“IL PROCESSO STALIN ”

La ricerca della verità storica e la messa a fuoco delle menzogne di Chruščëv  e dell’occidente nell’ultimo libro di Ruggero Giacomini

di Fosco Giannini

Nel 1897 lo scrittore irlandese Bram Stoker pubblica un romanzo, “Dracula”, dal carattere gotico e romantico, che avrebbe segnato di sé tanta parte della futura letteratura europea e mondiale e tanta parte dell’arte e del cinema, sino ai nostri giorni. Segnando di sé anche il senso comune, la cultura, di centinaia di milioni di uomini e donne, non solo in Europa ma nel mondo. Il grande successo del romanzo convince intere generazioni che Dracula sia stato davvero, storicamente, un vampiro assetato di sangue, un terrificante demone della notte. Ma l’opera di Stoker è di una totale falsità, che attraverso l’immensa popolarità a cui giunge, produce uno dei più grandi inganni di massa che mai la letteratura, l’arte, la filosofia abbiamo prodotto. Il Dracula storico, infatti, quello che tuttora tutti i giovani liceali della Romania studiano, è stato un grande rivoluzionario rumeno, un liberatore dalle qualità intellettuali di un Machiavelli e dalle capacità militari di un Garibaldi, un condottiero che nella seconda  metà del 1.400 caccia gli ottomani invasori liberando e unificando la Romania. E’ difficile capire il motivo per cui Stoker mette in campo una così grande menzogna, peraltro per   lui fruttifera. Un dato può forse aiutarci: Stoker è uno scrittore di lingua inglese, un intellettuale dell’occidente che vede i Carpazi, la terra di Dracula, con lo sguardo dell’imperialista, del colonialista, attraverso il quale i Carpazi son già di per sé la terra dell’orrore e del sangue, l’anti occidente.

Chi scrive è convinto che scientemente, con gli stessi strumenti della menzogna totale ed organizzata, della manipolazione, anche Stalin abbia subito, da parte dell’intero apparato ideologico, culturale, politico dell’occidente (con l’aiuto decisivo di Chruščëv, come vedremo) lo stesso processo di demonizzazione che Dracula subì ad opera di Stoker e della cultura occidentale dominante. Sino al punto che ancora oggi è difficilissimo misurarsi con quel senso comune, disseminato in profondità dal pensiero americano ed europeo, secondo il quale Stalin sarebbe stato quel dittatore sanguinario raccontato dal Rapporto Chruščëv e poi sapientemente divulgato dai mille Stoker al servizio, sin dagli anni ’50, dell’anticomunismo e dall’antisovietismo.

Ora, è lo storico Ruggero Giacomini ad ingaggiare una lotta di controtendenza con   questo pensiero ancora dominante. Lo fa mettendo in campo un’opera ( “Il processo a Stalin”, prefazione di Stefano Azzarà, Castelvecchi editore) segnato da una rara densità intellettuale e storica, dalla ferrea determinazione di misurarsi con tutti gli stereotipi – uno per uno – che hanno prodotto la demonizzazione occidentale di Stalin attraverso l’unica arma possibile contro la “stokerizzazione” della Storia: la totale libertà dal dogma (né “stalinista” né “antistalinista”: uno storico, anche se certo non neutro, vista la sua militanza comunista), l’inesausta e conseguente onestà intellettuale, la faticosissima ricerca della verità nel leggere, liberandoli dalla mito nefasto e pregiudiziale della demonizzazione,  i maggiori passaggi storici che hanno contrassegnato l’esperienza politica ed umana di Stalin e dell’Unione Sovietica.

Ruggero Giacomini, dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici, presidente del Centro culturale marchigiano “La Città futura”, autore di fondamentali studi su Gramsci (è del 2017 l’opera “Gramsci e il giudice”, sempre con Castelvecchi, con prefazione di Domenico Losurdo), sulla Resistenza, sui movimenti per la pace, è stato allievo e collaboratore di uno dei massimi storici italiani, Enzo Santarelli. Ed è dalla lezione di Santarelli che Giacomini ha fatto propria l’onerosissima volontà di leggere la Storia soltanto attraverso il prisma dello studio serrato, della ricerca “ossessiva”, certosina, piena della polvere degli scaffali, della fatica degli archivi, dei viaggi, delle traduzioni, della ricerca delle testimonianze reali, della diffidenza nel leggere e nell’accettare come “ratificata” la Storia scritta dal potere per il potere, giungendo attraverso ciò a trasformarsi in una sorta di detective della verità, uno Sam Spade (l’investigatore dei romanzi di Dashiel Hammet, lo scrittore comunista statunitense perseguitato dal maccartismo) che, come Giacomini, segue ostinatamente la pista del delitto nei gineprai del potere, assicurandosi tutto fuorché il successo economico.

L’opera di Giacomini non è esattamente su Stalin ma, come anticipa il titolo stesso, è sul processo a Stalin, è una dettagliatissima ricerca storica sulle modalità, sulle motivazioni di fondo e su ciò che produsse – in Unione Sovietica, nel movimento comunista internazionale e nell’immaginario collettivo mondiale – il Rapporto segreto di Nikita Chruščëv al XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica del 25 febbraio 1956 (Stalin era morto il 5 marzo del 1953). Un Rapporto, quello di Chruščëv attraverso il quale si passa improvvisamente dalla mitizzazione di Stalin alla sua demonizzazione, una demonizzazione che aprirà la strada a quella, imponente, dell’intero occidente. “Un singolare processo – scrive subito Giacomini – : segreto ma ampiamente pubblicizzato. Senza dibattimento e senza possibilità alcuna di contro-replica e difesa. Chruščëv si assunse contemporaneamente le parti di istruttore, pubblico ministero, testimone d’accusa e giudice… I comunisti di tutto il mondo ne furono disorientati e lacerati e l’anticomunismo, ideologia unificante del capitalismo mondiale, ne fu galvanizzato”. Da quest’affermazione di Giacomini occorre partire per cogliere il nesso forte che si è stabilito in occidente tra la colpevolizzazione totale di Stalin e quella, tout-court, del comunismo: menzogna che crea menzogna, che cresce come una slavina e si abbatte sul senso comune di massa.

Geniale, quanto suggestivo, è l’incipit di Giacomini, che a proposito della “stravaganza” di un processo, quello a Stalin, che si tiene a freddo, tre anni dopo la morte, senza nessuna istruttoria, senza testimoni e senza giudici, rievoca un processo che la Chiesa tenne, nell’anno 897, a Papa Formoso, già sepolto nel recinto del Vaticano. Papa Stefano VI lo fa diseppellire per trascinarlo, cadavere, in tribunale, affinché sia processato e poi condannato, come avvenne, per “usurpazione” e “folle ambizione”.  La Chiesa restituì poi a Papa Formoso la dignità. Godibile è il commento di Giacomini (il quale immette nel suo intero apparato narrativo, già segnato da un’inconsueta, tra gli storici, “leggerezza” e trasparenza semantica, dosi massicce di ironia) che relazionando tra loro i processi su Stalin e su Papa Formoso scrive: “Si è scritto che Formoso era stato condannato dopo morto senza potersi difendere, il che però stando alla cultura della Chiesa è vero solo in parte. In realtà se pure cadaverico aveva potuto presenziare; e teoricamente, se innocente e dotato dei poteri soprannaturali attinenti ai rappresentanti della divinità in terra, avrebbe potuto rianimarsi e interloquire. In parte le forme del giudizio con il diritto concesso alla difesa erano salve. A Stalin, per diversa fede, non fu data neanche questa ipotetica possibilità e le forme del processo furono violate in maniera incontestabile e a nessuno fu consentito di poter intervenire in difesa e ribattere alle tesi dell’accusa. Inoltre, per un tempo assai più lungo di quello di Formoso, a Stalin quel giudizio di condanna è rimasto appiccicato, tanto che molti militanti anche a sinistra tremano e si ritraggono con spavento di fronte alla possibilità stessa che se ne possa discutere”.

Dopo questa formidabile ouverture, Giacomini inizia ad affrontare, uno per uno, lungo 35 capitoli, i punti salienti della requisitoria con la quale Chruščëv inventò, col Rapporto al XX Congresso del PCUS, la nuova figura del Nosferatu sovietico: Stalin. Punti che avrebbero, naturalmente, trovato grande accoglienza in occidente e che qui si sarebbero trasformati in veri e propri pregiudizi dogmatici e antistorici non solo su Stalin ma su tutta l’esperienza dell’Unione Sovietica, sulla stessa Rivoluzione d’Ottobre, su Lenin, sul comunismo. A partire dal Rapporto Chruščëv e attraverso la grancassa occidentale, l’  Fine modulointellighenzia dell’intero mondo capitalista, i suoi media e poi il suo senso comune di massa iniziarono a vedere (e soprattutto far vedere, imponendo uno sguardo) l’URSS e i Paesi dell’Est Europa, i Paesi del socialismo ( seppur imperfetto e molto imperfetto) nello stesso modo con cui Bram Stoker vedeva i Carpazi di Dracula. Piegando la storia agli interessi dell’occidente imperialista e colonialista.

“Il culto della personalità”, il testamento di Lenin, il caso Kirov, la questione dei “nemici del popolo”, i grandi processi, il caso Tuchačevskij, “le minoranze deportate” e tante altre questioni-chiave che Chruščëv, nel Rapporto, trasfigurò storicamente per rovesciarle a favore della propria requisitoria e per la “draculizzazione” di Stalin, vengono affrontate e rilette da Giacomini attraverso l’unica lente che Enzo Santarelli avrebbe consentito: quella dell’onestà intellettuale, del rifiuto cocciuto della “verità” imposta dalla lotta ideologica e politica e, soprattutto, la lente del  terribile lavoro che occorre per diradare le nebbie della disinvolta finzione e ristabilire i fatti concretamente avvenuti, valutandoli nel concreto contesto storico in cui essi prendono forma.

Così ha lavorato Giacomini e l’imponente mole di note a piè di ogni capitolo ( libri consultati, opere storiche rilette, archivi saccheggiati, memorie riascoltate, tutto nelle diverse lingue dei diversi Paesi, materiale spesso tratto dallo stesso occidente ed  dagli stessi archivi sovietici riaperti) sta esattamente a significare che l’Autore, per valutare e poi eventualmente contestare il messaggio, sia diretto che subliminale, del Rapporto del 1956 non intende affatto scendere sullo stesso terreno perverso e propagandistico di Chruščëv, ma al contrario, testardamente, intende riconsegnare verità alla Storia, al di là e ben prima della stessa collocazione ideologica e politica dello storico.

Scrive ad esempio Giacomini, portando testimonianze dallo stesso mondo occidentale: “Lo studioso statunitense Grover Furr, professore alla Montclair State University nel New Jersey, dopo aver condotto un’approfondita ricerca negli archivi ex sovietici ed esaminato meticolosamente le affermazioni di Chruščëv, è giunto alla conclusione sorprendente che non una o poche ma “tutte le “rivelazioni” sui “crimini” di Stalin (e di Berija) nel famigerato Rapporto segreto…sono dimostrabilmente false”.

Fu la ricerca della verità a muovere Chruščëv, secondo la vulgata occidentale? L’immensa mole delle menzogne contenute nel Rapporto segreto e che ora diversi storici, spesso occidentali, stanno mettendo in luce e che Giacomini, nel suo libro, rende risibile, smontando menzogna su menzogna, fa dire allo stesso Autore: “Non fu dunque l’ansia insopprimibile di verità che mosse Chruščëv…Fu un episodio della lotta politica di successione apertasi con la morte di Stalin”.

Ma prosegue Giacomini, mettendo in luce attraverso Roy Medvedev (tutt’altro che uno stalinista) un aspetto pressoché sconosciuto del modo in cui fu organizzata la lettura del Rapporto segreto: “Lo storico e politologo Roy Medvedev, biografo di Chruščëv, rivela un particolare decisivo per capire il senso immediato dell’iniziativa del Rapporto segreto, che generalmente è ignorato. Per accedere alla salaInizio modulo furono stampati e distribuiti “speciali lasciapassare” e furono “invitati un centinaio di ex attivisti del partito recentemente riabilitati e liberati dalla prigionia”. Costoro non erano delegati congressuali, ma erano i primi destinatari del discorso e avrebbero garantito la claque approvativa dell’oratore, mettendolo al riparo da possibili e sgradevoli contestazioni. Il loro elenco, ci dice sempre Medvedev, era stato “esaminato ed approvato personalmente da Chruščëv”.  “Non si trattò dunque – prosegue Giacomini – di una seduta congressuale, al contrario di quanto si ama scrivere e ripetere, ma di una manifestazione inusuale organizzata alla coda del Congresso. E sempre per evitare spiacevoli domande e contestazioni, la seduta fu sciolta subito, senza lasciare spazio ad eventuali domande, repliche, contestazioni. Il giudizio di condanna pronunciato non prevedeva alcuna possibilità di appello. Una nuova verità veniva dunque dogmaticamente imposta. Lo stesso poi nel Paese”.

Dobbiamo lasciare al lettore il gusto intellettuale e politico di assaporare le ricerche e le argomentazioni di Giacomini volte a sciogliere le matasse di menzogne attraverso le quali Chruščëv pose sulle spalle di Stalin tutto l’orrore del mondo, addebitandogli tutti gli errori della storia sovietica, senza riconoscergli il minimo merito, inventandosi persino una sorta di depressione di Stalin, nella prima fase dell’invasione nazista in URSS e cancellando, attraverso la supposta depressione, persino la vittoria sovietica sul nazifascismo, che certamente ebbe in Stalin, come riconosciuto dallo stesso occidente,  uno dei maggiori protagonisti. Peraltro, a proposito della condanna totale di Stalin ad opera di Chruščëv, era stato lo stesso Togliatti ad ammonire che, attribuendo tutte le colpe a Stalin, si cancellava la possibilità di studiare l’esperienza rivoluzionaria sovietica nel suo insieme, nelle sue contraddizioni; si cancellava, cioè, la possibilità stessa di studiare un’esperienza storica così grande al fine, partendo dagli errori, di corroborare e rilanciare il progetto rivoluzionario generale. Ma probabilmente la furia iconoclasta di Chruščëv, al fine di preparare il proprio regno, prevedeva solo il rogo di Stalin, fregandosene del generale futuro rivoluzionario.

Ma, lasciando appunto al lettore il gusto delle grandi “sorprese” che il libro riserva, solo un paio di passaggi vorremmo citare: la questione del culto della personalità, che Chruščëv scaglia come una freccia avvelenata contro Stalin e la questione di Zinov’ev e Kamenev, che Chruščëv assume come emblematica della supposta vocazione alla tirannia e all’assassinio gratuito di Stalin.

Sull’accusa contro Stalin per il culto della personalità Giacomini risponde con un capitolo denso, pieno di argomenti ed esempi che hanno la forza di contestare alla radice quest’accusa contro il leader sovietico, lanciata dal Rapporto e trasformata dall’occidente come cosa assodata, naturaliter per un “dittatore comunista”. Ma Giacomini accusa Chruščëv di non affrontare affatto la questione politico-teorica dell’eventuale e nefasto apparire del culto della personalità nel processo di costruzione del socialismo, poiché è chiaro, scrive lo storico, “come lo scopo di Chruščëv non fosse veramente il ripudio del culto della personalità ma la denigrazione post-mortem di un’unica personalità, quella di Stalin. Nella sua requisitoria Chruščëv respinge insieme il rispetto e l’adulazione per Stalin, sia da vivo che da morto ed evita di approfondire la questione cruciale dei promotori dell’adulazione. Se l’avesse affrontata, peraltro, in testa alle file dei solerti cultori avrebbe dovuto mettere sé stesso. Come ci dice infatti il suo biografo ( Lazar Pistrak, n.d.r.) era stato proprio Chruščëv a riferirsi per primo a Stalin, nel 1932, con la Conferenza del partito di Mosca, dove aveva gridato: “ I bolscevichi di Mosca, radunati attorno al Comitato Centrale leninista come mai prima e intorno al vozd del nostro partito, il compagno Stalin, sorridenti e fiduciosi stanno marciando verso nuove vittorie nelle battaglia per il socialismo, per la rivoluzione proletaria mondiale!”.

Giacomini non nega affatto che sia apparso in URSS il culto della personalità per Stalin, così come era apparso per Lenin. Ciò fa parte della Storia, come afferma l’Autore. Ciò che Giacomini contrasta è l’accusa che Chruščëv lancia a Stalin quale costruttore del proprio culto. In verità, scrive Giacomini, lo stesso carattere personale di Stalin, che certo non era privo di difetti e brutalità, ci dice quanto poteva essere contrario, il capo del partito, al culto della personalità. A questo proposito Giacomini cita un ricordo di Giancarlo Pajetta, confermato nelle memorie di Molotov:  Kaganovic aveva avanzato nell’Ufficio Politico la proposta di adottare la formula “marxismo-leninismo-stalinismo”, al che Stalin aveva reagito duramente e con una frase contadina: “ Non si può paragonare il cazzo con la torre dei pompieri”. E la formula “marxismo-leninismo-stalinismo” non passò mai. Per merito di Stalin, che aveva un’intera schiera di adulatori alla Chruščëv e se il capo avesse voluto la formula sarebbe passata.

Kamevev – Zinov’ev: nello schema di contrapporre Lenin a Stalin -ricorda Giacomini – Chruščëv, nel Rapporto segreto, ricorda il loro caso e afferma “ membri del Comitato centrale del partito bolscevico, si erano opposti, nell’ottobre ’17, alla decisione dell’insurrezione e avevano anche rivelato su di un giornale menscevico il piano della rivoluzione. Era stato un vero e proprio tradimento, eppure dopo la rivoluzione sono stati promossi a posti dirigenti. Mentre nel 1936 saranno processati e condannati da Stalin”. E Chruščëv rammenta ciò in coda al XX Congresso, ancora per “draculizzare” Stalin.

Ma ricorda Giacomini: “Secondo lo storico trockista Deutscher sarebbe stato proprio Stalin ad evitare che i due venissero espulsi dal partito, come con molto vigore chiedeva allora Lenin”. Anche se alla vigilia dell’Ottobre Kamenev era stato allontanato dal Comitato centrale e a lui e a Zinov’ev era stato proibito di fare qualsiasi dichiarazione a nome dei bolscevichi.  Ma i due traditori dell’Ottobre continueranno, impuniti, sino al 1936 (e Lenin, morto nel ’24, non poteva certo saperlo) nella loro politica ferocemente antisovietica, da cui il processo e la condanna. Che Chruščëv attribuisce solamente alla ferocia di Stalin.

In verità è tutta la politica staliniana volta alla repressione della dura e organizzata contestazione interna di carattere trockista (che nell’obiettivo di far saltare lo Stato sovietico e con esso Stalin si allea con la diversificata destra ispirata dalle idee di Bucharin, Kamenev e Zinov’ev) che Chruščëv definisce, nel Rapporto segreto, sanguinaria, nell’obiettivo reiterato e irrazionale di accusare Stalin. Irrazionale, tale accusa di Chruščëv, poiché deliberatamente rimuove, decontestualizzando la repressione staliniana, il fatto che il tentativo, che assume anche gravi forme terroristiche, dell’opposizione trockista e di destra di far saltare lo Stato sovietico prende più corpo attorno al 1936, e cioè nella fase in cui si sta costituendo la tenaglia politico-militare capitalistica contro l’Unione Sovietica e in cui iniziano a porsi le basi del nazismo e della sua guerra contro l’URSS.

Ripetiamo: l’opera di Giacomini, “Il processo a Stalin”, non è il lavoro di uno stalinista volto a scrivere un’apologia del leader sovietico. E’ l’opera di uno storico che mette a fuoco il nesso che si è stabilito, in occidente e anche grazie a Chruščëv, tra la demonizzazione di Stalin e quella del comunismo. E risponde tentando (e riuscendovi) di smascherare le drammatiche menzogne del Rapporto segreto, utilizzato come un cavalo di Troia dall’occidente, dal fronte filo imperialista, reazionario e anticomunista per far passare quell’inesausto esercito di “guardie bianche” sempre schierato contro la liberazione dei popoli e delle classi subordinate.  

Per ultimo: l’Autore dedica il libro “Al ricordo fraterno di Domenico Losurdo”. Anche in ciò ci ritroviamo totalmente nelle idee e nello spirito di Ruggero Giacomini.

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