Libia, la vita rubata dei migranti

di Manuela Palermi, Presidente Comitato Centrale PCI

Accatastati sui camion, uno addosso all’altro, oppure incolonnati in lunghi cortei, storditi dal caldo e dal vento sabbioso del deserto, i migranti attraversano le rotte transahariane, quelle delle carovane beduine e tuareg. Migliaia e migliaia di uomini, donne e bambini in un viaggio che in media dura una decina di giorni. Non tutti sono africani, ci sono siriani, iracheni, afgani. Se vengono dalla Somalia il tragitto in linea retta è di quasi 4.500 chilometri e costa tra i 1500 e i 7000 dollari. Fuggono dalle guerre, dalla fame, dalla povertà, dalla disoccupazione, dall’Ebola, dall’Aids, dalle lotte tra i clan e, in questi ultimi anni, dal gruppo integralista Boko Haram.

Arrivano nei porti libici e aspettano in campi improvvisati, ammucchiati uno accanto all’altro, di salire sui gommoni che li porteranno in Italia.

Da quando è iniziata la crisi migratoria, il Mediterraneo s’è riempito di 30mila cadaveri. Ma ce ne sono molti altri che nessuno ha mai trovato e molti altri che vengono nascosti. Quanti ne muoiano nel lungo viaggio che li porta alla costa libica resta un mistero.

Per quanti accordi si facciano, per quanto governo italiano e Unione Europea mostrino i muscoli, il flusso non accenna a diminuire, anzi. Il periodo peggiore del viaggio non è la traversata del Mediterraneo. Il periodo peggiore è stare in Libia, dove il numero dei trafficanti cresce a vista d’occhio, tutti a caccia di migranti per poi venderseli tra loro. Li sottopongono ad umiliazioni di ogni tipo, le donne sono costrette a prostituirsi, i bambini vengono spesso venduti alle milizie. I trafficanti privano i migranti di ogni avere, gli tolgono soldi e beni. Poi, prima di lasciarli sulle coste libiche, li costringono a prendere lassativi per fargli espellere qualsiasi valore abbiano nascosto in corpo. Restano senza un dollaro. Devono lavorare settimane o mesi come schiavi prima di rifarsi i quattrini per il viaggio in mare. A volte restano nei campi – dove subiscono torture, esecuzioni, estorsioni – anche più di un anno. “Campi di concentramento” li definisce l’ambasciata tedesca in Niger.

Infine arriva l’ora di partire per l’Italia. La permanenza nel campo termina all’improvviso, di notte. Abbandonate in fretta le baracche, vengono portati sulla costa, fatti salire sul gommoni e tenuti in piedi, ammassati uno contro l’altro, per farcene entrare quanti più possibile. Dopo qualche ora, all’improvviso, nel buio della notte, si vedono luci lontane. E’ l’Italia. Qualcuno festeggia, salta, il gommone ondeggia paurosamente. Non è l’Italia, sono le luci delle piattaforme petrolifere in mezzo al mare. Il viaggio continua.

Alle loro spalle la Libia si allontana. Uno stato fallito, distrutto. Tre governi rivali, centinaia di milizie che oggi si vendono ad uno e domani all’altro, nessuno che sia in grado di controllare il traffico di persone. Ministri e funzionari dei governi collusi con le bande di trafficanti, quelle che operano nei porti di Misurata, Sirte, al Juma, Bengasi, Zouara.

Da quando il 20 marzo 2016 è entrato in vigore l’accordo tra Turchia e Ue, la Libia è praticamente l’unico modo per arrivare in Europa. Il governo italiano aspetta preoccupato l’estate, quando l’arrivo dei profughi aumenterà. L’anno scorso ne sono arrivati quasi 200 mila. Il numero di quelli che sono ammassati nei campi libici è un milione e mezzo.

Come è potuto succedere tutto questo?

Perché popoli interi fuggono dal loro Paese, dalle loro famiglie, dalle loro abitudini, sapendo che il viaggio sarà pieno di pericoli e disperazione, che il rischio della morte è concreto? Parlare della crisi migratoria come di un fenomeno che va fermato senza chiedersi perché accade, non solo è troppo facile, ma soprattutto è bugiardo. Esistono responsabilità gravi e concrete, situazioni estreme che chiamano in causa l’Occidente. Non rimuoverle, guardarle in faccia con rigore, può forse darci il diritto (che oggi non abbiamo) di discutere ed affrontare con serietà la crisi migratoria.

In Africa si concentra circa l’81% delle riserve di cromo, più del 50% dei giacimenti di cobalto, il 52% delle riserve di manganese e il 13% di quelle di titanio. Poi ci sono le miniere d’oro e diamanti, c’è la selvicoltura, le falde acquifere. E l’enorme varietà di specie animali e vegetali da cui dipendono le multinazionali farmaceutiche.

Secondo i dati di “BP Statistical Review of World Energy 2016”, la Libia possiede 48.400 barili di riserva di petrolio, il 2,8% del totale mondiale. E’ il Paese che ha le maggiori riserve di tutta l’Africa. Tra il 2005 e il 2008 ha mantenuto una certa stabilità di produzione, attorno ai 1.800 barili al giorno, poco rispetto alla produzione a pieno regime di 2.500. Nel 2011 la produzione è scesa a 479 barili al giorno. Nel 2015 è arrivata al punto più basso: 432.

Altra ricchezza è il gas (0,8% del totale mondiale). Dal 2005 al 2011 la produzione è andata sistematicamente crescendo. Dopo il 2011, dopo la guerra, è arrivata a meno della metà.

L’80% delle riserve di petrolio e di gas si trova nel bacino della Sirte, il vero motore economico della Libia. Ovvio che siano in molti a volere il controllo della zona. Il problema è che mentre il governo di Tobruk (est) e quello di Tripoli (ovest) si scontravano, entrava in scena un altro protagonista, le milizie yihadiste (poi aderenti a Daesh) che prendevano il controllo di diversi pozzi e raffinerie.

Durante il suo governo, Gheddafi aprì rapporti d’affari e fece accordi con numerose multinazionali. L’industria petrolifera e del gas ebbe un notevole sviluppo. I problemi nacquero sull’estrazione e sulla produzione. L’infrastruttura libica era arretrata e le multinazionali investirono migliaia di milioni di dollari. A quel punto il governo libico decise che i contratti andavano rinegoziati. Troppi vantaggi per le imprese, troppi pochi per la Libia. Le multinazionali videro in pericolo i propri profitti e lo scontro con Gheddafi fu frontale.

Ma questo fu solo l’ultimo problema in ordine temporale per le forze capitalistiche occidentali. Il fatto è che troppo a lungo – agli occhi degli Usa – Gheddafi aveva lavorato per “un’Africa indipendente e autonoma”. Assieme a Mandela aveva tratteggiato concretamente l’avvenire di un’Africa unica e unita, indipendente dal potere economico, politico e militare dell’imperialismo Usa e del capitalismo neocolonialista europeo e dell’UE. Aveva proposto a Mandela, e a chi era d’accordo col sogno panafricano, di mettere a disposizione l’immensa ricchezza libica rappresentata dai fondi sovrani (provenienti dalla nazionalizzazione del petrolio) per creare una Banca e una moneta africane, obiettivi insopportabili per le forze imperialiste occidentali e per la moneta dominante in Africa: il dollaro. Petrolio, fondi sovrani, acqua (grande ricchezza della Libia), il progetto politico rivoluzionario di un’Africa indipendente: questi i motivi della guerra scatenata contro la Libia che ha portato agli attuali orrori: alla fuga biblica e dolorosissima di un intero popolo di migranti che, gettati nella disperazione dalle bombe degli occidentali, ora debbono temere anche il loro razzismo.

Nulla e nessuno potrà mai giustificare l’operazione con cui la Nato, con l’avallo delle Nazioni Unite, ha annientato il paese africano che aveva il più alto standard di vita. Una barbarie che ha portato all’organizzazione delle bande armate, quasi tutte finanziate dalle stesse potenze che avevano sostenuto le Primavere Arabe: Usa, Regno Unito, Francia affiancate dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi e dal Qatar. E’ da lì, dalla guerra dell’occidente, che inizia la deriva verso la situazione attuale. Da febbraio 2011 ad oggi il Paese è nel caos. Il territorio è diviso in tre, ognuno con il proprio governo. Ma in ogni regione, in ogni località, in ogni villaggio e quartiere chi veramente esercita il comando e il controllo sono le milizie armate. Oggi l’economia del paese è ridotta ad una terza parte di quel che era prima della guerra. Dopo il 2011 è scoppiata la lotta tra bande armate, è arrivato il caos, la devastazione, i miliziani fanatici e i banditi armati che si appropriano di tutto. La Libia s’è trasformata in un incubo in cui i sequestri, i centri clandestini di tortura, gli assassinii, gli stupri si sono impadroniti della vita quotidiana. E’ da questo inferno che scappano i migranti. Uomini, donne e bambini a cui la guerra e l’imperialismo hanno rubato la vita.

 

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