano accesso al sacro, alle sue cariche e alle sue funzioni. La prima, che contestò questa esclusione rispetto al Cristianesimo, fu Marie de Gournay, nel suo trattato “Uguaglianza degli uomini e delle donne” del 1622.
Nella Chiesa Valdese, nella Chiesa Anglicana e nella Chiesa Luterana le donne hanno ottenuto di essere pastore e vescove e affermano che Dio è anche Madre e non solo Padre. Teologhe musulmane hanno reinterpretato il Corano e alcune donne, negli Stati Uniti, nel Nord Europa e a Berlino, hanno conquistato il fatto di essere imam e di essere loro a condurre la preghiera del venerdì, simbolo di autorevolezza e di potere. Qualche anno fa le “Donne del Muro” di Gerusalemme hanno conquistato il diritto di pregare con le stesse ritualità riservate per tradizione agli uomini, tra cui la
preghiera proprio davanti al Muro del Pianto. In U.S.A e in Francia operano alcune rabbine. Il Vaticano, invece, resiste nella sua chiusura antistorica, avendo aperto solo al diaconato femminile, primo grado dell’ordine sacro, che consente di amministrare battesimo e matrimonio, condurre funerali e predicare.
Le donne cattoliche, però, hanno svolto spesso funzioni critiche e propositive, mettendo in discussione immagini consolidate e ruoli stereotipati. Nel maggio scorso Anne Soupa, teologa e biblista francese, si è candidata al ruolo di arcivescova di Lione, per rivendicare una partecipazione reale alle scelte concernenti la vita della Chiesa.
Venendo al Novecento, i cambiamenti dello scenario mondiale accelerarono anche la storia del genere femminile. Nel 1912 la Cina diventò una repubblica e a metà del secolo iniziò l’esperienza della Repubblica Popolare Cinese. Con la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 cadde l’impero zarista e iniziò l’esperienza dell’U.R.S.S. Con la prima guerra mondiale finirono anche gli
imperi austroungarico ed ottomano. In Europa, nel Nord Africa e in Medio Oriente si consolidarono gli Stati nazione. Nel 1948 venne costituito lo Stato di Israele, mentre la potestà statuale venne negata alla Palestina, nonostante il pronunciamento dell’O.N.U. Fra il 1940 ed il 1960 ottennero l’indipendenza e la sovranità politica dagli imperialismi europei numerosi Paesi asiatici e africani.

A seguito della Conferenza di Bandung del 1955, nacque nel 1961 il Movimento dei Paesi non allineati. Nel 1959 trionfò la rivoluzione a Cuba e, a metà degli anni ’70, fu conquistata la riunificazione dei due Vietnam in un unico Stato socialista, provocando uno smacco planetario all’imperialismo degli U.S.A. Sul finire del secolo terminò l’esperienza dell’U.R.S.S. lasciando senza sponda e alla mercé del capitalismo i movimenti operai e sindacali del mondo. Con il XXI secolo (nel 2006) vengono per così dire alla luce i B.R.I.C.S. (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e la Cina si avvia a
diventare la prima potenza mondiale, nell’ambito di una transizione di sistema. Nel settembre 1995 si era tenuta nei pressi di Pechino la Conferenza Mondiale delle Donne, che ebbe come segretaria generale Gertrude Mongella, tanzaniana, figlia di un contadino/pescatore, e che sancì essere diritti umani anche i diritti delle donne.
A parte le regine rimaste, con un ruolo ormai solo formale, dall’inizio del Novecento le donne partecipano al potere con incarichi istituzionali. Si parte da Aleksandra Kollontaj, nel 1917 la prima donna nel mondo che ebbe l’incarico di ministra nel primo governo Lenin. Seppe ricoprire più ruoli, rivoluzionaria, analizzatrice del rapporto donna/comunismo, autrice di leggi per l’emancipazione femminile e per una nuova morale sessuale, saggista, ambasciatrice.
Negli Stati Uniti d’America Fannie Coralie Perkins fu nominata ministra per la prima volta nel 1936, da parte di Franklin Delano Roosevelt, mentre per avere una donna premier bisognò aspettare gli anni ’50, con Suhbaataryn Yanjmaa in Mongolia. In Italia la prima fu Gisella Floreanini, ministra nell’autunno 1944, nella splendida e purtroppo brevissima esperienza della Repubblica partigiana dell’Ossola, quando ancora le italiane non avevano il diritto di voto. La prima nella Repubblica italiana fu Tina Anselmi, ministra dal 1976 al 1979.

Prima di poter ricoprire ruoli istituzionali, le donne dovettero conquistare il diritto di voto. Una prima richiesta formale per il riconoscimento dei diritti delle donne fu presentata nel 1789 all’inizio della Rivoluzione francese, nei “Quaderni delle lagnanze” a cui contribuirono anche alcune donne. La famosissima “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, vanto
della Rivoluzione, riguardava solo il genere maschile e nel 1791 Olympe de Gouges scrisse la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” e venne, però, decapitata. Il movimento suffragista, come movimento per chiedere il suffragio femminile alle elezioni nazionali, vide la luce in Gran Bretagna nel 1869 e ottenne il suo scopo solo nel 1928. Rivendicazioni
analoghe sorsero in vari altri Paesi e via via il diritto fu riconosciuto: in Francia e in Italia solamente nel 1945 e in Svizzera addirittura nel 1971. Il primo Paese che concesse il voto alle donne fu la Nuova Zelanda nel 1893, a seguito delle lotte innescate da Kate Sheppard, una scozzese immigrata da giovane.

In Italia, al diritto di voto alle donne non fece seguito la parità con gli uomini nella rappresentanza istituzionale; ancora oggi la percentuale di donne elette nelle istituzioni nazionali e locali è relativamente bassa, anche se con una tendenza alla crescita, per esempio le parlamentari sono il 35% del totale contro oltre il 50% del Rwanda e di Cuba; le importantissime leggi che favoriscono la presenza femminile nelle istituzioni elettive ( ad es. quella sulla doppia preferenza di genere, la legge 215 del 2012) sono recenti e ancora poco note; pare che l’astensionismo sia maggiore tra le donne che
tra gli uomini; vi sono ancora indifferenza e diffidenza nel votare le donne, sicuramente tra gli uomini, ma anche tra le stesse donne: se queste, essendo oltre il 50% della popolazione e del corpo elettorale, votassero tutte al femminile, porterebbero la rappresentanza di genere ad ottimi livelli. Ma un elemento appare preoccupante e cioè il fatto che molte appartenenti al
movimento delle donne considerino la partecipazione al voto come compromissione, nei confronti di un sistema patriarcale da abbattere, e tendono a prendere le distanze dalle donne con incarichi istituzionali e di partito, accusandole di tenere comportamenti maschili. Se questo è vero, in gran parte è dovuto al fatto che le donne nelle istituzioni non sono molto e
vengono trascurate o addirittura ignorate dal movimento, senza concordarsi e sostenersi reciprocamente, con iniziative, obiettivi e piattaforme. Le fondamentali leggi che hanno liberato il genere femminile del Paese dall’oscurantismo più becero (tutela delle lavoratrici madri, legge 1204/1971, riforma del diritto di famiglia, legge 151/1975, consultori pubblici, legge 405/1975, interruzione volontaria di gravidanza, legge 194/1978, furono sì ottenute dalle donne nelle vie e nelle piazze, con il
sostegno, però, delle parlamentari del P.C.I. e di altri partiti.

Il Novecento è stato caratterizzato da varie forme di protagonismo femminile: cape di Stato e di governo (79 dagli anni ’50 in poi); ministre innovatrici; in U.S.A tre Segretarie di Stato; grandi pensatrici politiche di vari orientamenti; i movimenti suffragisti prima e quelli femministi poi; le donne contro le guerre e contro le dittature, le Madri di Plaza de Mayo a Buenos Aires e le Donne in Nero in vari Paesi; le attiviste dei popoli indigeni del Centro e Sud America, come l’honduregna Berta Caceres, dell’Africa e dell’ Asia, la signora di Narmada in India, Medha Paktar, contro lo sfruttamento delle risorse naturali da parte delle multinazionali imperialiste; le varie donne che, in varia forma, scienziate, saggiste, giornaliste, attiviste, ministre, cape di istituzioni, combatterono per l’ambiente e per la salute.
Essendo oggi fondamentale il rapporto fra politica ed ambiente, si richiamano le seguenti figure: Ellen Swallow-Richards, chimica statunitense, la prima donna che ottenne una laurea al Massachussetts Institute of Tecnology di Boston nel 1873, considerata fondatrice dell’ecologia e dell’ingegneria ambientale, in quanto per prima compì
un lavoro d’indagine sulle risorse idriche del suo Stato, produsse le prime tabelle di purezza dell’acqua e stabilì i primi standard di qualità delle acque; Rachel Carson, biologa statunitense che nel 1962 pubblicò “Primavera silenziosa”, un corposo saggio che per la prima volta si occupava degli effetti letali per gli esseri viventi dell’uso in agricoltura degli insetticidi chimici e delle altre sostanze inquinanti e cancerogene, contribuendo alla messa al bando del DDT; Carolyn Merchant, docente di storia, filosofia ed etica dell’ambiente all’Università di California a Berkeley, con il suo “La morte della natura.

Donne, ecologia e rivoluzione scientifica” del 1980, contestò la visione meccanicistica e deterministica della natura frutto del pensiero di Galilei, Newton e Cartesio, funzionale all’allora capitalismo nascente ed in seguito ripercorse criticamente la storia del pensiero scientifico, contestando l’ideologia dell’oggettività, mettendo in luce importanti figure femminili cancellate dalla storia ufficiale e proponendo i valori necessari a ribaltare i concetti di dominio e di sfruttamento per riattivare un rapporto organico e collaborativo con la natura, di cui gli esseri umani fanno parte; Gro Harlem Brundtland, la prima ministra norvegese, presiedette e condusse in porto la Commissione mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, la quale redasse il
rapporto “Il futuro di noi tutti”, presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1987, rapporto assai ben documentato su tutte le minacce che incombevano e, ancora di più, incombono oggi sulla sopravvivenza del genere umano e dell’ambiente adatto alla vita, con le opportune raccomandazioni per affrontarle; Laura Conti, medica, scienziata, scrittrice,
comunista, analizzando la fuoriuscita della diossina dall’Icmesa di Seveso nel 1976, fondò l’ambientalismo scientifico in Italia e nel 1980 fondò la Lega per l’Ambiente, l’attuale Legambiente; Wangari Maathai, keniana, biologa, attivissima alla Conferenza di Rio de Janeiro su Ambiente e sviluppo del 1972, per molti anni vice ministra dell’Ambiente e fondatrice del
Green Belt Movement, che dal 1977 in poi ha piantato 45 milioni di alberi nel suo Paese, nel 2004 ricevette il Premio Nobel per la Pace, con la considerazione che il ripristino e la cura dell’ambiente possono garantire a tutte le popolazioni del mondo una vita dignitosa e, quindi, la pace; Vandana Shiva, fisica quantistica ed economista, teorica dell’ecologia sociale, dirige il Centro per la Scienza, Tecnologia e Politica delle risorse naturali di Dehra Dun in India; Greta Thumberg, geniale e giovanissima donna, ha avviato, grazie alla sua forza ed intraprendenza, il movimento Friday’S For Future, partecipato dai giovanissimi e dalle giovanissime di tutto il mondo.

Ricordiamo diverse donne che hanno avuto incarichi istituzionali e che sono state protagoniste della politica del proprio paese ed anche della politica mondiale, indipendentemente dal loro orientamento partitico. In Europa Margaret Thatcher, Martine Aubry, la ministra francese della settimana lavorativa di 35 ore (proposta, per inciso, anche dai comunisti in Italia oltre 20 anni fa e mai più ripresa da altre forze politiche e nemmeno dai sindacati), Gro Harlem Brundtland e Angela Merkel; Golda Meir in Israele; Benazir Bhutto, Indira Gandhi, Sirimavo Bandaranaike, Cory Aquino e Aung San Suu Kyi in Asia; Wangari Maathai ed Ellen Johnson Sirleaf in Africa; Evita Peron, Violeta Chamorro, Michelle Bachelet, Dilma Rousseff e Cristina Fernandez de Kirchner in America centrale e meridionale. In particolare Benazir Bhutto in Pakistan e Indira Gandhi
in India, entrambe grandi statiste, entrambe figlie di uomini di potere, fatto che le aiutò ad accedere ai vertici dello stato indiano, furono assassinate entrambe da integralisti religiosi, forse non a caso.

Riguardo al tema del rapporto attuale fra donne e potere politico, Ritanna Armeni ha scritto il libro “Prime donne” in cui analizza, fra l’altro, le figure e le campagne elettorali di Ségolène Royal in Francia e di Hillary Clinton in U.S.A. e mette in luce tutte le possibili articolazioni di tale rapporto ai massimi livelli. Armeni analizza anche tutti gli ostacoli posti dal genere
maschile alla scalata delle donne al potere statale supremo ed è condivisibile la sua spiegazione di tale comportamento maschile: se un tempo la ragione di tanta misoginia era un senso di superiorità maschile con punte di disprezzo, ora che le donne capaci e determinate sono più numerose e si presentano con modalità nuove, alcune anche aspirando a capeggiare repubbliche presidenziali, si è insinuata la paura che lo Stato maschio, lo Stato potenza, lo Stato conquistatore, cada in mani,
menti e cuori femminili.

Attualmente nel mondo vi sono 21 Stati, sui 195 membri dell’ O.N..U., con cape di Stato o di governo, tra cui Germania, Finlandia, Grecia, Islanda, Slovacchia, Croazia, Etiopia, Namibia, Bangladesh, Taiwan e Nuova Zelanda, e numerose sindache di grandi città in più continenti. Soprattutto in Europa ci sono non poche donne a capo di partiti e di istituzioni bancarie. Questo, di per sé, può anche non avere effetti per il processo di liberazione femminile, ma può aiutare nel tempo a far superare i luoghi comuni, ancora diffusi nel nostro Paese, sull’incapacità delle donne ad assumere ruoli rilevanti. Dal 16 giugno 2019 una donna, Ursula van der Leyen, medica e politica tedesca, guida la Commissione Europea, in qualità di
presidente, ed ha promosso un programma di nuova frontiera verde, per quanto limitata.
Nel Novecento italiano vi furono grandi figure tra le 21 Madri costituenti, soprattutto Teresa Noce e Lina Merlin; Tina Anselmi fu un’ottima ministra, tre donne furono presidenti della Camera dei Deputati, una attualmente del senato. Varie parlamentari ottennero negli anni ‘70 leggi fondamentali, in primo luogo per le donne e per la democratizzazione, la laicizzazione e la modernizzazione dell’intero Paese. Nel 2003 parlamentari di vario orientamento ottennero un’aggiunta al primo comma dell’art. 51 della Costituzione, secondo cui la Repubblica non si deve limitare a sancire formalmente l’uguaglianza tra donne e uomini nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, ma deve promuovere con appositi
provvedimenti le pari opportunità nei confronti di tale accesso. Pochissime, invece, furono a capo di partiti politici: Camilla Ravera per il Partito Comunista d’Italia durante gli anni della clandestinità, la prima poi ad essere nominata senatrice a vita, ed in tempi recenti Grazia Francescato per i Verdi, Adelaide Aglietta, Rita Bernardini ed Emma Bonino per il Partito Radicale.

Un’altra politica che merita di essere segnalata è Livia Turco che, allora comunista, nel 1986 scrisse e promosse insieme ad altre “la Carta itinerante delle donne comuniste”, poi approvata dalla direzione del PCI. “Proponiamo di costruire, scrissero le donne della “Carta”, nella società e nelle istituzioni della politica una “forza” delle donne che non può che derivare dalle
donne stesse, attraverso una strategia di relazioni e di comunicazione tra noi”.
Su questa fondamentale esperienza hanno scritto, rispettivamente nel marzo e nel settembre 2017, Letizia Paolozzi e Alberto Leiss in “C’era una volta la Carta delle donne. Il Pci, il femminismo e la crisi della politica” e Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli in “Al lavoro e alla lotta. Le parole del PCI”.
Per fermare lo sfascio del nostro Paese, la crisi della sinistra e la sua scarsissima rilevanza, si può e si deve costruire una forza delle donne nelle istituzioni della politica e nella società, obiettivo ancora più necessario di fronte alle peggiorate condizioni del Paese, a seguito della pandemia da Covid 19, che ha messo ancor più in evidenza i guasti prodotti da una
gestione capitalistica della cosa pubblica, soprattutto riguardo all’ambiente, alla sanità e alla scuola.

Tale fronte potrebbe essere costruito tra le donne dei partiti che condividono una prospettiva anticapitalista e le donne dei sindacati, della Cgil e dei sindacati di base; in primo luogo i sindacati, anche se non perseguono l’obiettivo di mutare i rapporti di produzione capitalistici, si pongono comunque come soggetti di trasformazione sociale e sono soggetti politici, di fatto anticapitalistici. Nella CGIL le sindacaliste sono, da anni, quasi la metà dei componenti gli organismi dirigenti a ogni livello, anche se non sempre i ruoli sono equamente distribuiti; le sindacaliste hanno quindi un ruolo politico e una responsabilità che devono diventare realmente determinanti nelle scelte rivendicative.
Le dirigenti della CGIL a tutti i livelli dovrebbero ottenere, come priorità assoluta dell’intera organizzazione e della contrattazione nazionale e decentrata, il deciso miglioramento della condizione delle donne e la sparizione delle disuguaglianze di genere, nel lavoro e nella vita: per l’importanza del lavoro retribuito e garantito, per le specificità che la
differenza del corpo femminile comporta rispetto a quello maschile, anche per quanto riguarda i fattori di rischio nei luoghi di lavoro, per il superamento delle specifiche oppressioni e discriminazioni che le lavoratrici a tutti i livelli subiscono in quanto donne, per l’abbattimento dei ruoli sociali codificati.
La contraddizione di genere infatti non annulla la contraddizione di classe e non si contrappone ad essa, in quanto si intrecciano e si cumulano: le donne lavoratrici subiscono sia la dominazione di classe, sia l’oppressione di genere.

Nella carrellata storica si possono ricordare almeno tre grandi sindacaliste: Carlotta Orientale (1893-1980), militante dell’Unione Sindacale Italiana, alla guida di lotte operaie e poi, durante la prima guerra mondiale, segretaria della Camera del Lavoro di Terni; Argentina Altobelli (1866-1942), nel 1906 contribuì alla nascita della Federazione nazionale Cgil dei lavoratori della terra, ne fu segretaria dalla fondazione allo scioglimento, ad opera del fascismo, e fu artefice dell’abolizione del lavoro a cottimo e della giornata di otto ore; Teresa Noce (1900-1980), multiforme combattente dalla lunga storia (guerra civile spagnola, Resistenza italiana, mensile “Noi Donne” e Pci) e segretaria generale del sindacato Cgil dei tessili dal 1947 al 1956.
A parte le donne di potere nelle vicende storiche, le donne ebbero un ruolo importante nelle società egualitarie della preistoria, così pare all’esame dei reperti archeologici: le più giovani, prima della maternità, erano cacciatrici; nella preistoria “inventarono” l’agricoltura e, nel corso della storia, lavorarono sempre nei campi, nelle botteghe artigiane, nei conventi e nelle
case, non retribuite, il che ne ha sancito l’irrilevanza sociale e politica. Le donne sono state protagoniste nei momenti cruciali della storia, come ad esempio le popolane di Parigi alla presa della Bastiglia nel 1789, le comunarde nella Comune di Parigi del 1871 e le operaie tessili di Pietrogrado all’inizio della Rivoluzione d’Ottobre nel 1917.

Durante la seconda guerra mondiale parteciparono alla Resistenza contro il nazifascismo in vari Paesi europei, con un fondamentale ruolo di supporto
che solo recentemente è stato messo in luce, ed anche in armi; in alcuni casi furono pure efficacissime combattenti, come nel 1941 le giovani aviatrici sovietiche nella regione di Stalingrado, le “streghe della notte”, terrore degli occupanti nazisti.
Queste ragazze combatterono sì contro gli invasori, ma avevano vinto anche la diffidenza ed i pregiudizi dei maschi, che le ritenevano incapaci di combattere. In questi ultimi tempi sono da ammirare anche le combattenti curde contro l’ISIS.
Si è detto che le donne “inventarono” l’agricoltura: nelle collettività preistoriche, matriarcali ed egualitarie, in cui veniva adorata la Grande Dea Madre, dopo aver messo al mondo i figli, le donne dovevano rinunciare alla caccia per dedicarsi alle attività di cura; imparando a conoscere la vegetazione spontanea, provando ad usarla ed a riprodurla, hanno dato vita all’agricoltura, la quale ha progressivamente consentito di passare da società tendenzialmente nomadi a società stanziali e nutrite con continuità. Ma il progresso portato dall’avvento dell’agricoltura ha consentito pure la formazione di surplus alimentari e di persone che potevano dedicarsi ad altro rispetto al lavoro manuale della terra, persone che si sono appropriate di questo surplus, costituendo gruppi dominanti e via via classi sociali differenziate. Così ci fu l’avvento del patriarcato e del dominio maschile sul mondo. Tuttora, però, la maggior parte delle persone che nel mondo coltivano la terra sono donne che, si può dire, nutrono il pianeta.
Fondamentali furono le storiche lotte di varie categorie di lavoratrici, a partire da poco dopo la Liberazione: le tabacchine al sud, le operaie tessili nelle fabbriche del nord, le mondine della pianura padana, le mezzadre, le braccianti e le casalinghe del sud che occuparono le terre incolte per ottenere la riforma agraria, infine le impiegate statali. A significare che
ogni donna ha fatto un po’ di storia e di politica, giorno per giorno. A Cavriglia, paese della Valdarno di minatori e contadini socialisti e comunisti, il 1° marzo 1950, i minatori occuparono una miniera di lignite per evitare chiusura e licenziamenti; durante l’occupazione, durata 100 giorni, le donne del paese misero in funzione 3 mense, allestirono una scuola per i figli con la collaborazione di alcuni maestri e girarono per tutta la Toscana, esponendo le ragioni della lotta e raccogliendo indispensabili aiuti in denaro e in generi alimentari.
Per una storia delle donne che non furono né aristocratiche, né borghesi, né cittadine, né intellettuali, cioè la maggioranza delle donne, dei loro ruoli, del loro impegno e delle loro lotte nel tempo, dalla preistoria in poi, occorre fare riferimento all’antropologia che narra la storia sociale delle donne, il mondo quotidiano delle solidarietà femminili per poter sopravvivere,
tramandare miti e tradizioni, mestieri e segreti della natura nonché gestire le nascite e le morti.

E poi in tempi più recenti, le donne che fecero politica con il loro pensiero e con i loro libri: a cavallo tra Ottocento e Novecento le pensatrici particolarmente vicine a noi del PCI, come Clara Zetkin (1857-1933) e Rosa Luxemburg (1871-1919). Inoltre, le socialiste Flora Tristan (1803-1844), Anna Kuliscioff (1855-1925) e Angelica Balabanoff( 1877-1965) nonché tante altre di vario orientamento: Hannah Arendt (1906-1975), Simone de Beauvoir (1908-1986), Simone Weil (1909-1943), Rossana Rossanda (1924-2020), Agnes Heller (1929-2019), Luce Irigaray (1930), Angela Davies (1944). Ed ancora le economiste, in quanto l’economia, etimologicamente “regola della casa”, e soprattutto il come si reperiscono e si allocano le risorse pubbliche, è di per se stessa politica: la Premio Nobel 2009 Elinor Ostrom, esperta di gestione dei beni collettivi e delle forme di autogoverno delle risorse da parte delle collettività locali, e la Premio Nobel 2019 Ester Duflo, per gli studi e le sperimentazioni volte a contrastare la povertà nei Paesi in via di sviluppo, a partire dal come garantire a tutte e a tutti l’accesso all’istruzione. E qui si nota la differenza di queste donne economiste rispetto ai loro colleghi uomini.

Tra le pensatrici politiche si annoverano altre donne di vario orientamento: Alessandra Bocchetti, Giulia Bongiorno, Francesca Comencini, Marilisa D’Amico, Michela Marzano, Lea Melandri, Luisa Muraro, Lidia Ravera, che nel 2014 pubblicarono “In contropiede. Le donne rileggono la Costituzione”. La Carta fondamentale è e rimane complessivamente avanzatissima, anche per merito di alcune delle Madri costituenti, ma per quanto riguarda la condizione femminile risente dei tempi in cui fu elaborata e in sostanza presenta le donne come soggetto debole da tutelare, rispecchiando una visione maschile del mondo, e contiene un falso antropologico e storico nell’art. 29, secondo cui la famiglia sarebbe una “società naturale fondata sul matrimonio”. Tra le pensatrici politiche si trovano Giordana Masotto, femminista della Libreria delle Donne di Milano, Luisa Pogliana, saggista esperta di management femminile e Michela Spera, della segreteria nazionale della Fiom, che hanno iniziato a lavorare sul ripensamento della contrattazione sindacale tenendo conto della differenza di genere.

Ma le forme della politica al femminile non si fermano qui. Da qualche decennio a questa parte si sono affacciati alla scena storica nuovi soggetti, a opera di persone che rifiutano il modello della rappresentanza e la gerarchia degli organismi dirigenti basate sulla selezione e rifiutano anche le mediazioni necessarie a far coesistere nel tempo posizioni divergenti; tali
persone rivendicano il fare politica in prima persona e l’assumere direttamente proposta e responsabilità. Tali soggetti sono i movimenti e i forum ambientalisti internazionali e nazionali nonché i comitati di cittadini e cittadine a livello locale, che generalmente nascono su obiettivi e lotte specifiche, anche se spesso non manca un inquadramento di tali lotte in visioni politiche complessive. I comitati si aggregano talora in reti territorialmente più ampie. E’ evidente, per il loro concreto funzionamento, che in tali soggetti si formano i e le leader naturali, conquistando autorevolezza sul campo, ma non passano attraverso forme elettive e senza bisogno di attivare i tradizionali meccanismi di potere. I punti di forza di movimenti e comitati stanno nella competenza e nell’entusiasmo con cui operano; la debolezza sta nel loro andamento carsico, nella durata spesso limitata nel tempo, nella dispersione di forze che si determina quando cessano di agire, anche se spesso alcuni/e dei loro componenti danno vita o contribuiscono in seguito ad altri comitati di lotta.

In Italia sono stati e sono tuttora attivissimi ovunque comitati contro le cosiddette “grandi opere” distruttive del territorio e delle risorse pubbliche (Tav in Val di Susa, autostrade un po’ dappertutto, Tap nel Salento, trivelle in mare e in terra, ponte sullo Stretto di Messina, e, ultima novità, il tunnel sotto lo stesso ecc.), contro le diffusissime fabbriche della morte, come
l’Ilva di Taranto, la Caffaro di Brescia e nel Vicentino la Mitemi con l’inquinamento delle acque da Pfas, composti perfluoroalchilici, contro opere militari (ancora a Vicenza il Comitato No Dal Molin, il No Muos in Sicilia e contro la produzione di armi in Sardegna), contro la speculazione immobiliare e contro gli sfratti, contro la vendita e la svendita di aree pubbliche (come ad es. gli ex scali ferroviari a Milano), contro ogni possibile forma di snaturamento di un contesto urbano (a Venezia il Comitato contro le grandi navi), per la tutela di grandi parchi e di verde urbano e di edifici storico/artistici pubblici, per la riqualificazione delle periferie e per una più consistente edilizia popolare, per la gestione pubblica del servizio idrico integrato.

In tali soggetti, le donne sono numerosissime, spesso la maggioranza, così come talora sono promossi da donne (ad es. quello vicentino contro la Mitemi), proprio perché le modalità di formazione degli obiettivi collegati alla tutela del territorio, della città, dell’ambiente, del clima e soprattutto della salute, considerati come beni comuni, e le modalità di funzionamento
sono più consone al sentire e all’operare delle donne.
Vi sono state docenti di pianificazione territoriale, come ad es. Silvia Macchi all’Università La Sapienza di Roma, che insegnarono non la mera “manutenzione” del territorio, ma la sua “cura” Vi sono state e vi sono tuttora in parecchie città d’Italia associazioni e gruppi di donne che lavorano per la città femmina, femminista, transfemminista e per la città della cura.
Le donne vogliono una città a misura di donne, bambini/e e vecchi/e, quindi di tutti, di ogni condizione socioeconomica, etnia e cultura; una città accogliente, sana e bella in ogni sua parte, il cui governo sia partecipato, una città che si prenda cura dei e delle abitanti e in cui gli e le abitanti si prendano cura della città. Il gruppo di lavoro “Donne ambiente città” della
Marcia Mondiale delle Donne con coordinamento italiano, distribuì in 4 lingue, al Forum sociale europeo tenutosi nel 2003 a Parigi, un documento dal titolo “Prendiamoci cura del mondo: dalla casa alla città al pianeta”.
Le più recenti forme della politica come movimenti, forum e comitati hanno un grande ruolo; per quanto “sbiaditi”, ne conservano uno molto importante anche i partiti politici, riconosciuti come determinanti dall’art. 49 della Costituzione. I partiti, in genere, hanno una struttura organizzativa che ne facilita il radicamento territoriale e la durata nel tempo e possono offrire punti di riferimento territoriali alle varie forme di lotte sociali; purtroppo, vivono una evidente crisi, di rappresentanza e di consistenza, pure a sinistra, anzi forse di più. I comitati di base, da parte loro, si scontrano con istituzioni che stanno dalla parte dei grandi potentati economico/finanziari/militari, sempre più spesso operativi in ambito sovranazionale. Che senso hanno allora, in tale disastrosa situazione, la frequente reciproca indifferenza o la reciproca diffidenza tra partiti di sinistra e anche anticapitalisti e comitati di base? Dall’altra parte, i movimenti ambientalisti, composti soprattutto da giovani, vedono i
partiti come soggetti da cui stare lontani, i partiti in quanto tali, anche indipendentemente dai loro obiettivi e dalle loro proposte. Sembrano rifiutare la gerarchia e la rappresentanza tipiche delle tradizionali forme politiche ed esprimere, parallelamente, un bisogno di purezza, identità, omogeneità e coesione interna, fattori che danno sicurezza.

Ma forse essi sopravvalutano la loro forza innovativa che non tiene conto del reale enorme squilibrio esistente nei rapporti di forza tra i soggetti in campo, i movimenti da una parte ed i potentati economico/finanziari/militari dall’altra, i soggetti più o meno coscientemente anticapitalisti da una parte e la piovra del capitalismo dall’altra.
Perché non è possibile ragionare in termini di alleanza, di azione comune, di collaborazione, di continuità nel tempo oltre obiettivi a breve scadenza, facendo in modo che ogni forma della politica mantenga la propria autonomia e le proprie caratteristiche?
Le donne, proprio loro, potrebbero e dovrebbero innescare questo processo di avvicinamento e di unità d’azione, in quanto il capitalismo è un sistema di dominio maschile, pensato e attuato da menti, corpi e ormoni maschili. In prima linea contro il capitalismo, conseguentemente, non possono che esserci le donne.

Nell’ambito dell’associazionismo femminile, in particolare, si cita l’Unione Femminile Nazionale, nata a Milano nel 1899 per l’elevazione e istruzione della donna e per la difesa dell’infanzia e della maternità, e l’Unione Donne Italiane, costituita di fatto nel 1944 a Napoli e poi ufficialmente nel 1945 dalle donne comuniste e socialiste; divenuta in seguito, nel 2004, Unione
Donne in Italia per comprendere anche le immigrate, le nuove italiane. L’UDI ha al suo attivo soprattutto la fondamentale proposta di legge di iniziativa popolare del 2006, sulla rappresentanza paritaria nelle sedi decisionali “50 e 50 ovunque si decide”, arrivata in Parlamento e lì lasciata morire, e la piattaforma “Per una contrattazione di genere”, del 2017 che si può sintetizzare nella seguente frase del relativo documento “Vogliamo aprire una contrattazione di genere perché tutte le decisioni politiche riguardano la nostra vita: le donne non sono il problema, ma parte fondamentale della soluzione”.
Ci sono poi le associazioni internazionali, come ad es. la Federazione Democratica Internazionale delle Donne e l’Associazione Donne della Regione Mediterranea – A.W.M.R. di cui fa parte e scrive Ada Donno. E poi c’è il grande movimento delle donne, internazionale e nazionale, che dal 2000 a oggi ha assunto via via in Italia le forme del Coordinamento italiano della” Marcia mondiale delle Donne”, di “Usciamo dal silenzio”, di “Se Non Ora Quando” e, da quattro anni a questa parte, di “Non Una Di Meno”; movimento nato in Argentina e ormai divenuto quasi planetario, insieme
femminista e anticapitalista, composto da donne di ogni età; tale movimento lotta contro la violenza sulle donne, violenza esercitata non solo dai compagni ed ex compagni di vita, ma dall’intero sistema, che è insieme capitalista e patriarcale.

Quel fondamentale movimento di pensiero e di azione che chiamiamo femminismo, con le sue varie ondate e le sue varie articolazioni di pensiero e territoriali, costituisce sempre una rivoluzione culturale e politica di portata immensa, perché riguarda oltre la metà del genere umano e perché prefigura un cambio di civiltà: si proponeva infatti fin dall’inizio di mettere in discussione i ruoli sociali codificati per millenni, i rapporti di potere uomo-donna, la subalternità del genere femminile e l’oppressione esercitata dal genere maschile su quello femminile in ogni ambito e in ogni tipo di società governata dagli uomini, sia essa capitalista, socialista o di transizione; in sintesi ha messo in luce la parzialità del maschile come valore, in contrapposizione a una sua presunta universalità, e si propone di sovvertire un ordine dato per millenni come “naturale” e la liberazione delle donne mediante il superamento del patriarcato, antico di vari millenni; il patriarcato è ben più antico del capitalismo, ma è stato da questo assunto in quanto funzionale a mantenere divisioni nel corpo sociale, come sono le divisioni di genere, anche all’interno delle stesse classi lavoratrici.
Secondo Lea Melandri, se a Marx va il merito di aver portato allo scoperto il rimosso economico, il profitto, e a Freud il rimosso della famiglia borghese, la sessualità, al femminismo va riconosciuto di aver scoperto la politicità della vita personale, diversamente da prima, la politicità del corpo e l’interezza dell’essere umano, fatto di mente e corpo, pensiero, ragione e sentimenti, coscienza e inconscio.

Oltre a ciò, l’ecofemminismo ha portato alla ribalta l’intreccio tra tutti i rapporti di dominio, di genere, di razza, di classe, di specie, e la connessione tra tutte le forme di vita, aprendo la strada alla necessità di lotte comuni che collochino in uno stesso orizzonte la tutela della natura, la liberazione delle donne e di tutti gli esseri viventi che la cultura occidentale, capitalistica e patriarcale, ha considerato come inferiori e oggetto di possesso e di sfruttamento.
Purtroppo, gli stessi atteggiamenti e comportamenti di indifferenza, quando non di diffidenza e di ostilità, già descritti, si ritrovano ancora, salvo eccezioni, tra il movimento delle donne e le donne dei partiti, anche di sinistra e anticapitalisti, e dei sindacati confederali.
Tali posizioni si stanno rivelando dannosissime per tutte le donne proprio in questa fase che, in Italia e non solo, conosce un particolare attacco alla condizione femminile ed ai luoghi politici e culturali delle donne.

Tale attacco proviene dalle destre radicali e dagli integralismi religiosi in materia di sessualità e riproduzione, dal neoliberismo con i tagli progressivi
allo stato sociale e con nuove forme di sfruttamento del lavoro, da alcune istituzioni locali che puntano allo sgombero degli spazi in cui operano i vari collettivi e le varie anime del femminismo, a vantaggio non solo delle donne ma dell’intera società.
Emblematico in questo senso l’accanimento della giunta capitolina capeggiata da Virginia Raggi contro la Casa internazionale delle Donne di Roma perché le donne, come gli uomini, non sono tutte uguali dal punto di vista delle scelte e dei comportamenti politici; se prendiamo come riferimento la coscienza di genere possiamo dire anche noi, con Simone De
Beauvoir, che “femmine si nasce, donne si diventa”.
La prima libertà da garantire alle donne è l’effettiva possibilità di decidere del proprio corpo e la libertà di poter scegliere di non essere madri senza sentirsi incomplete e senza essere giudicate incomplete. E, sullo stesso piano, di poter essere madri tutte le volte che lo desiderino e lo vogliano senza dover sacrificare il lavoro cosiddetto “produttivo” e la partecipazione alla vita pubblica, cioè politica. Sappiamo che in Italia queste libertà non sono di fatto concretamente riconosciute a tutte, specialmente a molte donne delle classi lavoratrici; non a caso Marx scrisse che la libertà non è tale se non è accompagnata dalle condizioni sociali ed economiche che costituiscono la base per il suo esercizio effettivo.

E qui entra prepotentemente in campo il tema del lavoro cosiddetto “produttivo”: che cosa dovrebbe essere, con quali diritti dovrebbe essere agito e quale ruolo dovrebbero avere le donne che lavorano. Sul piano teorico, il lavoro dovrebbe essere liberato dallo sfruttamento capitalistico e dovrebbe essere espressione di sé e delle proprie inclinazioni e capacità
nonché contributo al benessere collettivo. Disoccupazione, inoccupazione, precarietà, costrizione al part time, aumento progressivo e insostenibile dei ritmi lavorativi, prevaricazione dei diritti, carenza di servizi sociali, attacco alla salute, stress dovuto anche al sommarsi del lavoro domestico e di cura, raffigurano le condizioni attuali delle lavoratrici. In merito al lavoro
di cura, si sottolinea che “la prosperità economica mondiale si fonda sul contributo enorme, non riconosciuto, del lavoro di cura delle donne, che accumula 16,4 miliardi di ore non retribuite. Fintanto che perdurerà, questo privilegio economico e politico consoliderà i ruoli di genere; eppure, anche nella situazione arretrata dell’Italia, il lavoro di cura potrebbe, se lo
volesse un arco sufficientemente forte di soggetti politici, essere progressivamente redistribuito tra donne e uomini in modo
tendenzialmente paritario.

In primo luogo, sul tema del lavoro cosiddetto produttivo dovrebbe essere costruita concretamente e operativamente l’individuazione congiunta di obiettivi, tappe concrete e unità d’azione tra le donne del sindacato, del movimento e dei partiti anticapitalisti, rispettivamente ai seguenti temi: l’abolizione di ogni forma di lavoro precario e la garanzia di un reddito dignitoso e continuativo nonché di tutele previdenziali e sociali continuative anche per i lavori temporanei e stagionali; la riduzione progressiva, consistente e generalizzata, dell’orario di lavoro a parità di retribuzione, per aumentare l’occupazione, per ripartire il lavoro di cura tra donne e uomini, per migliorare le condizioni di vita e di salute dentro e fuori i luoghi di lavoro e per consentire a tutte e a tutti la partecipazione alla vita pubblica; la parità retributiva tra donne e uomini, a parità di qualifica e di mansione; una rete di servizi sociali ed educativi diffusi in ogni Comune e una simile rete di servizi territoriali di prevenzione, cura e riabilitazione, come previsto dalla legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, la 833 del 1978.

Prendiamo in considerazione quattro categorie di lavoratrici: le operaie, le insegnanti, le mediche e le badanti, anche per il fondamentale ruolo che hanno e soprattutto per il ruolo che dovrebbero acquisire per una società a misura di donne e, quindi, di tutti.
Le operaie subiscono non solo l’oppressione di classe ma anche quella di genere, come risulta da tutte le inchieste fatte negli ultimi decenni, secondo le quali le stesse continuano a vivere una condizione di maggior fatica e di maggior sfruttamento rispetto agli uomini, perché a loro continuano ad essere offerti i posti di lavoro peggiori e perché su di loro pesa tutto o quasi il lavoro riproduttivo, le donne guadagnano spesso meno degli uomini, anche a parità di livello, di anzianità lavorativa e perfino di orario di lavoro, ed ancora i loro ritmi di lavoro sono più incessanti e i margini di autonomia e di controllo della prestazione minori. Si rende necessaria una crescita della coscienza di genere e della consapevolezza dei propri diritti per ottenere un rafforzamento sindacale e politico delle operaie, vantaggioso anche per tutti/e i/le dipendenti delle fabbriche.

Le insegnanti, etimologicamente “coloro che lasciano un segno in”, sono la stragrande maggioranza del personale scolastico, circa 800.000 tra i vari livelli, in BUONA parte precarie. Come lavoratrici dovrebbero assumere in prima persona la lotta per l’abolizione del precariato, sempre più inaccettabile in un settore come la scuola, che dovrebbe assolvere i compiti assegnatile dalla Costituzione, e per la salute nei luoghi di lavoro, data l’insalubrità e il degrado che caratterizzano buona parte degli edifici scolastici italiani. Come educatrici, qualunque materia insegnino, dovrebbero adottare e diffondere il doppio linguaggio di genere, lasciare come segno in allievi e allieve di ogni età una consapevolezza critica nei confronti della società attuale, una coscienza di genere in merito alla storia delle donne, all’obiettivo della liberazione femminile, alla lotta alle violenze, alle prevaricazioni e ai pregiudizi, in primo luogo di genere, ma non solo, ancora tanto presenti nei libri di testo, nei media e nella società.
Anche le mediche avrebbero un bel compito: cambiare l’approccio alla salute, la ricerca, la medicina e la sanità. La prima medica di cui ci è giunto il nome fu l’egizia Merit Ptah (2.700 avanti Cristo) e la prima ginecologa della storia fu la salernitana Trotula De Ruggiero, vissuta intorno all’anno Mille, nota e ammirata in tutta l’Europa di allora. Le donne costituiscono da anni la maggioranza degli studenti e dei laureati in medicina, con un punteggio medio di laurea di 107/110 e si prevede che tra qualche anno saranno la maggioranza anche tra i medici in corsia. I filoni in cui operare il cambiamento potrebbero essere: l’affermazione nella ricerca medica e farmacologica e nella pratica medica della medicina di genere, ossia del riconoscimento delle differenze biologiche, psicologiche e culturali tra i due sessi; il rafforzarsi di una concezione olistica, unitaria non solo del corpo, non più segmentato in organi e funzioni considerati a se stanti, tenendo presente anche le condizioni sociali economiche e culturali in rapporto alla cura dei malati e delle malate. Si deve ad una cardiologa, la italo-statunitense Marianne J. Legato, l’invenzione negli anni ’90 della medicina di genere, come dobbiamo ad alcune mediche italiane, come Antonietta Cargnel, paladina della lotta all’A.I.D.S., l’attenzione portata anche al contesto familiare e sociale della persona malata, con la creazione di appositi servizi sociali di supporto.

Le badanti sono le lavoratrici più precarie e sfruttate e con meno diritti, specie se immigrate, proprio loro che, assistendo vecchi e vecchie, non solo consentono alle donne dei ceti medi di emanciparsi con il lavoro e con la vita sociale, ma anche rispondono a una necessità sociale in continua crescita, dato il progressivo aumento delle classi di età più avanzate. Si avanza la proposta, in primo luogo alla CGIL, di lanciare un progetto di legge di iniziativa popolare che preveda l’assunzione a tempo indeterminato delle badanti, da parte dei Comuni, con tutti i diritti e le prestazioni previdenziali e l’assunzione da parte del sistema pubblico di parte del costo relativo a questo servizio, oggi completamente a carico delle
famiglie.

Se si considera la parola “politica” nella sua accezione originaria, dal greco “ta politikà”, tutto ciò che riguarda la polis, la città, la città Stato e quindi la vita collettiva in tutti i suoi aspetti, si può affermare che questo è il senso della politica da diffondere come donne, almeno per quelle che non fanno proprio il linguaggio ed il modo maschili, la politica a favore della
collettività in ogni situazione.

Il fatidico “che fare” porta a due considerazioni: la prima è che la condizione delle donne italiane è la peggiore tra quelle dei grandi Paesi europei (basso livello occupazionale, discriminazioni retributive a parità di qualifica e mansione, bassissima dotazione di servizi socio-educativi, impossibilità per molte di essere contemporaneamente lavoratrici e madri , indice di subalternità e conseguentemente di bassa natalità, indicatore anche di disagio socioeconomico e di arretratezza per l’intero Paese; la seconda è che le divisioni tra soggetti politici, oggettivamente anticapitalisti, non fanno che favorire capitalismo e patriarcato, i potentati economico/finanziari, militari, religiosi e le persone che li servono nelle istituzioni ai vari livelli.

Come comuniste del PCI si propone, quindi, di costruire relazioni via via più forti ed estese tra donne delle varie forme della politica, in tutte le modalità possibili e in tutti gli ambiti territoriali possibili, soprattutto tra donne di soggetti a valenza nazionale come i partiti anticapitalisti, la CGIL, Non Una Di Meno e l’Unione Donne in Italia; si possono utilizzare tutte le modalità di lotta e di iniziativa a disposizione, dalle manifestazioni nelle vie e nelle piazze, alle raccolte di firme, ai progetti di legge di iniziativa popolare, alle varie forme di sciopero e anche al votare donne, per far arrivare nelle istituzioni a tutti i livelli sempre più rappresentanti dotate di coscienza di genere e capaci di interagire con le donne di ogni età, dei movimenti, dei
comitati e delle associazioni, con le lavoratrici, con le studenti, con le pensionate, queste ultime spesso impegnate nella cura di bambini/e e ragazzi/e per aiutare le generazioni di mezzo lasciate sole dalla carenza di servizi socio-educativi.
Si vorrebbe utilizzare l’attuale pandemia ed il rischio concreto che altre seguano, come occasione imperdibile per diffondere la consapevolezza che l’umanità è parte di una natura attiva e che bisogna smettere di distruggere gli ecosistemi,
di sfruttare fino allo sfinimento gli esseri umani, di allevare, in maniera intensiva, gli animali cosiddetti domestici e di distruggere l’habitat di quelli ancora selvatici.

Si conclude questa articolo con tre slogan provenienti da vari punti del globo: il primo era stato la parola d’ordine del primo convegno femminista australiano negli anni ’70: ”Donne unitevi: non avete nient’altro da perdere se non le vostre catene”; il secondo è dovuto a Michelle Bachelet, per vari anni “presidenta” del Cile: “Quando una donna fa politica cambia la donna, ma, quando tante donne fanno politica, cambia la politica”; e il terzo alla Casa Internazionale delle Donne di Roma: “Non c’è più tempo. Per il pianeta, per il nostro mondo, per le nostre vite. Noi siamo la cura”.

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