Per un’analisi marxiana dei social network e della modernità digitale

Riprendiamo dal sito della FGCI (www.fgci.info) un interessante contributo del Compagno Massimiliano Romanello, FGCI Roma

TEORIA MARXIANA DEL VALORE, PROGRESSO TECNICO E SOCIAL NETWORK

La riflessione che segue trae spunto da una breve intervista (due minuti) al professor Peter Lunenfeld andata in onda su Sky TG24. L’intervento, qui riportato in video, si divide in due parti, ad avviso di chi scrive, strettamente legate: nella prima viene affrontata la questione della cessione di dati personali a piattaforme come Google o Facebook, nella seconda si ipotizza una eventuale partecipazione degli utenti ai profitti che tali multinazionali producono per mezzo della trattazione di dati.

https://www.facebook.com/SkyTG24/videos/1663216180418662/

La Storia umana ha assistito al susseguirsi, nel corso dei secoli, di diversi sistemi economici, riflesso della divisione della società in classi sociali in perenne lotta fra di loro. Tali sistemi sono fondati, di volta in volta, su peculiari rapporti di produzione che, attualmente, all’interno del capitalismo, si concretizzano nella proprietà privata dei mezzi di produzione e nel lavoro salariato.
Il sistema capitalistico propone, nella sua essenzialità, la produzione e lo scambio di merce. A partire dalla materia prima, attraverso diversi cicli, si ottiene il prodotto finito che viene immesso nel mercato. Durante il processo di trasformazione, la merce acquista un valore, il quale è fornito da molteplici fattori, tra cui si annovera il lavoro umano. Il lavoro si presenta sotto forma di forza-lavoro, che è di fatto una merce: viene infatti acquistata dal capitalista, detentore dei mezzi di produzione, ovvero dei mezzi che consentono alla forza-lavoro di essere impiegata, viene utilizzata per un periodo di tempo ben determinato per poi essere pagata all’operaio alla fine della prestazione lavorativa, ad intervalli di tempo regolari, sotto forma di salario.
Da dove nasce il profitto del capitalista? Deriva dal fatto che, mentre egli è proprietario dei mezzi di produzione, dispone quindi dei mezzi del lavoro, il lavoratore salariato possiede solo la propria forza-lavoro, che è necessaria nella fase di trasformazione dei beni. Quest’ultimo compie un pluslavoro  che, cristallizzato nella merce, diviene plusvalore, valore non riconosciutogli nel salario, di cui si appropria interamente il capitalista.
L’insanabile contraddizione di tale sistema è che mentre il lavoro e la produzione hanno carattere sociale, il profitto, ovvero l’appropriazione dei frutti del lavoro, è privato.

Riassumendo quanto fin qui detto, si comprende che il lavoro richiede un investimento di tempo e produce valore, che finisce in parte nel salario, in parte nelle tasche di un privato.
Chiudiamo la parentesi storica e passiamo al presente. Il sistema economico capitalista, così come la classe sociale che lo domina, dimostra una incredibile adattabilità e capacità di evolvere. Se tra il XIX e il XX secolo l’accumulo di ricchezza era essenzialmente imputabile al settore industriale, quindi alla produzione e allo scambio di beni destinati al consumo, attualmente il settore dominante è quello dei servizi. E nell’era digitale, nell’era di internet, si sono affermate delle imprese che erogano servizi puramente virtuali.
Caro lettore, ti sei mai chiesto come producono ricchezza i social network? Per quale ragione ti permettono di utilizzare gratuitamente le loro utilissime piattaforme, ormai indispensabili alla vita di ogni giorno? Perché tu sei, allo stesso tempo, produttore e prodotto.

“La risposta alla domanda “come guadagna Facebook?” è molto più semplice di quello che credi. Anzi, la risposta sei proprio tu. Siamo tutti noi che ci registriamo al social network di Mark Zuckerberg immettendo i nostri dati personali e facciamo click sul pulsante Mi piace in tutte le pagine dedicate ai prodotti di nostro gradimento.

In questo modo, si viene a creare un quadro completo con età, hobby e gusti di ciascun utente che consente a Facebook di vendere spazi pubblicitari (quelli che vedi sulla destra di ogni pagina) ad aziende di vario genere, che in questo modo possono essere sicure di comunicare solo al pubblico a cui sono interessate.” [1]

In pratica siamo tutti trattati come consumatori. Interagendo con il virtuale che ci circonda, per mezzo di ogni nostra azione rilasciamo dati personali che vengono puntualmente raccolti, classificati, integrati in algoritmi ben celati, con il fine di farci acquistare prodotti venduti da terzi.
Quindi sono attualmente i dati personali a costituire la primaria fonte di valore e ricchezza. Occorre interrogarsi circa la loro origine. Naturalmente provengono da noi, da chi quotidianamente naviga, scrive, pubblica e mette a disposizione di tutti le proprie esperienze di vita. Provengono da un continuo lavoro di collezione di emozioni, pensieri, sensazioni e stati d’animo che, immessi volontariamente in un mondo virtuale, divengono pubblici, accessibili alla comunità e immediatamente pronti a tradursi in profitto.
Mentre scorrere la Home di Facebook è per noi quasi un fatto passivo, da svolgere nei momenti di noia, distrazione e pausa, l’azienda californiana ha trovato un perfetto sistema di monetizzare il nostro tempo libero.
Condividere la propria sfera privata è, al giorni d’oggi, prassi consolidata. Vedere gente connessa su Facebook a pranzo, a cena, in palestra, nei momenti trascorsi in famiglia e con gli amici è divenuta ormai la normalità. Sembra quasi di essere spinti da una pulsione naturale a pubblicare in rete ampi scorci della nostra vita. Ma tali atti non restano vuoti e innocui: hanno una precisa finalità, che ci è celata. Condividere informazioni infatti, esattamente come un lavoro, produce valore. Più aumenta la nostra dipendenza da tale sistema, più aumenta il profitto altrui. Non a caso Facebook cerca costantemente nuovi modi per tenerci incollati allo schermo.
Occorre sottolineare che non tutto il valore da noi prodotto è tramutato in profitto. Ma la sostanza del discorso resta invariata poiché, tolta la parte di cui usufruiamo, che ci è data dal servizio offerto, il fenomeno dei social è perfettamente inquadrabile nella teoria del plusvalore, esattamente come accade per l’operaio che riceve un salario o per lo schiavo al quale viene garantita la sussistenza esclusivamente per poter continuare a lavorare.
Da una semplice lettura della realtà si comprende che i social network detengono poi l’egemonia culturale. Vengono usati da politici, uomini di spettacolo, quotidiani, aziende e organizzatori di eventi. Costituiscono il baricentro attorno a cui ruota la civiltà occidentale. I social network hanno in ciò il loro modo di perpetuarsi, ovvero sono stati in grado di “imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo” [2].

Molte cose sono cambiate dall’Ottocento ad oggi, fuorché i rapporti di produzione, rimasti essenzialmente invariati. Il capitalismo del XXI secolo presenta infatti la medesima contraddizione, dal momento che il lavoro continua ad essere sociale, mentre il profitto resta privato.
All’interno del dibattito pubblico si sente parlare di tutto. C’è una narrazione progressista, costante e di continua esaltazione della grandezza e delle meraviglie portate dai social, spesso accompagnata da ammirazione nei confronti dei loro profitti record.  Dal momento che sono riusciti a collegare ogni angolo del mondo, sono divenuti l’emblema, in questa società ideologicamente fondata sul cosmopolitismo, del più aperto progressismo. Non manca poi chi accusa i social di essere il male assoluto, responsabili del dilagare di razzismo e omofobia e di aspetti altrettanto spiacevoli, come la disinformazione ormai endemica. Non si parla mai invece di tale meccanismo di appropriazione del lavoro delle masse.
Sia chiaro: il problema non è la piattaforma, il social network su cui si opera, ma la gestione capitalista della società.
È un discorso che si innesta direttamente nel tema del ruolo che il progresso tecnico ha all’interno della società. Le domande che possiamo porci sono varie e offrono tante possibili risposte.
Il progresso tecnico è un bene? La sua esasperazione è forse un male? E fin dove è lecito spingersi per compiacere le possibilità offerte dalla tecnica smisurata?
Molto spesso i progressi tecnici sono stati accolti da diffidenza o perfino da aperta ostilità. Il capitalismo, che tende per sua natura alla meccanizzazione e all’automazione del lavoro, ha prodotto nella storia profonde crisi sociali. Gli operai del XVIII e del XIX secolo impararono presto ad associare la presenza delle macchine a licenziamenti, aumenti dei ritmi di lavoro e diminuzione dei salari in rapporto al tempo di lavoro stesso. E la loro reazione fu in un primo momento il Luddismo, cioè la distruzione delle macchine.
Come scrive Karl Marx, nel Capitale:

“Ci vuole tempo ed esperienza, prima che gli operai imparino a distinguere fra la macchina ed il suo impiego capitalista, e dirigano i loro attacchi non contro il mezzo materiale di produzione ma contro il suo modo sociale di sfruttamento.” [3]

La macchina è infatti neutra, sono i rapporti di produzione ad impiegarla in modo più o meno sconveniente alle masse. Occorre ricordare che “Come ogni altro sviluppo della forza produttiva del lavoro, l’impiego capitalista delle macchine […] è un metodo particolare per fabbricare plusvalore relativo”. [4]
 Il progresso tecnico è neutro. Sono i rapporti di produzione a sancirne l’utilizzo per un profitto privato, per fini che talvolta esulano dal puro e ovvio miglioramento delle condizioni di vita del genere umano.
E la tecnica produce altra tecnica, si comporta in modo indipendente da ogni volontà , si autoalimenta.
Per questo motivo una società che si definisce democratica non può non porre, tra i suoi obiettivi, il controllo e la normalizzazione della tecnica. Instaurare un controllo sugli usi della tecnica, delle regole circa la sua espansione, delle leggi che regolino il fenomeno affinché non sia diretta primariamente per il benessere di pochi, ma partecipi attivamente all’emancipazione delle masse.
Possiamo quindi concludere con le parole del giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt che, in uno dei suoi dialoghi, scrive, circa la chiamata storica a cui avrebbe dovuto rispondere l’umanità:

«Colui che riuscirà a catturare la tecnica scatenata, a domarla e a inserirla in un ordinamento concreto avrà risposto all’attuale chiamata assai più di colui che con i mezzi di una tecnica scatenata cerca di sbarcare sulla Luna o su Marte. La sottomissione della tecnica scatenata: questa sarebbe, per esempio, l’azione di un nuovo Ercole! Da questa direzione sento giungere la nuova chiamata, la sfida del presente». [5]

di Massimiliano Romanello, FGCI Roma

[1] Dal sito web di Salvatore Aranzulla.    https://www.aranzulla.it/come-guadagna-facebook-26527.html

[2] Concetto gramsciano di egemonia. https://it.wikipedia.org/wiki/Egemonia_culturale

[3] Carlo Cafiero. Compendio del capitale. Capitolo VII: Macchine e grande industria.

[4] Ibid.

[5] Carl Schmitt. Dialogo sul nuovo spazio. Capitolo V.

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