Morire di lavoro.

di Giorgio Langella, Direzione nazionale PCI

Tree giorni fa sono morti tre operai in un gravissimo incidente sul lavoro alla Lamina di Milano. Degli altri lavoratori rimasti coinvolti, uno è morto questa mattina.

Questa tragedia del lavoro ha avuto risalto sugli organi di informazione nazionali e no. Giusto! Subito sono state riportate le condoglianze di chi occupa i più alti incarichi istituzionali. Tutti a commuoversi, a battersi il petto, a giurare e spergiurare che bisognerà pur fare qualcosa, a dichiarare che non si può morire così. Che bisogna investire nella sicurezza, educare …

Già oggi tutto o quasi è tornato al silenzio. A quel colpevole torpore che nasconde le cosiddette “morti bianche” (un modo “elegante” e “asettico” per definire quelli che sono troppo spesso e troppo simili a omicidi). Tutto torna in quella normalità che vuole queste morti derubricate a fatalità, a una sorte malevola che non ha nessun responsabile. Che succedono perché “è così”, perché “è sempre successo”, perché “è normale” considerare il lavoro sempre e comunque “pericoloso”.

Quattro lavoratori morti in un solo incidente è qualcosa che, comunque, fa notizia. E bisogna scrivere qualcosa.

Ma si sappia che ci sono decine di lavoratrici e lavoratori che muoiono ogni mese a causa di infortuni nei luoghi di lavoro. Sono già oltre 30 da inizio anno. E sono persone senza nome né volto. Persone, sì, che muoiono da sole, per le quali chi “occupa” le istituzioni non versa neanche una lacrima, non pronuncia nessuna frase, neppure quelle di circostanza che hanno detto qualche giorno fa per i tre operai morti a Milano.

E questo è sconvolgente. Intollerabile che sempre e comunque si muoia per lavoro e di lavoro. Intollerabile che non si faccia poco o nulla. Intollerabile che, passate qualche ora dal fatto, tutto ritorni come prima. Intollerabile che il lavoro sia diventato una condanna. Intollerabile che la sicurezza sia considerata un costo. Che la stessa vita umana sia, per “lorpadroni”, un costo. Intollerabile che siano il “mercato” e il “profitto” a dettare le regole della vita di ognuno di noi.

Intollerabile, infine, che il solo obiettivo che ci vogliono costringere a perseguire sia quello del “dio mercato” e del profitto ad ogni costo.

Ricominciamo a pensare.

Il lavoro non può essere una condanna. E neppure un fine (e, per molti, la fine della vita). Il lavoro è un diritto. Il primo diritto costituzionale. Uno strumento che permetta la crescita personale di ognuno e collettiva di un popolo. Il lavoro non può né deve essere mai schiavitù né sfruttamento.

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