MARCHE – Fermo: Il fardello dell’uomo bianco.

di Giorgio Raccichini – coordinamento regionale della Marche

Alla fine l’uomo bianco – secondo buona parte dell’opinione pubblica – ne esce “pulito”, anzi la sua figura appare per giunta eroicamente trasfigurata: costretto a sopportare il “fardello” di un omicidio innescato dalla “follia” di un “selvaggio” che in maniera del tutto irrazionale non ha accettato supinamente – come si conviene ad un sottomesso – che sua moglie fosse chiamata “scimmia”, il civile uomo bianco ha contribuito alla difesa della dolce e civile terra fermana dall’invasione di un’orda di demoni clandestini. Il nigeriano, morendo, è doppiamente colpevole: non solo ha dimenticato i modi mansueti che si convengono alle nature nate per la sottomissione, ma ha addirittura messo in gravi difficoltà il rappresentante della superiore civiltà italica ed europea. Per giunta, come risplende la grandezza morale di costui in confronto alla propensione alla menzogna della donna nera?  Tutto è ormai chiaro. Solo i “professionisti” nostrani dell’antirazzismo – imbroglioni e truffaldini – cercano di intorbidire le acque cristalline della Verità.

Coloro che in questi giorni si sono arrovellati intorno alle dinamiche dell’omicidio, come se si trovassero ad assistere ad un telefilm o ad un programma poliziesco, possono gridare vittoria o al contrario naufragare nello sconforto, a seconda che le ricostruzioni diano o meno loro ragione. Tutti siamo diventati inquirenti, tutti giudici ed avvocati.

Passa in secondo piano l’aspetto oggettivo e certo di tutta la vicenda: l’origine razzista della tragedia. Tutto comincia con un’aggressione verbale intollerabilmente razzista. Nel Fermano  – ora sappiamo – si possono incontrare persone che se ne vanno in giro ad offendere coloro che sono ritenuti “diversi” e colpevoli pertanto di ogni male sociale. Questi cavalieri dell’idiozia innescano scintille che prima o poi troveranno il materiale che prenderà fuoco. Le necessarie ricostruzioni giudiziarie potranno solo indicare la maggiore o minore colpevolezza penale dell’omicida; tuttavia non è lecito, anzi è truffaldino, mettere in secondo piano le responsabilità morali e direi politiche del fatto.

Queste responsabilità morali e politiche non sono certamente solo dell’assassino; in primo luogo vanno addebitate a quelle forze sociali e politiche che fanno le proprie fortune alimentando una vergognosa “guerra tra poveri”, che instillano l’odio contro i migranti additandoli come i colpevoli della crisi, della disoccupazione, della povertà e delle difficoltà economiche. Lo fanno per ottenere facili consensi in un tessuto socio-economico ormai degradato e/o per disviare l’attenzione dai veri responsabili della disoccupazione e della riduzione dei diritti e della qualità della vita delle masse lavoratrici, cioè i grandi gruppi industriali e finanziari e i loro referenti politici. Da sempre i movimenti razzisti e xenofobi sono utili servi di gruppi ristretti che esercitano il potere a loro esclusivo interesse.

Certo, ci sono anche responsabilità morali e politiche sul fronte dei “campioni” dell’accoglienza e mi riferisco a tutti coloro che, invece di opporsi fortemente alle guerre e alle destabilizzazioni politico-militari decise dalla NATO (come in Siria e in Libia), le hanno sostenute parlando di “difesa dei diritti umani” e addirittura di “rivoluzioni”, espressioni accettabili solo da chi sa di ingannare le persone o che ha ormai perso qualsiasi capacità di leggere i grandi fenomeni internazionali. A questi si potrebbe attagliare bene la seguente affermazione: “Amiamo talmente gli immigrati che li spingiamo ad emigrare”. Se poi ci sono organizzazioni che lucrano sui migranti, ciò non è in nessun modo addebitabile a questi, ma alla logica capitalistica del massimo profitto che spinge a guadagnare anche sulla pelle di chi soffre.

Qualcuno – e mi riferisco in particolare a qualche politicante locale – dice di voler fermare i flussi migratori, ma non dice come. Non lo sa o non può dirlo. Ci vorrebbe un cambiamento radicale dei rapporti internazionali, per cui alle logiche della spartizione delle risorse e dei mercati e del controllo quasi monopolistico di alcuni Paesi sulle conoscenze scientifiche e tecnologiche, si sostituiscano forme di reale cooperazione fondate su una gestione democratica delle risorse e su un’altrettanto democratica diffusione delle conoscenze scientifiche e delle tecnologie. Si dirà: facile a dire, difficile a farsi. Oppure qualcuno storcerà il naso di fronte al puzzo di socialismo che emana da una tale impostazione.

Giorgio Raccichini

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