IL GIUDICE, IL PRIGIONIERO…E I ROMANZIERI. Prefazione al volume “Gramsci e il giudice” di Ruggero Giacomini

di DOMENICO LOSURDO

 Tra i tormenti che affliggono Gramsci in carcere c’è un dubbio, semplice e atroce: i suoi compagni di partito si stanno realmente impegnando per la sua liberazione, oppure c’è qualcuno che trama nell’ombra per ostacolarla o renderla impossibile? A partire da questo dubbio, alcuni interpreti si sono sbizzarriti in ricostruzioni romanzesche, al cui centro campeggia l’avventurosa affermazione secondo cui il grande pensatore e rivoluzionario avrebbe concluso la sua esistenza dando l’addio alla militanza comunista. Ho parlato di ricostruzioni romanzesche per il fatto che esse si fondano sul nulla. Non solo i Quaderni, anche le Lettere dal carcere testimoniano sino alla fine l’interesse simpatetico di Gramsci per il paese scaturito dalla rivoluzione d’Ottobre.

Non vengono trascurati neppure gli aspetti più minuti: lo dimostrano i riferimenti positivi (nelle lettere al figlio Delio dell’estate e del novembre 1936) al «giornale dei pionieri» e alla «giovane e valorosa filologia sovietica»,  alla «letteratura fresca» e «criticamente elaborata»  sviluppatasi in Unione Sovietica su Puškin e Gogol (LC,  ed. a cura di A. A. Santucci, Palermo 1996, pp. 779 e 786). Ed è sempre del 1936, anche se il mese è imprecisato, una lettera a Giulia in cui come punto di forza dell’educazione del figlio Delio viene sottolineato il fatto che egli ha vissuto non «la vita meschina e angusta di un paese della Sardegna» bensì la vita di «una città mondiale dove confluiscono enormi correnti di cultura e di interessi e di sentimenti che raggiungono anche i venditori di sigarette della strada» (LC, p. 794). La capitale dell’Unione Sovietica continua a essere pensata e sentita come il centro dal quale s’irradia l’ordine nuovo che s’impone e che, pur tra contraddizioni, conflitti e storture, comincia faticosamente a prendere forma.

Tanto più infondati risultano i romanzi cui accennavo per il fatto che essi non fanno neppure un vago tentativo di chiarire a quale movimento politico o a quale corrente di pensiero Gramsci avrebbe aderito una volta abbandonato il comunismo. Si sarebbe identificato con l’Occidente liberale e capitalistico? In realtà, i 
Quadernidel carcere
 non dimenticano il ruolo d’avanguardia svolto dall’Inghilterra nell’aggressione contro il paese scaturito dalla rivoluzione d’ottobre; anzi, sottolineano che il governo di Londra ne sta preparando un’altra, ancora più grave, forse «una guerra di sterminio» (Q, ed. a cura di V. Gerratana, Torino, 1975, p. 190) sul modello delle guerre coloniali cui è avvezzo l’Impero britannico. Severo è anche il giudizio di Gramsci sulla repubblica nordamericana, dove pericolosamente si diffonde l’ideologia cara ai campioni della white supremacy, secondo cui «il progresso morale e in­tellettuale dell’umanità fu […] dovuto ai nordici». Disgraziatamente, la «boria» delle «razze» e delle «stirpi», «questo modo di pensare non è in­dividuale: ri­specchia una notevole e predominante corrente di opinione pubblica degli Stati Uniti» (Q, p. 199). L’elemento nuovo rappresentato dall’avvento del Terzo Reich non sfugge a Gramsci, che anzi mette in guardia contro «le manifestazioni di brutalità e d’ignominia inaudita della “cultura” tedesca dominata dall’hitlerismo»: è ora di prendere atto di quanto sia «fragile la cultura moderna» (Q, p. 2326). E, tuttavia, il grande pensatore e rivoluzionario è ben consapevole del fatto che la barbarie nazista affonda le sue radici in una tradizione colonialista e razzista cui non sono certo estranei la Gran Bretagna e gli Stati Uniti: la mitologia della razza nordica è strettamente imparentata alla mitologia della razza ariana.

Se non all’Occidente capitalista e liberale, Gramsci si sarebbe convertito alla socialdemocrazia? In realtà, negli anni di cui qui si parla (il quadro cambierà solo con il patto di non-aggressione tedesco-sovietico) vediamo personalità illustri della sinistra nel suo complesso guardare con crescente simpatia all’Unione Sovietica che è risparmiata dalle conseguenze devastanti della Grande Depressione e che sola cerca di difendere la democratica repubblica spagnola dall’aggressione della Germania nazista e dell’Italia fascista, mentre le grandi potenze capitalistiche dell’Occidente mirano solo a dirottare verso Est la spinta espansionistica del Terzo Reich. Nel 1936 Otto Bauer, l’esponente più illustre dell’austromarxismo, evoca già nel titolo del suo libro (
Tra due guerre mondiali?) la nuova tempesta bellica che si approssima e commenta: «nel modo capitalistico non esiste la ‘pace perpetua’»; solo la realizzazione di un «ordine sociale socialista» potrà finalmente spianare la strada a una pace «permanente e garantita» (O. Bauer, Zwischen zwei Weltkriegen?, Bratislava, 1936, pp. 226, 230 e 232). E, sempre in questi anni (gli anni della guerra di Spagna), Carlo Rosselli, leader del socialismo liberale, contrappone negativamente i paesi liberali («L’Inghilterra ufficiale è per Franco, affama Bilbao») all’Unione sovietica che fornisce il suo «aiuto» alla repubblica spagnola (C. Rosselli, Scritti politici
, a cura di Z. Ciuffoletti e P. Bagnoli, Napoli, 1988, pp. 358, 362 e 367). Né si tratta solo della politica internazionale. Mentre il mondo capitalistico è caratterizzato dalla «fase del fascismo, delle guerre imperialistiche e della decadenza capitalistica», agli occhi di Carlo Rosselli, l’Unione Sovietica costituisce l’esempio di un paese che, pur essendo ancora ben lontano dall’obiettivo di un maturo socialismo democratico, si è comunque lasciato il capitalismo alle spalle e così «apre un’epoca nuova nella storia dell’umanità», di un paese che rappresenta «un capitale di preziose esperienze» per chiunque sia impegnato a costruire una società migliore: «Oggi, con la gigantesca esperienza russa […] disponiamo di un materiale positivo immenso. Sappiamo tutti che cosa significhi rivoluzione socialista, organizzazione socialista della produzione» (Ivi, pp. 301, 304-6 e 381). Chiaramente avventuroso o disperato è il tentativo di sottrarre Gramsci, almeno l’ultimo Gramsci, al movimento comunista italiano e internazionale. Ed è un tentativo portato avanti a partire dal dubbio atroce che angustia il grande pensatore e rivoluzionario rinchiuso nelle carceri fasciste.

Questo dubbio è il punto di partenza anche del libro di Ruggero Giacomini che però, senza lasciarsi contagiare dalla moda promossa dall’ideologia dominante, analizza con ricchezza di documenti e chiarezza di linguaggio una vicenda storica più volte distorta. In primo luogo, occorre tener conto che tale vicenda si svolge nell’«età del sospetto», per riprendere la categoria che costituisce il titolo di un libro di Marcello Flores del 1995; è una categoria dall’autore utilizzata per gli anni della guerra fredda, ma che risulta ancora più persuasiva se fatta valere più in generale per la grande crisi storica iniziata con la prima guerra mondiale e la rivoluzione d’ottobre e conclusasi con il crollo dell’Unione Sovietica. È il periodo in cui si addensano e infuriano i pericoli di guerra e le guerre, e si tratta di guerre condotte anche con lo spionaggio, la disinformazione e l’infiltrazione messi in atto contro partiti politici considerati nemici o sospetti. Per quanto riguarda il movimento comunista, lo spionaggio, la disinformazione e l’infiltrazione che incombono dall’esterno s’intrecciano inestricabilmente con le contraddizioni insanabili e con la guerra civile che infuriano all’interno. In tali condizioni, non ci si può fidare di nessuno, e nessuno è al di sopra del dubbio e del sospetto. Fin qui il quadro oggettivo. Ma nel caso di cui qui si parla svolge un ruolo di grande rilievo l’iniziativa soggettiva di un giudice del tribunale fascista (Enrico Macis) che si presenta al prigioniero (Antonio Gramsci) come un magistrato galantuomo, in qualche modo autonomo rispetto all’apparato giudiziario e statale e rispetto al regime fascista e che nella misura del possibile cerca di proteggere il prigioniero (sardo come il giudice) dalle trame dei compagni di partito che per motivi inconfessabili vorrebbero seppellirlo in carcere.

Ci si potrebbe stupire che il dirigente comunista abbia prestato fede a tali menzogne o si sia lasciato da esse fortemente influenzare. Vale però la pena di osservare che un prigioniero non è nelle condizioni migliori per conservare la lucidità del giudizio, e tanto meno è capace di far questo nell’«età del sospetto». Più stupefacente è il fatto che le fandonie di Macis siano state accolte in modo sostanzialmente acritico da una serie di storici, i quali (in questi ultimi tempi) dalla comprensibile influenza esercitata dal giudice sul prigioniero hanno preso le mosse per costruire il romanzo del ripudio finale del comunismo a opera del prigioniero. Occorre allora salutare con calore il libro di Ruggero Giacomini che, sulla base di una documentazione di prima mano, getta luce sulla personalità di Macis, che si rivela essere un fascista convinto e coerente (anche nei crimini di guerra) e un professionista dell’intrigo, della disinformazione e dell’inganno al servizio della dittatura mussoliniana, impegnata con ogni mezzo a disgregare l’opposizione e soprattutto l’opposizione comunista. Ben si comprende l’interesse suscitato dal libro Il giudice e il prigionieroIl carcere di Antonio Gramsci: basti pensare alle recensioni di Aldo Agosti («l’Indice», 12, 2014) e di Michele Pistillo («Critica marxista», 5, 2014) o alla «Nuova biografia» di Gramsci pubblicata da Feltrinelli e di cui è autore Angelo d’Orsi.

E, tuttavia, ciò non basta. È da sperare che, con la nuova edizione, il libro di Giacomini entri a far parte in modo integrale del dibattito filosofico e politico dei giorni nostri. Gettando luce su un importante capitolo dell’«età del sospetto», ci aiuta a comprendere meglio il dramma umano di Gramsci: è una sofferenza che, nonostante il perfido impegno del giudice, non riesce neppure essa a piegare il prigioniero. Può essere utile il confronto con un’altra tragedia, quella verificatasi negli USA nei primi anni della guerra fredda. Riconosciuti colpevoli di spionaggio atomico a favore dell’Unione Sovietica, i coniugi Ethel e Julius Rosenberg (entrambi militanti comunisti ed entrambi di origine ebraica) attendono in carcere l’esecuzione della condanna a morte. Ma ecco che si verifica un colpo di scena, che io desumo da un libro informato e autorevole (Howard M. Sachar, 
A History of the Jews in America, Vintage Books, New York, 1993, pp. 636-37). Su incarico dell’FBI, un avvocato statunitense di origine ebraica anche lui va a visitare i due militanti comunisti condannati a morte e prospetta loro una via di scampo: se accetteranno di prendere pubblicamente le distanze dall’Unione Sovietica, denunciandola come una paese ferocemente e irrimediabilmente antisemita, essi conserveranno la vita e guadagneranno la libertà. Respingendo il ricatto, Ethel e Julius Rosenberg affrontano coraggiosamente la sedia elettrica il 19 giugno 1953. Un ricatto analogo ha pesato su Antonio Gramsci: se avesse presentato domanda di grazia o se comunque avesse preso con chiarezza le distanze dall’URSS e dal movimento comunista, egli avrebbe potuto recuperare la libertà e salvare la vita. Nonostante il dubbio atroce maturato nell’«età del sospetto» e insinuatogli dal giudice fascista, il prigioniero comunista procede in modo esattamente opposto. Sino all’ultimo rifiuta di firmare la domanda di grazia. Ancora il 25 marzo 1937, un mese prima della morte che egli sente avvicinarsi, Gramsci comunica a Sraffa, perché le trasmetta ai compagni di partito (del Partito comunista), le sue idee circa il modo migliore di condurre la lotta politica, mentre per un altro verso lo incarica di preparare una bozza per la domanda di espatrio (cfr. G. Vacca, Vita e pensiero di Antonio Gramsci
, Torino 2012, pp. 320-21). Spera di raggiungere l’URSS e Mosca, la città descritta in termini lusinghieri nella lettera a Giulia dell’anno prima. Non solo dunque i testi scritti; anche le testimonianze e il comportamento pratico, tutto concorre a confutare la tesi oggi assai diffusa della rottura finale di Gramsci con l’URSS e col movimento comunista. Chiarendo e documentando quello che a ragione egli definisce «il comportamento falso e criminale» del giudice (fascista), Ruggero Giacomini contribuisce anche a distruggere il mito con cui l’ideologia dominante cerca di snaturare l’identità politica del prigioniero (comunista).

È un motivo in più per augurare a questa nuova edizione del libro di Giacomini il successo e la risonanza che esso merita.

 

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