TESI 3

LA CRISI CAPITALISTICA E’ STRUTTURALE, LA SOLUZIONE E’ IL SOCIALISMO

LA CRISI STRUTTURALE DEL MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO

  1. I comunisti considerano “strutturale” la crisi che dal 2007 in poi ha afflitto l’Occidente capitalistico. Beninteso, essa vale per i più e non per i pochissimi che detengono il potere economico: non a caso autorevoli rapporti segnalano che nel mondo “la disuguaglianza nella ricchezza ha continuato ad aumentare dal 2008, con l’1% in cima alla piramide della ricchezza che ora possiede il 50,4% di tutta la ricchezza delle famiglie” (Credit Suisse Global WealthDatabook 2015). In generale, come già riteneva Marx, nel modo di produzione capitalistico le crisi non sono un infortunio ma lo strumento con cui l’economia periodicamente prova a risolvere i propri problemi. Esse sono inevitabili in quanto hanno la loro origine nella contraddizione tra il carattere sociale del lavoro e il carattere privato dell’appropriazione dei prodotti del lavoro: ossia nel fatto che la produzione non è regolata secondo un piano consapevole né finalizzata al soddisfacimento dei bisogni umani, ma soggetta all’“anarchia della produzione” (cioè alla competizione tra i singoli capitalisti) e finalizzata al profitto. Periodicamente si crea sovrapproduzione di capitale e di merci. La sovrapproduzione (o sovraccumulazione) di capitale è un accumulo di capitale che non riesce a valorizzarsi in misura soddisfacente. La sovrapproduzione di merci è un accumulo di merci che non riescono ad essere vendute a un prezzo sufficiente a remunerare il capitale investito per produrle. La sovrapproduzione di merci è aggravata dal fatto che i lavoratori hanno una capacità di spesa limitata: i loro salari non possono salire oltre un certo livello perché altrimenti verrebbero meno i profitti dei capitalisti; e questo limita strutturalmente la capacità di crescita dei consumi. La crisi è il mezzo brutale attraverso cui si ripristinano le condizioni di accumulazione del capitale. Profitto e accumulazione vengono ripristinati per mezzo della distruzione di capitale e di forze produttive: aumento della disoccupazione e quindi abbassamento dei salari, fallimenti e quindi concentrazioni di imprese, deprezzamento di beni capitali, macchinari e materie prime e quindi miglioramento dei margini di profitto per chi li mette in opera.
  1. Una crisi così grave e lunga come quella deflagrata nel 2007 e in cui a tutt’oggi siamo immersi, è non a caso scaturita da un già presente accumulo di capitale in eccesso e di merci invendute (sovrapproduzione). Nel 1980 (secondo un rapporto McKinsey), il valore complessivo dei beni finanziari a livello mondiale era grosso modo equivalente al Pil mondiale; mentre a fine 2007 la proporzione di questi beni rispetto al Pil aveva raggiunto il 356%. La massa di capitale monetario in eccesso era quindi inequivocabilmente presente, quale sintomo del malessere e prossima causa del tracollo finanziario. Analogamente, quest’ultimo si è prodotto in presenza e a seguito di una conclamata sovrapproduzione di merci. A testimonianza di ciò i dati Ocse hanno messo in evidenza, per gli anni precedenti il 2007, il generale rallentamento della produttività del lavoro in Usa, Europa e Giappone, determinato appunto dal fatto che le merci rimaste invendute costringevano a diminuire la produzione e a non utilizzare appieno la capacità produttiva e quindi la manodopera. Nonostante i tentativi mediatici di diffondere fiducia, la dura realtà è che l’economia dei Paesi a capitalismo maturo sarà caratterizzata per molto tempo da bassa crescita, alta disoccupazione e sottoccupazione. La distruzione di capitale necessaria per far ripartire davvero l’accumulazione appare di proporzioni colossali. Il capitalismo di questi anni è insomma ben diverso dal capitalismo trionfante del 1989: di fronte a noi non c’è più il sistema economico vincitore del confronto con l’Urss, ma un sistema in crisi profonda, incapace di dare risposte progressive ai bisogni dell’umanità.

UNA CRISI DI LUNGO PERIODO

  1. La finanza è stata la droga che ha temporaneamente permesso al grande capitale speculativo e ai cosiddetti risparmiatori di non avvertire, per lo meno in prima istanza, i sintomi della crisi, scaricati invece sul lavoro produttivo e sul welfare (emendamento Toscana) posticipandone gli effetti. Negli ultimi due decenni dello scorso secolo – per rispondere ad una persistente e globale crisi di accumulazione – l’Occidente capitalistico ha infilato la via della speculazione finanziaria alla ricerca di un surplus che l’economia reale non garantiva più. Proprio la disponibilità di denaro facile ha avviato negli Usa la corsa all’indebitamento di imprese e famiglie, protrattasi finché il castello di carta (la cosiddetta “economia da casinò”) non è crollato sotto il peso delle sue contraddizioni. Ovviamente le famiglie si indebitano perché non hanno un reddito sufficiente a sopravvivere: è qui, nell’impennarsi della disuguaglianza caratterizzante la società e l’economia reale, che va individuata la contraddizione essenziale. Ed è qui che una società capitalistica non riesce a intervenire per disinnescare il dispositivo che in profondità genera la crisi. Questo intendeva Marx quando scriveva: “La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse, in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive ad un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo della società”.
  1. Nel 2007 il tappo è saltato, e la crisi è esplosa in tutta la sua violenza. E’ la fine di una storia iniziata molti anni prima: quando, all’inizio degli anni Settanta, terminò il grande sviluppo economico del dopoguerra. Negli anni Settanta crescita economica, profitti industriali e investimenti produttivi nei Paesi più industrializzati cominciarono a declinare, e continuarono a farlo nei decenni successivi. Questo perché il saggio di profitto in questi Paesi ha accusato una drastica diminuzione, a conferma di quella che Marx chiamava la legge della “caduta tendenziale del saggio di profitto”. Se esaminiamo i dati economici degli ultimi decenni, questa tendenza è chiaramente riscontrabile: il saggio di profitto è infatti calato in misura significativa in tutti i paesi più industrializzati. E nel periodo che va dal 1973 al 2003, il saggio di crescita del Pil pro capite ha superato di poco la metà del saggio di crescita registrato negli anni 1950-1973.
  1. Annotiamo di passaggio che la parassitaria finanza capitalista entra, apparentemente, in concorrenza con un altro parassita feroce: la finanza mafiosa. Le “regole” del capitalismo sembrano configgere con l’aggressività omicida del sistema di accumulazione mafioso. Essendo la finanza mafiosa un modello economico di sostanziale stagnazione potrebbe apparire in contraddizione con il “totem” dello sviluppo capitalistico. In realtà sono due facce della stessa medaglia: l’una genera l’altra e, nel contempo, l’una alimenta l’altra per nutrirsene. La mafia non è in conflitto con il capitale, ma ha nel capitale la sua ragione sociale. La lotta alla mafia, dunque, non può che essere una lotta anticapitalista: è da tale consapevolezza che ne consegue l’impegno storico dei comunisti nella lotta alla mafia. (Emendamento Sicilia modificato).
  2. In estrema sintesi, nel lungo periodo la crisi nasce a seguito della caduta del saggio di profitto e della finanziarizzazione generale dell’economia; nel 2007 essa scoppia a causa del collasso del modello di consumo degli Stati Uniti basato sull’indebitamento privato, che ha consentito di mantenere temporaneamente consumi elevati nonostante stipendi in calo ormai da decenni. La crisi attuale non è altra cosa rispetto a quella iniziata nel 2007-2008. La crisi è la stessa: semplicemente, non ne siamo mai usciti. Sarebbe stato impossibile pervenire a una tale perspicua spiegazione senza l’apparato concettuale marxiano, di cui i comunisti sono depositari e sulla cui base, a giusto titolo, fondano la prospettiva di un superamento del fallimentare e ingiusto sistema economico vigente. La prospettiva del socialismo.

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