Siria, dietro il conflitto l’eterna guerra per le pipeline

riprendiamo un articolo di Alberto Negri da Il sole 24 ore, la premessa è di Bruno Steri, segreteria nazionale PCI, responsabile Economia e Finanza

Presentiamo due utilissimi contributi sulla situazione siriana, tema determinante per qualificare la posizione del PCI sulle questioni internazionali. I due pezzi sono a maggior ragione significativi in quanto provengono da ambiti politici e culturali non certo sospettabili di simpatie comuniste: uno dall’organo confindustriale, l’altro da un sito cristiano. Quanto al primo non può sorprendere che i padroni, al pari dei marxisti, sappiano bene che gli interessi materiali condizionano in ultima istanza concezioni ideologiche, convinzioni etiche, scelte politiche. Ciò vale quando ad esempio si parla di Medioriente: le nobili motivazioni addotte per giustificare l’ “esportazione” manu militari della democrazia occidentale e le “guerre infinite” contro il terrorismo mimetizzano esigenze assai più prosaiche: in due parole, gas e petrolio. Nulla di strano quindi se, fatta salva la controinformazione comunista, sulla stampa padronale ogni tanto è possibile trovare descrizioni della realtà che, come si dice, vanno al sodo e sono molto meno “diplomatiche” di quelle che troviamo altrove. E’ il caso dell’articolo di Alberto Negri, in cui senza fronzoli sono richiamate le ragioni dell’aggressione imperialista alla Siria. Altrettanto significativo è l’altro contributo: la testimonianza di un frate siriano, rimasto di sua volontà nell’inferno di Aleppo per praticare sul campo la carità cristiana nei confronti dei più deboli, ma anche per dire al mondo quello che la propaganda mediatica non dice o distorce: cosa veramente sta accadendo in Siria e a quali rischi per la pace mondiale si va incontro. Teniamo entrambi i contributi bene a mente e facciamoli leggere.

pipeline

Da: Il Sole 24 Ore del 19 ottobre 2016

Siria, dietro il conflitto l’eterna guerra per le pipeline

di Alberto Negri

Gas e petrolio sono da sempre al cuore della questione mediorientale: nelle vene di questa regione strategica per gli equilibri mondiali scorrono tutte le peggiori ragioni per fare una guerra e anche le migliori per fare la pace. Si tratta, in fondo, soltanto di scegliere e di conoscere la storia.

Nel 1947 l’americana Bechtel e la Saudi Aramco decisero di realizzare un pipeline dai pozzi sauditi alle sponde del Mediterraneo. Si trattava della famosa Tapline: nel primo progetto doveva arrivare ad Haifa in Israele ma il piano fu accantonato dopo la dichiarazione di indipendenza dello stato ebraico. Si scelse così un percorso alternativo che passava dalle colline siriane del Golan e dal Libano, fino a Sidone. Il Parlamento siriano però chiese più tempo per esaminare la questione e la risposta fu un colpo di stato condotto dal colonnello Zaim con l’aiuto dell’agente della Cia Stephen Meade che rovesciò un governo democraticamente eletto.

Soltanto quattro anni dopo, nel 1953, un altro colpo di stato anglo-americano detronizzava in Iran il leader Mossadeq che aveva nazionalizzato il petrolio. Il vero autore del golpe in Iran fu Kermit Roosevelt jr, nipote del presidente Theodore Roosevelt. La sua foto negli anni 50 mostra un quarantenne sorridente, con occhiali dalla montatura nera pesante e l’aria mite di un professore: è il capo del della Cia in Medio Oriente, un insospettabile uomo d’azione, coraggioso, capace come pochi di volgere gli eventi a suo favore, anche nelle peggiori condizioni. Fu lui a dirigere sul campo il colpo di stato contro Mossadeq.

I golpe americani a sfondo energetico e i loro segreti sono una questione di famiglia: i Roosevelt, i Kennedy e ora i Clinton. C’è qualche dubbio che coloro che oggi si proclamano “amici della Siria” come Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna lo siano veramente: gli ultimi due sono stati quelli che si sono spartiti il Medio Oriente un secolo fa con gli accordi di Sykes-Picot del 1916. Gli accordi tracciavano i confini del futuro Medio Oriente dopo la dissoluzione dell’impero ottomano. Ma Georges Clémenceau accettò di “offrire” Mosul agli inglesi in cambio del controllo francese sulla Siria e sul Libano. La sorte di Mosul fu risolta alla fine della prima guerra mondiale con un dialogo rimasto famoso nella storia. Il 1° dicembre 1918 il capo del governo britannico Lloyd George si trovava a discutere con Clémenceau all’ambasciata francese a Londra. Il capo del governo francese chiese al suo interlocutore di cosa volesse parlare e Lloyd George rispose prontamente: «Della Mesopotamia e della Palestina». «Mi dica che cosa vuole», chiese Clémenceau. «Voglio Mosul», disse Lloyd George. «L’avrà», rispose Clémenceau.

Ma le cose sono così cambiate dai tempi di Clemenceau e di Lloyd George? Per la Mesopotamia e la Siria non poi tanto se non fosse stato per l’intervento russo del 30 settembre 2015, un attore che cerca di riempire i vuoti lasciati dagli americani, per decenni determinanti negli eventi della regione. Robert Kennedy junior, nipote dell’ex presidente degli Stati Uniti John. F. Kennedy, ha spiegato qualche tempo fa in un articolo per la rivista “Politico” le vere cause della guerra in Siria. La radice del conflitto armato in Siria nasce secondo Kennedy in gran parte dal rifiuto del presidente siriano Bashar Assad di consentire il passaggio di un gasdotto dal Qatar verso l’Europa. «La decisione americana di organizzare una campagna contro Assad – afferma Kennedy – non è iniziata a seguito delle proteste pacifiche della primavera araba del 2011, ma nel 2009, quando il Qatar ha offerto di costruire un gasdotto per dieci miliardi di euro che avrebbe dovuto attraversare Arabia Saudita, Giordania, Siria e Turchia».

Si trattava di una sorta di riedizione allargata della Tapline che aveva portato al golpe del colonnello Zaim nel 1949. Questo progetto avrebbe fatto sì che i paesi del Golfo guadagnassero un vantaggio decisivo sui mercati mondiali e avrebbe rafforzato il Qatar, un Paese strettamente alleato di Washington. Il presidente siriano Assad nel 2009 rifiutò il progetto dicendo che avrebbe interferito con gli interessi del suo alleato russo, il più grande fornitore di gas naturale verso l’Europa. Ecco un buon motivo per riflettere su qualcuna delle motivazioni dell’intervento di Mosca in Siria e sull’incontro recente di Ankara tra Erdogan e Putin per la ripresa del gasdotto Turkish Stream. Bisogna stare ben attenti quando si parla di progetti di collaborazione bilaterali in campo energetico in Medio Oriente: se fai un favore a qualcuno stai pur certo di urtare qualcun altro.

L’anno seguente, nel 2010, Assad iniziò a trattare con l’Iran, suo alleato storico, per la costruzione di un altro gasdotto destinato a trasportare il gas iraniano verso il Libano passando dall’Iraq: la repubblica islamica, se questo progetto fosse mai stato attuato, sarebbe diventato uno dei più grandi fornitori di gas verso l’Europa. Secondo Kennedy, che cita report dell’intelligence cui ha avuto accesso, subito dopo la bocciatura del progetto iniziale, i servizi americani, assieme al Qatar e all’Arabia Saudita, iniziarono a finanziare l’opposizione siriana e a preparare una rivolta per rovesciare il regime. Difficile dire fino a che punto la versione di Kennedy sia provata ma non c’è dubbio che l’Iran ha sempre visto la Siria e gli Hezbollah libanesi come una proiezione strategica verso le coste del Mediterraneo e un’opportunità per esportare il suo gas in Europa.

Un paio di cose però sono sicure. Nel giugno 2011 gli Emirati, a nome dei Paesi del Golfo, offrono ad Assad aiuti equivalenti a tre volte il bilancio statale annuale di Damasco (allora 50 miliardi di dollari, quindi in totale 150 miliardi) per rompere l’alleanza politica, militare ed economica con Teheran. In cambio, oltre ai soldi, gli arabi del Golfo promettevano che sarebbe finita la rivolta cominciata a Daraa in marzo e che si era propagata a Damasco e Hama. Il rifiuto di Assad è seguito da un segnale americano inequivocabile. Il 6 luglio 2011 l’ambasciatore Usa a Damasco Ford si reca da Hama e viene filmato mentre saluta calorosamente i ribelli anti-Assad. Mai si era visto un ambasciatore americano fare un gesto simile in un Paese ostile e soprattutto del Medio Oriente: i ribelli di Hama erano diventati la sua vera scorta. Il giorno dopo arriva in città anche l’ambasciatore francese. È cosi che la legittima protesta popolare contro un regime autocratico e brutale si è trasformata in una guerra per procura con la partecipazione attiva della Turchia, il beneplacito dell’allora segretario di Stato Usa Hillary Clinton e i finanziamenti dei sauditi e del Qatar.

Uno degli uomini vicini al generale e presidente egiziano Al Sisi diceva che «i soldi dei Paesi del Golfo tengono a galla gli stati poveri ma possono anche affogarli». E i soldi dei sauditi sono stati preziosi per l’Egitto dopo il golpe contro i Fratelli Musulmani. Ma ora i sauditi vorrebbero qualche contropartita e magari spedire i soldati egiziani a combattere in Yemen contro i ribelli sciiti Houthi. Ecco un buon motivo per Al Sisi di sfruttare al meglio il giacimento Eni di Zhor e rendersi più indipendente dai Paesi del Golfo. Ma proprio per le ragioni che sappiamo e i precedenti storici occorre pensarci due volte a definire una qualunque pipeline «un gasdotto della pace», almeno finché siamo in Medio Oriente.

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