IMPERIALISMO E “FABBRICA DEL FALSO”

di Bruno Steri, Segreteria Nazionale PCI, responsabile Economia e finanza

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Il Tribunale dell’Aja, la Corte Penale delle Nazioni Unite incaricata di verificare il prodursi di crimini di guerra nel conflitto bosniaco tra il 1992 e il 1994, ha confermato che in merito non sussistono responsabilità addebitabili a Slobodan Milosevic. La notizia è passata nel silenzio dei principali organi di stampa internazionali: poco importa che per anni la grancassa mediatica occidentale abbia scientificamente demonizzato la figura dell’ex presidente jugoslavo, enfatizzando nei suoi confronti l’accusa di genocidio. Oggi quell’accusa è riconosciuta infondata, ma essa è comunque servita a creare il giusto clima per preparare l’opinione pubblica all’aggressione bellica all’ex Jugoslavia, puntualmente concretizzatasi nel 1999, con l’operosa supervisione dell’allora segretaria di Stato Usa Madeleine Albright . Milosevic, già gravemente malato e privato di cure adeguate, è morto in carcere; mentre nessun tribunale internazionale ha ritenuto di chiamare in giudizio quanti decisero di bombardare per un mese di seguito il suo Paese, determinandone lo smembramento e causando migliaia di vittime civili. Oggi le carte processuali ci dicono che fino all’ultimo Milosevic provò a ricercare una soluzione mediata tra le parti in causa, mentre la suddetta segretaria di Stato cavalcò cinicamente la disinformazione di massa così da pervenire all’obiettivo cruento di porre fine a quel che restava della Repubblica jugoslava.

Per guardare a occhi ben aperti il mondo che ci circonda e provare a costruire il nostro futuro , è bene non interrompere mai il filo della memoria. Gli ultimi venticinque anni  –  attacco a Panama (1989), all’Iraq (1991), alla Jugoslavia (1999), all’Afghanistan (2001), ancora all’Iraq (2003), alla Libia (2011) – dimostrano che, a supportare le mire egemoniche dell’Occidente capitalistico, non ha cessato di mantenersi all’opera una poderosa “fabbrica del falso” (per usare una felice espressione di Vladimiro Giacchè). A ciascuno i suoi compiti. La Nato, dismesse le vesti di organizzazione puramente difensiva, ha applicato manu militari i precetti del nuovo “diritto di ingerenza”; l’apparato massmediatico embedded (arruolato) ha fatto la sua parte, sviando e annebbiando cuori e intelligenze; l’establishment  (statunitense e non solo) ha provveduto a praticare sistematicamente la menzogna.  Colin Powell, il successore della Albright nella carica di segretario di Stato sotto la presidenza di G.W. Bush, è passato alla storia per la performance del 5 febbraio 2003 davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, quando, agitando quella che dichiarò essere una fialetta di antrace, caldeggiò l’intervento bellico ai danni dell’Iraq di Saddam Hussein, accusato di possedere armi all’antrace e al gas nervino: una teatrale bufala, che tuttavia contribuì a causare mezzo milione di vittime civili irachene, secondo la “prudente stima” di uno studio congiunto dell’università di Washington e del Ministero della Salute iracheno. Un genocidio restato impunito, questo sì reale e non inventato.

A quanto pare, purtroppo gli autori di quest’orrore – e l’opera della “fabbrica del falso” ad esso congiunta – continuano a lavorare alacremente per mantenere il proprio dominio su un mondo unipolare. Hillary Clinton, l’attuale segretaria di Stato statunitense, parafrasando il “veni, vidi, vici” di Giulio Cesare, davanti al corpo ancora caldo di Muhammar Gheddafi  dichiarava trionfante, all’indomani dell’attacco alla Libia del 2011:  “We came, we saw, he died” (“Venni, vidi ed egli è morto”). L’autrice di siffatta macabra dichiarazione è la stessa che, davanti al Senato del suo Paese, ha ricordato che i mujaidin prima e Al Qaida poi sono creature dell’intelligence Usa. Oggi non si fa più mistero del fatto che quanti in Occidente piangono le vittime degli attentati terroristici e organizzano coalizioni e interventi bellici contro lo Stato Islamico sono gli stessi che dichiarano ufficialmente di essere stati  i creatori del mostro.  Già nel 2011 Gianandrea Gaiani, un giornalista “al di sopra di ogni sospetto” (direttore di Analisi Difesa, collaboratore de Il Sole 24 Ore e opinionista del Giornale Radio Rai e di Radio Capital) così si esprimeva su Panorama: “ (…)Li abbiamo combattuti per dieci anni in Iraq e in Afghanistan, ma da un anno a questa parte gli estremisti islamici sembrano diventati i nostri migliori alleati. In Libia la Nato ha combattuto al loro fianco insieme all’esercito del Qatar portando nell’ex regno di Gheddafi la sharia e mettendo la città di Tripoli nelle mani di un ex prigioniero delle carceri segrete della Cia, Abdehakim Belhaj, già legato al regime talebano afghano e fondatore del Gruppo Combattente islamico Libico affiliato a Al Qaeda. (…) La crisi siriana vede replicarsi le alleanze e gli schemi propagandistici della guerra libica (…)”.

In questo caldo agosto 2016, ci risiamo: la macchina da guerra dell’imperialismo – con i comprimari (Italia e Gran Bretagna) al seguito dei primi attori (gli Usa) – torna in azione, intervenendo militarmente su un Paese – la Libia – già devastato dal precedente intervento del 2011. Più che il contrasto allo Stato islamico, ciò ha a che vedere con il controllo di un territorio, oggi smembrato ma ricco di risorse (petrolio, gas, acqua). Se davvero si volesse combattere il terrorismo dell’Isis, ottenendo risultati pressoché immediati, basterebbe:  vietare l’esportazione di armi ai Paesi che supportano il terrorismo; sanzionare i Paesi che direttamente forniscono armi, equipaggiamento, risorse all’Isis (vedi Arabia Saudita e Qatar); sanzionare i Paesi le cui banche fanno passare i flussi di finanziamento all’Isis; sanzionare i Paesi che acquistano petrolio, ma anche beni archeologici, dallo Stato islamico. La risposta al perché tutto questo non si faccia è assai semplice:  coloro che prendono l’ennesima iniziativa bellica sono i registi del teatro dell’orrore che abbiamo sin qui descritto. Su questo non è tempo di tergiversare, occorrono prese di posizione chiare e nette.

Ai tempi del vecchio Pci, una canzone popolare recitava: “Buttiamo a mare le basi americane/smettiamo di fare da spalla agli assassini”. Oggi, nelle Tesi del neonato Partito Comunista Italiano, leggiamo: Tesi 5, No alla guerra, No alla Nato. Non è un caso che siamo noi comunisti a riproporre come prioritario tale tema: abbiamo infatti l’ambizione di vedere più lontano di altri. E quel che vediamo ci preoccupa. Non c’è soltanto l’intento etico-politico di interrompere la catena di crimini contro l’umanità di cui la Nato si è macchiata in questi ultimi decenni (e questo già non è poco). C’è anche l’urgenza determinata in questa fase politica dal salto di qualità compiuto dall’aggressività imperialista sulla scena internazionale. Le cronache raccontano che il presidente Barack Obama (supportato da papa Francesco) abbia resistito alle pressioni di quanti suggerivano un intervento diretto degli Stati Uniti in Siria. Si dice anche che la candidata alla presidenza Usa Hillary Clinton sia “più coraggiosa” di Obama. Si tratta di un “coraggio” che va in rotta di collisione con la pace nel mondo. Appunto, non è più tempo di tergiversare.

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