IL LINGUAGGIO DEL POTERE E LE GUERRE IN LIBIA

di Fosco Giannini, Segreteria Nazionale PCI, responsabile dipartimento Esteri

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I comunisti, gli antimperialisti, i rivoluzionari conoscono la storia e la vita di Antonio Gramsci. Sanno che quando se andò dalla Sardegna per stabilirsi a Torino, Gramsci si iscrisse all’università, alla facoltà di glottologia, dove studiò profondamente linguistica dal 1911 al 1915, anno in cui dette il suo ultimo esame, senza poi potersi laureare, sia perché non era più coperto, materialmente, dalla borsa di studio concessagli dalla monarchia, sia perché – soprattutto – la sua vita era ormai dedicata tutta alla lotta politica. Naturalmente, in quei tre anni in cui Gramsci si dedicò anima e corpo alla glottologia, divenne , in facoltà, il numero uno, il migliore. Tant’è che il suo professore, Matteo Bartoli, una volta che Gramsci decise di ritirarsi dall’Università, disse del suo allievo: “ La glottologia ha perso l’angelo sterminatore dei neo-grammatici, ma la rivoluzione ha trovato il suo capo”.

Ma chi erano i neo grammatici, contro i quali Gramsci lottava sin dai tempi dell’Università e contro i quali avrebbe poi ripreso una battaglia culturale dal carcere, scrivendo sui Quaderni? In sintesi rozza: essi, nati come filone culturale in Germania, rappresentavano un’inclinazione idealistica e – insieme – dogmatica della nuova linguistica e, in essi, Gramsci vedeva i costruttori del nuovo linguaggio del potere, del linguaggio della cultura dominante. Alla visione del linguaggio tratteggiato dai neo grammatici, Gramsci opponeva una concezione di un linguaggio determinato dalla stessa storia degli uomini, della stessa storia della “classe” e dello scontro di classe. Gramsci concepiva chiaramente la battaglia culturale contro il linguaggio della classe dominante come parte essenziale della lotta generale tra capitale e lavoro per l’egemonia culturale. E individuando  nel linguaggio un terreno determinante dello scontro di classe, Gramsci anticipava genialmente l’analisi dello scontro in atto, oggi, tra il linguaggio del potere capitalistico e il linguaggio – per ora afasico, tacitato – del lavoro, della classe generale potenzialmente anticapitalistica.

Perché questa premessa? Perché mai come oggi, in questa stessa fase, in questi stessi giorni, il problema del potere del linguaggio della classe dominante che si fa – tout court – linguaggio  dominante, totalizzante, è problema, gramscianamente, centrale.

Il linguaggio dominante ottenebra, sino a rimuoverla, la realtà delle cose, inventando, conseguentemente, un’altra realtà. Questa pratica del potere si spinge in ogni dove, coprendo, come un mantello nero, la totalità delle cose. E i rivoluzionari dovrebbero, di conseguenza, sottoporre tutto a critica, non arrendendosi mai alla prima realtà rivelata dal linguaggio del potere. Ciò come principio rivoluzionario. Ma se ci fermassimo ad indagare attentamente il linguaggio del potere capitalistico per ciò che riguarda la guerra e l’Unione europea, noi potremmo immediatamente comprendere di trovarci di fronte non ad un linguaggio solamente deformato, ma di fronte ad un vero e proprio metalinguaggio, ad un potentissimo disegno semantico volto, per ciò che riguarda l’Unione europea, alla costruzione mitologica di una – peraltro assolutamente  inesistente – presenza storica sovranazionale e continentale e, per ciò che riguarda la guerra e il riarmo, ad un altro disegno semantico volto alla costruzione di una sbalorditiva mistificazione di massa che poggia su di un’ architettura sorretta da una fittissima trama di rimozioni e menzogne. L’insieme di tutto ciò, per restare al Gramsci iniziale, è la vittoria strategica ( lo diciamo in senso metaforico) dei neo grammatici. Che la “ la classe”, il proletariato, pagano con la subordinazione, l’inconsapevolezza e il silenzio.

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Dopo Gramsci, e a partire anche da Gramsci, la linguistica contemporanea che tenta di opporsi al linguaggio del potere, ha individuato, all’interno della semantica del potere, una categoria centrale, un vero e proprio motore primario che da forma al linguaggio del capitale: la categoria della disoggetivazione, attraverso la quale – appunto –  la realtà raccontata non è più oggettiva.

Questo meccanismo segna di sé l’intera narrazione del sistema militare che si estende, oggi, in Italia: nel racconto degli USA, della NATO e dei governi italiani succubi di questo nefasto tandem, le bombe atomiche e tutti gli ordigni nucleari collocati nelle basi USA e NATO in Italia sono cancellati, rimossi: semplicemente non esistono, non esistendo, dunque, neanche nella coscienza di massa. Come cancellate dalla realtà, rimosse, sono, essenzialmente, tutte le stesse 140 basi USA e NATO nel nostro Paese; rimosse sono le immense spese militari e i pericoli di guerra e di subordinazione totale e generale dati dall’appartenenza dell’Italia al Patto Atlantico. Ma il linguaggio del potere, dove non riesce a rimuovere, mistifica, e le nostre guerre d’aggressione, ordinateci dagli USA e dalla NATO, diventano così  “missioni di pace”.

In questi giorni, gli USA sono tornati a bombardare la Libia. E specie nei confronti delle aggressioni imperialiste in Libia i livelli di mistificazione e menzogna del linguaggio del potere, del linguaggio imperialista, ha raggiunto livelli acrobatici, circensi, tanto rocamboleschi nella loro assurdità, quanto oscuri e inquietanti nella loro funzione di guerra.

Chi ricorda con quali motivazioni il fronte imperialista attaccò la Libia, a partire dal 19 marzo del 2011, per una guerra che si sarebbe rivelata una carneficina contro il popolo libico, un orrore degno di una nuova Norimberga, per gli USA e per la NATO ? La motivazione ufficiale per l’attacco – un’incredibile favola, rispetto alla realtà vera – fu la seguente: in Libia sono in atto manifestazioni popolari contro Gheddafi e l’occidente ha il dovere morale di appoggiare il popolo libico che lotta contro la dittatura gheddafiana. A pensarci, è incredibile che ciò sia accaduto, che questa argomentazione sia stata il collante di un intero mondo in armi contro la Libia, sia stato il pensiero – indotto – di centinaia di milioni di persone nel mondo che dovevano essere convinte della bontà dell’attacco militare. Ma fu proprio così: poiché erano in corso in Libia manifestazioni contro il governo, un fronte imperialista dalla vastità impressionante ( all’inizio una coalizione composta da USA, Francia, Belgio, Canada, Danimarca, Italia, Norvegia, Spagna, Regno Unito, una coalizione che si sarebbe tuttavia allargata sino al  Qatar e sarebbe stata composta, infine, da ben 19 paesi!)  mise il coltello tra i denti e assassinò la Libia. A pensarci bene sarebbe come se  un’organizzazione militare mondiale opposta alla NATO, poiché, oggi, vi sono manifestazioni popolari contro Obama negli USA e la polizia americana massacra i neri, dovesse bombardare Washington e New York…  Ad attaccare per primi, 19 marzo 2011, furono i francesi; qualche ora più tardi iniziarono ad alzarsi i missili da crociera  “Tomahawk” da navi militari statunitensi e britanniche sugli obiettivi strategici di tutta la Libia.

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Ma vogliamo ricordare la realtà delle cose, magari con un po’ di pignoleria, ma sicuri che questa realtà ci impressionerà? Che contribuirà al ripristino della verità, così ferocemente cancellata dai “neo grammatici” dell’attuale imperialismo?

Vediamo, semplicemente,  le forze militari in campo nel marzo del 2011 contro la Libia di Gheddafi.

Belgio: sei caccia multiruolo F-16 Falcon . Bulgaria: la grande fregata Drazki.  Canada: il Canadian Forces Air Command , con sette cacciabombardieri CF-18, due aerocisterne CC-150 Polaris, due C-130J da trasporto, due CC-177 e due pattugliatori marittimi CP-140 Aurora. In totale sono circa 490 i militari canadesi coinvolti nell’operazione, compresi quelli imbarcati sulle fregate Charlottetown e Vancouver.  Danimarca: l’aeronautica militare danese partecipa con sei caccia F-16 e un C-130J-30 Super HerculesEmirati Arabi Uniti: sei F-16 Falcon e sei Mirage 2000 che fanno base a Decimomannu, Sardegna, e TrapaniSiciliaFrancia: L’Armée de l’air, che effettuerà il 35% dei bombardamenti, dispiega 19 Rafale, 18 tra Mirage 2000D e Mirage 2000-5F, 6 MirageF1, 6 Super Étendard, 2 E-2C Hawkeye, 2 C-2 Greyhound, 2 elicotteri Tiger, 16 elicotteri Gazelle, 6 aerocisterne C-135FR e 1 AWACS E-3F e,  in aggiunta, un 1C-160G in configurazione SIGINT. La Marine nationale invia, dapprima, le fregate Forbin e Jean Bart, alla quale si unisce, dal 22 marzo, la “Task Force 374“, composta dal gruppo aeronavale della Charles de Gaulle (10 Rafale M, 6 Super Étendard e 2 E-2C), dalle fregate Dupleix e Aconit, dal sottomarino nucleare Améthyste e dalla nave ausiliaria Meuse.  Per assistere i propri elicotteri, la Francia dispiega la nave d’assalto anfibia  Mistral. L’Armée de terre partecipa con degli elicotteri che partono dalle due navi della classe Mistral; il Groupe Aéromobile (GAM) dispiega, dal maggio 2011, 14 elicotteri da combattimento: 2 Tiger, 8 Gazelle Viviane/Hot, 2 Gazelle Canon e 2 Gazelle Mistral, i cui raid avranno effetti particolarmente devastanti e  si riveleranno decisivi per la vittoria. Giordania: sei caccia dell’aeronautica militare giordana, che diventa così la terza potenza araba, dopo Qatar ed Emirati Arabi, ad unirsi all’operazione Unified ProtectorGrecia: la fregata Limnos della marina militare greca e la Polemikí Aeroporía, l’aeronautica militare, che fornisce  elicotteri Super Puma e un aereo AWACS Embraer 145.

Italia (e qui viene il bello, o meglio l’orrore): partecipa all’attacco con 16 velivoli: cacciabombardieri TornadECR dell’aeronautica militare, impiegati per svolgere missioni SEAD; Tornado IDS ed Amx ACOL, supportati da due aerei cisterna (un KC-130J ed un KC-767), più un G.222VS da guerra elettronica, con la scorta di 8 caccia intercettori F-16.  Il 26 marzo la Marina Militare fornisce all’operazione Unified Protector la portaerei leggera Giuseppe Garibaldi (con otto caccia Harrier a decollo verticale, anch’essi messi a disposizione della NATO per lo svolgimento dell’operazione militare in Libia), che sarà nave comando sino al 26 luglio; Il rifornitore di squadra Etna, che sarà impiegato dal 25 marzo al 1º giugno e la nave da sbarco San Giusto, che  svolgerà il ruolo di nave comando dal 27 luglio al 31 ottobre. L’insieme delle navi della marina militare Italiana impiegate nell’operazione sono state ( le elenchiamo in verticale, per farvele leggere meglio):

Nel corso delle operazioni italiane sono state impiegati Tornado,  AMX dell’Aeronautica,  Harrier della Marina Militare 313 GBU a guida laser e 345 JDAM a guida GPS, sia da 227 che da 454 chili (costo medio di 40.000 euro/ordigno) oltre a 25 missili da crociera Storm Shadow (SCALP) (1 mln/ordigno), su obiettivi fissi (depositi, postazioni d’artiglieria, centri di comando e controllo, radar) dislocati tra Brega, Sirte, Misurata, Tripoli e Sebha. Il costo totale della missione italiana in Libia, comprensiva anche degli oneri sostenuti per le attività di accoglienza, gestione e rimpatrio dei profughi e degli emigranti, è stato pari a 700 milioni di euro in tre mesi di operazioni ! L’Italia condurrà, dal 28 aprile 2011, 1.900 “missioni” (di cui 310 per attacchi al suolo contro obiettivi predeterminati, 146 di neutralizzazione delle difese aeree nemiche) per un totale di 7.300 ore di volo, l’utilizzo di EurofighterTornadoAMXPredatorKC-130 e KC-767  in missioni di bombardamento, ricognizione, pattugliamento, difesa aerea, rifornimento in volo, di neutralizzazione di obiettivi militari e la messa a disposizione di 7 basi aeree. E fortuna che sono “missioni di pace”!

La NATO userà: E-3 Sentry AWACS pilotati da membri delle nazioni aderenti alla missione.  Norvegia:  sei F-16.  Paesi Bassi: l’aeronautica militare olandese utilizzerà sei caccia F-16 (quattro operativi e due di riserva) e un’aerocisterna KDC. La Koninklijke Marine   dispiegherà invece il cacciamine Haarlem per rafforzare l’embargo di armi alla Libia. Qatar: sei Mirage 2000-5EDA e un C-17 da trasporto.  Regno Unito: 2 sottomarini lanciamissili a propulsione nucleare classe Trafalgar HMS Triumph (S93) , due fregate,  il  cacciatoripediniere HMS Liverpool (D92) e il cacciamine HMSBrocklesby (M33).

La Royal Air Force  fornirà 8 Tornado e 10 Typhoon che inizialmente opereranno dalle loro basi in Gran Bretagna, per essere successivamente rischierati a Gioia del Colle, mentre aerocisterne TriStar e VC10, unitamente ad aerei da sorveglianza Sentinel R1 e Nimrod R1, opereranno dalla base RAF ad AkrotiriCipro. In Libia opereranno anche uomini SASSRR e SBS per il coordinamento degli attacchi aerei sul suolo. Romania: la fregata Regele Ferdinand;  Spagna: quattro cacciabombardieri F-18, un’aerocisterna Boeing 707-331B (KC), la fregata Méndez Núñez, il sottomarino Tramontana ed un aereo CN-235 MPA per la sorveglianza marittima.  Svezia:  otto caccia multiruolo Saab JAS 39 Gripen, un C-130 Hercules per il rifornimento in volo e un aereo da ricognizione.  Turchia:  cinque navi, un sottomarino e sei F-16 Fighting Falcon per le operazioni aeree .

Stati Uniti: la marina  dispiegherà una forza navale di 11 navi,  inclusa la nave da assalto anfibio Kearsarge, la nave da sbarco Ponce, il cacciatorpediniere lanciamissili Barry e Stout, i sottomarini nucleari d’attacco Providence e Scranton, il sottomarino lanciamissili da crociera Florida e la nave comando anfibia Mount Whitney  .  Prenderanno  parte alle azioni sulla Libia anche bombardieri stealth B-2, aerei da attacco al suolo AV-8B Harrier II e EA-18, caccia F-15 e F-, nonché aerei da ricognizione U-2 stazionati a Cipro. Il 18 marzo erano già giunti alla base RAF Mildenhall due AC-130U ed un’ulteriore aerocisterna. Dal 24 marzo due E-8C  opereranno dalla NAS Rota, dal 24 aprile saranno impiegati due UAV RQ-1 Predator.

E’ stata, per chi scrive, una ricognizione difficile e, per chi legge, probabilmente, sarà un passaggio pesante. Ma la verità è qui, in queste incredibili cifre, in questa serie infinita di navi da guerra, sottomarini nucleari, missili, cacciabombardieri: un intero mondo militare contro un piccolo Paese come la Libia, contro un governo, quello di Gheddafi, reo di reprimere manifestazioni – chiaramente sollecitate, condotte, organizzate dagli USA e dalla Francia innanzitutto – volte a rovesciare il governo libico legittimo. Quell’immenso dispiegamento militare imperialista provocò circa 300 mila morti libici; distrusse l’unità libica riportando la Libia alla divisione tribale; distrusse l’intero Paese: oleodotti, acquedotti, gasdotti, ponti, strade, intere città, gettando l’intera popolazione libica nella miseria e nella disperazione. Noi, cittadini dell’Impero, se un solo giorno rimaniamo senza acqua in casa impazziamo. E, certo, non possiamo lontanamente immaginare la vita di un intero popolo, quello libico ( ma, nelle stesse condizioni, versano sia il popolo iracheno che quello siriano) che da anni e  anni vive ormai in condizioni animali, condizioni da post-bombardamento imperialista. Gheddafi fu trucidato ferocemente, come una bestia, dalle truppe dell’occupazione. Un milione di immigrati africani, attratti in Libia dalla mancanza della forza lavoro e dal processo di industrializzazione libico in atto , furono ( poiché considerati “amici di Gheddafi”) torturati, massacrati, assassinati e infine brutalmente sospinti alla fuga dalla Libia, a formare l’esercito di immigranti, il popolo dei gommoni, destinato ad una nuova, generale, tortura occidentale.

Nella lettura dell’armamentario che i vari paesi hanno messo in campo contro la Libia nel 2011 vi è già tanta parte della verità: gli USA, la Francia e l’Italia hanno messo in campo tante armi quanto forte è stata la loro determinazione a colonizzare o ricolonizzare  la Libia e il suo petrolio.

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Ma per quale motivo, in verità, l’imperialismo attacca, nel 2011, la Libia?

Gheddafi vive una lunga esperienza rivoluzionaria e antimperialista. Il petrolio libico, con Gheddafi, non è più in mano alle multinazionali USA e occidentali; grandi acquedotti vengono costruiti per portare l’acqua potabile dal deserto – un’immensa quantità di “oro bianco”-  a tutta la Libia; la Libia di Gheddafi si unisce, supera il tribalismo e diviene una nazione autonoma, libera dal colonialismo; la società libica è segnata da un importante processo di laicizzazione; il processo industriale è avviato e manca la mano d’opera, importata dall’Africa; lo stato sociale si va rafforzando; i fondi sovrani libici ( la ricchezza accumulata dallo Stato attraverso i suoi investimenti e i profitti nazionali) vanno crescendo in modo enorme; nella stessa società libica avanzano esperienze di democrazia di base: un legame tra popolo e potere statuale; nel  1982 Gheddafi decide la costituzione un nuovo organismo, denominato “Mathaba” (in arabo “Ritrovo” o “Riunione”) con lo scopo di creare un collegamento diretto tra la Jamahiriya e vari movimenti rivoluzionari mondiali e di provvedere al loro sostentamento ideologico e finanziario; la Mathaba era anche definito come “Centro mondiale contro l’imperialismo, il sionismo, il razzismo ed il fascismo”; non casualmente, la fondazione della Mathaba libica parte assieme ad esperienze della stessa natura politica e ideologica che appaiono in Siria e  in Iran. Gheddafi, innanzitutto assieme al Sud Africa di Mandela, dell’ANC e del Partito Comunista Sud Africano, promuove instancabilmente il progetto di un’Africa unita e antimperialista ( Gheddafi è stato  Presidente dell’ Unione Africana). E soprattutto, massima provocazione per gli USA e per il neocolonialismo occidentale, Gheddafi lavora per una Banca Africana e per una moneta unica africana, che dovevano essere generosamente sostenute  dai cospicui fondi sovrani libici. Cioè: una lotta senza quartiere contro l’egemonia spoliatrice del dollaro sull’intera Africa.

Tutto questo è troppo, per gli USA e per l’occidente capitalistico. Per questo l’imperialismo, tra il 2010 e il 2011,  favorisce le proteste popolari contro il governo e il potere libico, utilizzando poi la repressione di Gheddafi su queste forze essenzialmente filo imperialiste ( una sorta di “ rivolte arancioni” in Libia) come motivazione per l’intervento armato contro “la dittatura sanguinaria di Gheddafi”.

In questi giorni d’agosto 2016 gli USA hanno iniziato di nuovo i bombardamenti sulla Libia. Questa volta qual è la motivazione ufficiale? Si deve attaccare l’Isis – la creatura stessa degli USA e della loro guerra contro Gheddafi del 2011 – a Sirte. Ma qual è quella vera? E’ la seguente: USA, Italia, Gran Bretagna, Francia, dopo aver spazzato via l’unità libica costruita da Gheddafi attraverso il massacro dai caratteri nazifascisti del 2011, oggi tornano in Libia a correggere e ratificare, con nuove bombe, i confini che nella ex Libia sono stati  tracciati, con scontri armati infiniti, dai nuovi governi tribali, dai nuovi poteri sorti dal disastro libico. L’obiettivo dichiarato è la spartizione dell’ex Libia e del suo petrolio: una regione sotto il dominio USA, un’altra sotto la Francia, una alla Gran Bretagna e una all’Italia, già paese colonizzatore, in Libia, per circa 30 anni, dall’era prefascista a Mussolini. A chi la Tripolitania? A chi la Cirenaica? A chi Fezzan? Lo diranno le bombe, il campo, la guerra, ma, comunque, alle forze imperialiste. Pronte, di nuovo, a depredare ciò che rimane della Libia e del suo disgraziato popolo. Mano a mano che le bombe di questo agosto 2016 vengono sganciate, si fanno anche più audaci e chiare le parole degli “impiegati” dell’imperialismo: ha affermato in questi giorni Paolo Scaroni, ex capo dell’ENI e già fortemente attivo in Libia tra tribù e mercenari, ed oggi  vicepresidente della Banca Rothschild : “Occorre capire finalmente che la Libia era un’invenzione del colonialismo italiano, e oggi occorre favorire un governo autonomo in Tripolitania e altri governi autonomi in Cirenaica e in Fezzen, in modo che ogni nuovo paese post- libico possa gestirsi in autonomia il proprio petrolio”. Con le forze neo colonialiste a dirigere, sorvegliare e saccheggiare come ai bei tempi prima di Gheddafi, aggiungiamo noi per completare  il concetto di Scaroni.

Il governo italiano non ha nemmeno aperto un dibattito parlamentare per aderire alla nuova guerra degli USA contro la Libia: è bastata una comunicazione in Commissione Difesa e in Commissione Affari Internazionali. Le basi di Sigonella e di Aviano sono già pronte per far partire i caccia americani. Poi, interverrà anche l’Italia. Per conquistare la sua parte di petrolio. E’ più che mai all’ordine del giorno la necessità di una lotta contro il mondo falso creato dall’imperialismo, per ripristinare la verità nella coscienza di milioni di lavoratori, di giovani, di proletari. La parola d’ordine che il PCI sta disseminando in questi giorni in tutta Italia, è più attuale che mai: “ Fuori l’Italia dalla NATO”. Occorre portarla in tutti i territori, davanti ad ognuna delle 140 basi USA e NATO in Italia, da Vicenza ad Aviano, da Sigonella a Teulada, da Cameri alla Maddalena, senza paura di essere controcorrente, senza  paura di essere pochi. Occorre portarla nelle città e nei paesi, nelle fabbriche e nelle scuole. Per diventare tanti.

 

3 Comments

  1. aldo

    “ Fuori l’Italia dalla NATO” ,bella come parola d’ordine ma è un percorso praticabile che ci puo’ portare a un risultato concreto invischiati come siamo in alleanza,unioni e legami finanziari con l’occidente capital-imperialistico ?
    Se in Italia prevalesse questa opzione finirebbe peggio della Libia per tornare ad essere quella che era nel 1860 perchè il nostro paese non è ancora veramente unito dalle alpi alla Sicilia,covano sotto le ceneri dell’Italia pre unitaria ancora le fiamme secessionistiche da Nord a Sud e se un complotto internazionale si prefigesse questo scopo l’Italia tornerebbe ad essere frammentata in piccoli staterelli dopo,naturalmente,un terribile guerra civile.
    NO, il Partito Comunista Italiano deve essere per principio contro la Nato ma non puo’ essere una battaglia prioritaria.
    Occorre,in primis,riorganizzare il propletariato rivoluzionario oggi scomparso dalla scena politica nazionale,lavorare per un ritorno del benessere omogeneo e diffuso nel Paese,pretendere l’applicazione delle garanzie costituzionali in tutti i settori della vita civile e naturalmente rifiutare la guerra per dirimere i contrasti internazinali.

    C’e’ tanto da lavorare per rigenerare un popolo intorpidito dalle menzogne propinate scientificamente dai “media” e quando i tempi saranno maturi abbattere il sistema capitalistico ed istaurare il socialismo.

    1. Lucia Mango

      LAvorare per unire i lavoratori significa anche non abdicare a raccontare la verità, quella sulla NATO è una parte della verità, non l’unica ma essenziale, che non mette in secondo fila il resto del lavoro da fare.

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