Genova: quale Stato, quale politica?

Prima pagina venti notizie
ventuno ingiustizie e lo Stato che fa
si costerna, s’indigna, s’impegna
poi getta la spugna con gran dignità

Fabrizio De André

 

C’erano tutti oggi, ma proprio tutti, ai funerali di Stato per le vittime del crollo del ponte Morandi di Genova. Sergio Mattarella, presidente della Repubblica, Maria Elisabetta Casellati e Roberto Fico, seconda e terza carica dello Stato, presidenti rispettivamente di Senato e Camera dei Deputati. Maurizio Martina, segretario del PD, Giovanni Toti, dalla Regione Liguria.
Gli esponenti del governo, basta ricordare il premier Conte e i ministri Salvini, Di Maio e Toninelli, si erano già precipitati nel capoluogo ligure, in una raffica di proclami e dichiarazioni. Assieme a loro, il vespaio di giornalisti che è solito ronzare attorno al potere per atterrare non appena si inizia a fiutare la disgrazia, in un fiume di interviste, aggiornamenti, smentite, lavoro d’archivio per riportare prima della concorrenza quella singola dichiarazione pronunciata chissà quanti anni fa e riguardante lo stato di salute dell’opera, o le posizioni di un consigliere regionale che minimizzava i possibili rischi sulla tenuta dell’infrastruttura, o ancora il crollo di quel ponte gemello costruito in Venezuela ecc.[1]
Parole, parole e parole! Funerali di Stato, lutto cittadino, bandiere a mezz’asta, dirette televisive… La solita tiritera cui il mondo dell’informazione ci ha tristemente abituati, mentre chi cerca di individuare delle responsabilità viene accusato di essere inopportuno e a chi propone la nazionalizzazione della rete autostradale come soluzione all’incuria viene detto di aspettare, di non correre troppo in fretta.
Nel frattempo, piccolo dettaglio, qualche assenza si conta. Le famiglie delle vittime, ben 20 sul totale, hanno deciso di disertare in massa i funerali di Stato per vivere privatamente il loro dolore. E c’è chi lo ha fatto lasciando al proprio silenzio il ruolo di sberla verso le istituzioni, chi invece si è lasciato andare in colorite dichiarazioni, in cui fioccano parole come “farsa”, “passerella”, “giustizia”, “inadempienze”, “assenza”, “politici”, quest’ultima con un chiaro senso dispregiativo.
Ora, che gli italiani non amino particolarmente lo Stato, è fatto da lungo tempo risaputo.  Ma in questo caso, dopo il segnale fortissimolanciato da chi è oggi in lutto, per la politica e i media sarebbe opportuno smettere di cianciare e aprire, per una volta, le orecchie per cogliere, sentire e magari tastare con mano il totale senso di distacco, disincanto e rassegnazione dei cittadini, che non è più soltanto serpeggiante, ma è divenuto oramai ben tangibile.
A partire dalla gravità del singolo episodio e delle reazioni che ha suscitato occorre ripensare integralmente due cose, il cui modo di declinarsi è forse il principale motivo di disaffezione e scollamento tra cittadini e istituzioni, cercando di avere una visione di lungo periodo e il più generale possibile.
La prima è il mondo dell’informazione, nei cui confronti sarebbero molte le domande da porsi. È significativa la reazione di uno dei padri delle vittime: “Mio figlio non diventerà un numero nell’elenco dei morti causati dalle inadempienze italiane, farò in modo che ci sia giustizia per lui e per gli altri: non dobbiamo dimenticare” [2], che sottolinea allo stesso tempo la necessità di restituire una dimensione umana a chi è morto e di tenere vivo il loro ricordo, di fronte all’avanzare impietoso delle notizie. Quanto è salutare per la democrazia un mondo dell’informazione che tratta le persone come numeri e cerca costantemente dell’altro da far passare nella propria macina? Un giornalismo che riesce a rendersi vuoto tanto più riempie le tv e le pagine dei pareri di personaggi e opinionisti? Probabilmente il male della nostra epoca non alberga nelle innumerevoli bufale che vengono diffuse, ma proprio nella sovrainformazione, sulla cui dubbia necessità dovremmo noi tutti fare autocritica. Ma sarebbe troppo chiedere ai media di rallentare, fermarsi e compiere una seria riflessione. Essi fanno e faranno solo “il proprio lavoro” e continueranno a deresponsabilizzarsi, poiché, nella loro colossale mediocrità, “riportano soltanto i fatti”.
Quindi rivolgiamo l’attenzione direttamente alla politica e allo Stato, sperando che il resto si adatti a un suo possibile cambiamento. Qui occorre un’importante precisazione, sul modo di concepire questi due concetti così nobili e al giorno d’oggi tanto disprezzati. Prima ancora di chiedersi quanto Stato, quanta politica, questione essenziale per noi comunisti, domandiamo invece quale Stato, quale politica? Sicuramente non quella che del cercare consensi facili con frasi futili e di circostanza ha fatto un’arte. Detto questo, come agire? Assodata la vicinanza alle vittime e alle loro famiglie, bisogna provare a fare un’analisi che non si limiti a stabilire colpe e colpevoli, ma possa fornire elementi utili al dibattito politico perché simili eventi non si ripetano.

La proposta della nazionalizzazione già incontra le prime frenate, vittima dell’ormai consolidato modus operandi della politica italiana, consistente nel dire una cosa, smentirla il giorno dopo, precisarla quello successivo e così via in un turbine di dichiarazioni d’intenti che nella maggior parte dei casi finiscono nel nulla. La nazionalizzazione è il primo strumento attraverso cui attaccare la logica del capitalismo, incentrata sul profitto (l’accumulo di capitali, appunto), per promuovere un sistema economico che ponga invece come essenziali le finalità sociali (lavoro, sicurezza ecc) sfuggendo ai dettami e ai freddi calcoli imposti dal mercato. La nazionalizzazione di un settore centrale come quello dei trasporti non è una proposta provocatoria: in Inghilterra, non proprio un Paese socialista, se ne discute da tempo [3] ed è stata, per i servizi ferroviari, in parte realizzata.[4] Ma in Italia siamo ancora vittime del modo di intendere lo Stato come un “privato”, o peggio come una “famiglia”, mentre invece bisogna ricordare e ricordarsi che lo Stato, l’intervento pubblico in economica, non risponde ai canoni economici privatistici. Non lo fa se crea investimenti e genera quindi indotto in posti di lavoro e infrastrutture che arricchiscono in definitiva chi ha pagato per la loro realizzazione, cioè noi tutti.

Ripensare quindi l’intervento dello Stato in economica, seguendo lo slogan “+ Stato – Mercato” non è per noi un mero richiamo propagandistico, ma disegna il programma e la pianificazione dello sviluppo economico del Paese. Un progetto lungimirante non rivolto alle elezioni di domani, ma invece adeguato alla realizzazione di quel cambiamento che ancora, nonostante l’infinità di promesse, stenta a realizzarsi. L’assenza dello Stato unisce con un filo rosso le innumerevoli tragedie che, senza volgere lo sguardo troppo all’indietro, solo nell’ultimo mese ci hanno sconvolto, perché in tale assenza si creano quei cortocircuiti che infine danneggiano la collettività e i più deboli (per dirne uno, il fenomeno del caporalato). Da Nord a Sud il Paese è sconvolto da tragedie e molte di esse hanno come matrice comune la logica del profitto. È bene ricordarlo, con la consapevolezza che rimanere solo sul caso particolare rischia di tenerci ancorati a un modo di fare politica attualmente in voga, ma che non ci appartiene e non deve impedirci di sviluppare quella fondamentale qualità assente nel panorama politico italiano: la lungimiranza.

Agli italiani non serve uno Stato che si faccia vivo quando la disgrazia è già avvenuta e non nel momento del bisogno. Non serve uno Stato che dimentichi la parola “prevenzione” per riunirsi ogni anno nell’anniversario della strage. Non serve una politica che rinunci, abdicando i propri compiti, all’azione che gli compete per lasciar quasi passivamente accertare in via giudiziaria la verità e la responsabilità, questi concetti così evanescenti che probabilmente non arriveremo a conoscere. Crollo di ponte dopo crollo di ponte, ci ritroveremo sempre più soli e abbandonati. Ciò che è già accaduto succederà ancora se non si inverte il modo di concepire e di amministrare lo Stato, ovvero non affrontando ogni singola situazione come se si trattasse di un’emergenza, ma con la pianificazione che il sapere e la scienza ci possono garantire.
È in ballo qualcosa di ben più grave di quanto siamo abituati ad ascoltare ogni giorno. Lo tengano presente le classi dirigenti che oggi ci governano: la disaffezione del popolo per la cosa pubblica è a lungo termine erosiva per la tenuta democratica del Paese.

di Massimiliano Romanello e Gennaro Chiappinelli

[1] https://www.corriere.it/cronache/18_agosto_15/gemello-crollato-venezuela-viadotto-chiuso-ad-agrigento-altri-ponti-morandi-01f70e16-a058-11e8-8614-e56d93fd6b87.shtml

[2] https://www.corriere.it/cronache/18_agosto_17/crollo-genova-rabbia-parenti-che-dicono-no-funerali-stato-497c441e-a1ec-11e8-b2f9-d4ce42b355f4.shtml?refresh_ce-cp

[3] http://www.repubblica.it/economia/2018/02/05/news/privatizzazioni_la_gran_bretagna_si_pente_e_rivuole_i_servizi_pubblici-188044462/

[4] http://finanza.lastampa.it/News/2018/05/16/regno-unito-la-ferrovia-east-coast-torna-in-mano-pubblica/MjM1XzIwMTgtMDUtMTZfVExC

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