Mug – Un’altra vita Uno sguardo ironico sulla Polonia bigotta

di Laura Baldelli

Il titolo originale del film polacco è “Twarz” (faccia), regia di Malgorzata Szumowska, sceneggiatrice, produttrice e direttore della fotografia è Michal Englert che ha anche collaborato all’ideazione del film. L’opera, presentata alla 68esima Berlinale, è interessante sia sul piano dei contenuti, che della narrazione per immagini, muovendosi tra la commedia fantastica e il dramma commovente, sempre attraversati da una sagace ironia.

E’ la storia di Jacek, un bel giovane operaio, appassionato di heavy metal, vuole sposare la sua fidanzata e sogna di andare in Inghilterra, ma un incidente sul lavoro gli distrugge il viso, così sarà il primo polacco a sottoporsi ad un trapianto di volto; all’inizio diventa oggetto di curiosità dei media, con un’improvvisa ed inaspettata notorietà, poi scoprirà che dovrà continuare a curarsi a proprie spese e subirà il rifiuto della sua comunità, della famiglia, della fidanzata che non accettano il suo nuovo volto. Una contraddizione, visto che tutta l’abitudinaria comunità rurale, ruota intorno alla chiesa, ma è una religiosità preoccupata di rispettare una liturgia formale e morbosa e connivente con il potere. Infatti Jacekmoperaio nel cantiere per la costruzione del Cristo più alto del mondo, più del Cristo Redentore di Rio de Janeiro, non verrà reintegrato al lavoro. La statua esiste veramente a Swiebodzin ed una vera vicenda ha ispirato la Szumowska.

Interessante e determinante nella narrazione del film è la fotografia, che ci regala panorami di un paese ancora incontaminato paesaggisticamente e anche inquadrature con punti di vista originali ed ironici. Inoltre l’immagine, come scelta stilistica, non è mai totalmente a fuoco, utilizzando in molte inquadrature la tecnica della messa a fuoco selettiva, che seleziona soltanto una porzione d’immagine, mentre il resto è volutamente sfuocato nel lavoro della post produzione.

Sembrerebbe che regista e direttore della fotografia vogliano indirizzarci obbligatoriamente verso una precisa immagine, ma accade anche il contrario e cioè che lo spettatore si focalizzi su quello che non si vede bene. E’ un continuo interrogarsi dello spettatore su cosa stiamo vedendo, su cosa attiri la propria attenzione. La regista in un’intervista  ha dichiarato che la tecnica  della messa a fuoco selettiva è la metafora per raccontare i limiti dell’occhio umano, di come si modifichi la percezione e l’atteggiamento davanti al cambiamento e soprattutto verso ciò che non si conosce, “un mondo fuori fuoco”. Jacek è deformato, non è più riconosciuto da nessuno, neanche da sua madre, perde ciò che ha di più caro e la propria identità sociale e così il mondo intorno è sfocato. La regista racconta una Polonia come un micro-mondo, dove il cattolicesimo è pervasivo, abitudinario e chiuso, lo fa con un rispetto agnostico velato di umorismo e tutto sembra ruotare ironicamente intorno alla statua del Cristo. Della passata società socialista non ne è rimasta traccia.

Jachek verrà anche sottoposto ad un ridicolo esorcismo, voluto dalla madre, perché quella religiosità ingloba e regola anche le relazioni familiari e sociali.

La cineasta al suo settimo lungometraggio, non è nuova al delicato rapporto che lega il corpo umano allo spirito, lo ha fatto nel film “Corpi” e lo ripropone in “Mug” ed anche nella scena iniziale che sembra avulsa dal resto della vicenda, quando compare nella discalia “nowhere”, cioè “da nessuna parte”, per annunciare un evento surreale dove centinaia di persone di tutte le età potranno portarsi a casa da un centro commerciale, appunto un “non luogo”, i prodotti tecnologici di cui riusciranno ad impadronirsi, purché che lo facciano in biancheria intima. Sarà un groviglio di corpi di tutte le età e forme. Un’immagine visionaria del consumismo e dell’odierno scollamento della società polacca, divisa tra tradizionalismo cattolico, bigotto e superstizioso e neoliberismo. La Szumowska affronta temi complessi della contemporaneità con originalità, ha definito il suo film “una fiaba per adulti”, eppure è un racconto sociologico pieno di poesia.

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