Successe in Perù nel 1968 (e dintorni)

di Giorgio Langella 

 

Nelle zone andine del Perú, nella prima metà degli anni sessanta, ci sono forti movimenti di lotta da parte dei contadini. Questo movimento, che fu preceduto da un grande sciopero operaio a fine degli anni ’50 e da una specie di vera e propria sollevazione popolare che impedì la visita dell’allora vicepresidente del governo in quelle zone (1961), ha il proprio culmine nell’invasione dei latifondi da parte dei contadini. Le lotte scoppiano, certamente, per combattere la fame, per ottenere una maggiore giustizia sociale e per conquistare i diritti più elementari, ma assumono anche  un alto (e altro) significato di riscatto nazionale. Infatti si combatte non solo contro un governo repressivo e servile ma soprattutto contro  le grandi multinazionali straniere che hanno, di fatto, occupato il paese. L’orgoglio nazionale (anche nella sua forma elementare di nazionalismo tout-court) e la volontà di riscatto sono sentimenti che hanno, da sempre, radici profonde nell’animo delle popolazioni del Perú e del resto dell’America Latina. La comprensione di ciò è necessaria per capire cosa avvenne in seguito. La cosiddetta “invasione delle terre” da parte di masse di contadini viene ben descritta dallo scrittore peruviano Manuel Scorza nei suoi romanzi (ricordo, tra tutti, “Rulli di tamburo per Rancas” primo libro di una trilogia sulle lotte contadine) e, direi, meglio interpretata da José María Arguedas, un altro grande scrittore e intellettuale peruviano (si legga il suo libro “Todas las sangres” che proprio nel finale descrive la nascita di una presa di coscienza premonitrice di quanto accadde successivamente nell’ottobre del 1968). La ribellione dei contadini è alla base dei tentativi insurrezionali e del movimento guerrigliero che si sviluppa tra il ’63 e il ’65. Il tentativo di insurrezione ha termine con la sconfitta del movimento contadino e con la vittoria dell’esercito peruviano e porta alla distruzione delle formazioni armate e alla violenta repressione delle giuste rivendicazioni contadine. Voglio ricordare tra gli attori di queste lotte il dirigente sindacale operaio comunista Emiliano Haumantica, il leader e organizzatore sindacale trotzkista Hugo Blanco che passò gran parte della propria vita in carcere sia in Perú che in Argentina dove studiò, il contadino analfabeta Saturnino Huillca costruttore di sindacati dei contadini che è, a mio avviso, uno dei simboli più limpidi del riscatto dei più umili.

Nonostante la sconfitta e la repressione proprio queste lotte popolari fanno germogliare, nei settori più attenti delle forze armate, la convinzione della necessità di un cambiamento radicale del paese a partire dall’esercito stesso, elemento fondamentale della società peruviana ma fino ad allora assolutamente sordo e ostile a qualsiasi stimolo di giustizia e libertà. Jesús Barrientos Peña, comandante della guarnigione di La Oroya (importante centro minerario peruviano) ricorda in un’intervista del 1973: “conoscevamo già il nostro paese, ma a tutto, la miseria e l’ingiustizia e la ricchezza, guardavamo come all’ordine naturale delle cose. Nel periodo della guerriglia obbedimmo alle consegne ma cominciammo a chiederci perché; se era giusto che peruviani morissero per difendere la povertà degli uni e la superbia degli altri; per fare piacere ai nordamericani. L’ordine ci apparve per quello che veramente era, disordine supremo e cominciammo a dirci, tra gli amici più sicuri, che così non poteva durare e doveva venire il giorno del riscatto della patria”.

In Perú governa il cattolico Belaunde Terry. Viene eletto dopo un periodo di governo militare repressivo perché la sua sincera vocazione democratica e le sue promesse progressiste alimentano speranze di riscatto. Questo non avviene. La corruzione aumenta e la sudditanza agli USA (ma sarebbe meglio dire alle multinazionali statunitensi) non cambia, anzi, se possibile aumenta.

La goccia che fa traboccare il vaso è dovuta a un fatto clamoroso ed emblematico che viene preso ad esempio dei rapporti del governo con i “propri veri padroni”. Sono in atto trattative per costringere la International Petroleum Company (una società di proprietà di una delle famigerate “sette sorelle” che controllano il petrolio a livello mondiale) a pagare le tasse dovute allo Stato peruviano per l’estrazione del petrolio dai pozzi di La Brea y Pariñas nel nord del paese. La IPC non aveva mai pagato alcunché per tutto il periodo (quasi 100 anni) di sfruttamento nonostante il contratto precedente prevedesse e fissasse il contributo da versare. Il governo Belaunde patteggia in chiara posizione di inferiorità e “raggiunge” un accordo a tutto vantaggio della multinazionale. Se non bastasse, sparisce dal contratto finale la pagina 11, quella che fissa l’importo che la IPC dovrà versare al Perú per poter continuare a coltivare i giacimenti petroliferi. Lo scandalo è enorme. Il governo dimostra ancora una volta la sudditanza politica ed economica rispetto alle multinazionali straniere. Si attende, di giorno in giorno, qualcosa che modifichi lo stato delle cose. La totale mancanza di dignità nazionale non può più essere tollerata! Quello che può accadere è solo un colpo di stato. Nella notte tra il 2 e il 3 ottobre 1968 l’esercito entra nel palazzo presidenziale e “invita” il presidente all’esilio. Belaunde parte per gli Stati Uniti. L’esercito assume il potere in maniera per nulla cruenta. La mattina del 3 ottobre il generale Juan Velasco Alvarado diventa presidente della Governo Rivoluzionario del Perú. È bene seguire questi avvenimenti perché hanno in sé tutti gli elementi anomali di quello che accadrà in seguito. L’esercito assume il potere non per reprimere qualcosa o contro aperture democratiche com’era successo fino ad allora. Lo fa contro la sudditanza allo “straniero”. In seguito si saprà ufficialmente (ma lo si capì quasi subito) che la rivolta militare veniva preparata da tempo e che era supportata da profonde analisi e da un programma politico (ed economico) estremamente innovativo. In Perú inizia un periodo tumultuoso ma esaltante di riscatto nazionale. Il 9 ottobre 1968, con un atto di forte discontinuità rispetto alla prassi, l’esercito peruviano prende possesso militare dei pozzi petroliferi espellendo i tecnici statunitensi e dichiarando il petrolio bene nazionale e proprietà dello stato. Il fatto clamoroso e nuovo è che nessun indennizzo viene né previsto, né concordato, né dato alla IPC. Naturalmente i rapporti tra Perú e Stati Uniti subiscono immediatamente un brusco peggioramento.

La svolta della politica peruviana è radicale e, dopo un primo momento di stupore e perplessità, viene sostenuta dalle forze progressiste di sinistra e dai sindacati.

Si cominciano a vedere, nelle vetrine delle librerie, testi fino ad allora invisibili, come il diario in Bolivia di Che Guevara, gli scritti di Fidel Castro e di Togliatti, il libretto rosso di Mao Tze Tung, le opere di Lenin. A scuola si studiano i “Sette saggi di interpretazione della realtà peruviana”, un testo fondamentale di José Carlos Mariátegui, fondatore del Partito Comunista Peruviano e grande pensatore marxista. Si respira qualcosa di nuovo, anche se non si ha la percezione dei reali cambiamenti progettati dalla giunta militare rivoluzionaria.  Dall’ottobre 1968 seguono iniziative e azioni in un crescendo di novità e di discontinuità con il passato. I rapporti con gli Stati Uniti diventano sempre più tesi. Ma il governo militare rivoluzionario non china la testa. Risponde espellendo dal paese la missione militare statunitense. E dichiarando “persona non gradita” il senatore statunitense Nelson Rockfeller, che ha iniziato un giro propagandistico nei paesi del Sud America e che è un simbolo del capitalismo e dell’imperialismo monopolista statunitense. La marina militare peruviana blocca alcuni pescherecci statunitensi che pescano all’interno di quelle 200 miglia che il Perú considera acque territoriali.

Il 24 giugno 1969 la Riforma Agraria diventa realtà.

La riforma agraria permette l’espropriazione dei latifondi, consegna la terra a chi la lavora e promuove la costituzione di cooperative di contadini recuperando, per molti versi, la tradizione di cooperazione degli indios peruviani. Il recupero delle tradizioni, che porta anche a dichiarare il quechua (unico strumento di comunicazione per milioni di persone) lingua ufficiale dello Stato alla pari dello spagnolo, è un fatto molto importante per il riscatto di vasti strati di popolazione fino ad allora assolutamente emarginati.

Il presidente Velasco Alvarado, presentando la Riforma Agraria, dice:

“Desidero rivolgere un sincero appello alla gioventù del Perú a cui vorremmo offrire una Patria migliore. Noi che viviamo gli anni della maturità, abbiamo ereditato un mondo pieno di ingiustizie e imperfezioni. A chi verrà dopo di noi vorremmo lasciare una società libera e giusta, una nazione dove non esista spazio per le disuguaglianze atroci e per gli obbrobri del mondo nel quale abbiamo dovuto vivere. È questa la nostra maggiore aspirazione: costruire per il nostro popolo e per la sua gioventù un ordinamento sociale dove l’uomo possa vivere con dignità, sapendo di stare in una terra che gli appartiene ed in una nazione padrona del proprio destino…All’uomo della terra ora possiamo dire le parole immortali e libere di Tupac Amaru: CONTADINO! IL PADRONE NON MANGERà Più LA TUA MISERIA” (Juan Velasco Alvarado – 24 giugno 1969, promulgazione della legge di riforma agraria)

Il Perú stabilisce per la prima volta relazioni diplomatiche con l’Unione Sovietica e con Cuba che inaugurano le proprie ambasciate a Lima.

Viene seguito con particolare impegno il progetto del Patto Andino come unione commerciale ed economica tra i paesi dell’area che dovrebbe permette maggiore indipendenza rispetto agli Stati Uniti divenuti ormai vicini ingombranti e poco amati.

Nel 1970 viene emanata la Legge sull’Industria che prevede di trasferire la maggioranza della proprietà delle industrie alle commissioni operaie e quindi direttamente ai lavoratori. Viene nazionalizzata l’industria della pesca (un settore strategico per l’economia del paese) e i maggiori mezzi di comunicazione vengono posti sotto il controllo delle forze sociali e sindacali.

L’anomalia peruviana fa proseliti. In Bolivia il generale Torres assume il potere con un colpo di stato incruento e comincia a nazionalizzare le miniere (altro duro colpo per le multinazionali statunitensi). A Panama il generale Omar Torrijos al potere dal 1968 segue una politica di indipendenza che rivendica la sovranità sul canale di Panama (in concessione agli Stati Uniti) che porterà all’accordo con il governo Carter. In Cile Salvador Allende vince le elezioni e forma un governo progressista di sinistra.

Dice Allende: “è nostro obbligo e nostro diritto denunciare sofferenze secolari. Come disse il presidente peruviano Velasco Alvarado, uno dei grandi compiti della rivoluzione è rompere il cerchio dell’inganno che tutti ci ha fatto vivere con le spalle voltate alla realtà” (Salvador Allende – discorso di investitura del 5 novembre 1970)

Il 28 luglio 1974 Velasco Alvarado, soprannominato “Juan sin miedo” (Juan senza paura), in occasione del 153° anniversario dell’indipendenza nazionale, rende pubblico il programma stilato nel 1968 dalle forze armate prima del colpo di stato. È un programma chiaramente e sinceramente rivoluzionario che marca una netta discontinuità con quello di qualsiasi altro governo precedente. In effetti, già da tempo la Giunta militare che governa il paese dichiara di portare avanti una rivoluzione nazionale, indipendente e umanista, con elementi di socialismo. Una politica nettamente anticapitalista.

Già nel 1971 (nel discorso del 1° settembre pronunciato in occasione del ricevimento in onore del presidente cileno Salvador Allende) Velasco Alvarado dice: “Come paese soggiogato da secoli al dominio economico straniero, il nostro cammino non può non essere che quello della lotta antimperialista” e prosegue con “Stiamo cercando di costruire una nostra via senza dimenticare che, oggi più che mai, ogni vera rivoluzione è compito creativo degli uomini che la fanno. La nostra rivoluzione corrisponde interamente alle esigenze più profonde del popolo del Perú e persegue la costruzione di un ordinamento strutturalmente diverso da quelli che il nostro paese ha avuto nel passato. Non intendiamo riformare il sistema tradizionale, poiché non vogliamo conservarlo; stiamo gettando le basi di una nuova società peruviana; aspiriamo a creare una democrazia sociale di piena partecipazione, in cui tutte le istituzioni siano controllate dai suoi componenti; una società in cui le decisioni vengano dalla base, dagli uomini e dalle donne che formano il corpo del paese e non da una sovrastruttura politica o governativa che in pratica conserverebbe sostanzialmente gli stessi elementi di alienazione del sistema tradizionale che stiamo combattendo. La caratteristica che definisce l’ordinamento socioeconomico contro il quale la nostra rivoluzione è insorta risiede nella disumanizzazione che essenzialmente tale ordinamento comporta, nella sua natura di fondo oppressiva, nella sua capacità di comprimere e distruggere l’autentica libertà creativa degli esseri umani. Nessun modello alternativo che nella pratica contribuisca a perpetuare questi tratti sostanziali del sistema che già conosciamo, ci appare accettabile. Perciò preferiamo una soluzione qualitativamente diversa, che collochi l’uomo concreto e reale al centro dell’impegno e dell’obiettivo politico della società. Da quanto detto deriva che la nostra rivoluzione si colloca in una posizione in cui confluiscono valori umanitari, libertari, socialisti e cristiani. Ma a partire da ciò, la nostra rivoluzione, come processo, formula in modo autonomo le sue proposizioni teoriche e costruisce la sua prassi che si traduce nello strutturare nuove istituzioni sociali ed economiche che, giorno per giorno, tendono a dar forma a un ordinamento che ci allontana dal sistema capitalista che la rivoluzione peruviana rifiuta”.

Il Perú, quindi, tenta una via indipendente, originale, non allineata. Non a caso  Velasco è uno dei leaders riconosciuti del movimento dei paesi non allineati (assieme a Fidel Castro, Tito e Indira Gandhi) che nei primi anni settanta assume una crescente rilevanza politica.

Il riscatto dei paesi del Sud America iniziato con il colpo di stato peruviano nel 1968 ha il grande pregio di portare una nuova ventata di speranza. Il comune denominatore di questi movimenti di liberazione è la necessità di riappropriarsi delle ricchezze nazionali, delle miniere, del petrolio, della terra, della pesca, delle comunicazioni. Queste ricchezze devono essere tolte alle nazioni e alle multinazionali che le controllano. Inizia un vero e proprio conflitto che porterà USA e multinazionali a contrastare apertamente e con violenza i governi progressisti dell’America Latina organizzando controrivoluzioni armate e colpi di stato cruenti.

Le esperienze innovative un po’ alla volta sono soffocate e sconfitte. Nel 1971 Torres viene estromesso dal potere con un colpo di stato capitanato dal famigerato Hugo Banzer che successivamente dichiarerà fuorilegge i partiti politici e instaurerà un governo reazionario e violentemente repressivo. Nel settembre del 1973 Salvador Allende viene assassinato durante un brutale colpo di stato finanziato “comandato” dagli Stati Uniti e dalla ITT (multinazionale delle telecomunicazioni). Il nuovo presidente gen. Augusto Pinochet scatena una violenta repressione contro ogni oppositore democratico assassinando circa 30.000 persone. In Perú Velasco Alvarado, gravemente ammalato, viene estromesso nel 1975 da un colpo di stato maturato all’interno della stessa compagine governativa. Il nuovo governo militare annacqua lentamente le conquiste raggiunte ripristinando poco a poco la situazione pre-rivoluzionaria di sudditanza rispetto agli Stati Uniti e riconsegna il potere reale alle multinazionali straniere. Juan Velasco Alvarado muore nel 1977. Il suo funerale, che vede la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, è considerato ancora oggi la manifestazione popolare più grande mai vista in Perú. Successivamente il paese sprofonderà in una situazione di estrema violenza con la folle guerriglia di Sendero Luminoso, la brutale repressione militare di un esercito ormai “normalizzato”, la dittatura “democratica” di Fujimori. A Panama Torrijos muore in uno “strano” incidente aereo nel 1981.

Chiunque può vedere le ingiustizie della società nella quale viviamo.

Queste ingiustizie possono essere supinamente accettate come inevitabili o ci possono muovere all’indignazione, all’esigenza irrefrenabile di non chinare il capo. In questo caso possiamo decidere che, comunque, quella nella quale viviamo sia l’unica società possibile e ci limitiamo a migliorarla oppure possiamo tentare di trasformarla in qualcosa di diverso. Nel sessantotto, in gran parte del mondo, grandi masse di persone hanno avuto la capacità (ma sarebbe più giusto dire l’esigenza) di indignarsi per le ingiustizie che vedevano, non hanno chinato il capo e hanno tentato di trasformare la società nella quale vivevano. Nei paesi latino americani, soprattutto, si lottò per l’emancipazione dei popoli contro la politica imperialista statunitense e il potere dei monopoli stranieri, in altri paesi la “rivolta” fu contro le forze della conservazione interna. L’obiettivo era, comunque e sempre, la ridistribuzione delle ricchezze, non solo economiche ma anche culturali, e l’appropriazione dei diritti (al lavoro, alla salute, all’istruzione, ma soprattutto alla sopravvivenza) da parte di strati di popolazione che mai, fino ad allora, ne avevano goduto. Ma ci fu, anche, il tentativo di appropriarsi del controllo dei mezzi di produzione e della gestione delle ricchezze cercando di trasformare la società dalla base.

In molti paesi si ebbe un’anomalia inconsueta: nel caso del Perú di Velasco Alvarado, della Bolivia di Torres, del Panama di Torrijos (ma non solo in questi paesi) la rivolta per il riscatto del popolo e per la dignità nazionale fu iniziata e condotta (anche imposta in forma “giacobina”) da forze armate tradizionalmente succubi al potere capitalistico per lo più straniero.

Precedentemente ho citato il nome di Saturnino Huillca, una persona umile, un sindacalista contadino analfabeta.

Huillca ha saputo ribellarsi alla propria condizione di “ultimo” della terra, di servo, di escluso. Ha saputo alzare la testa, indignarsi, mettere in discussione la “normalità” della condizione contadina in Perú e lottare tutta la vita. Senza cercare i riflettori e il clamore della fama e del successo. L’ha fatto solo perché riteneva che fosse giusto farlo. Forse l’ha fatto perché non avrebbe potuto farne a meno. Proprio per questo, ritengo, sia stato un grande uomo e uno dei maggiori rivoluzionari sudamericani. Ed è perché ritengo Huillca un “eroe involontario” (proprio per questo un vero maestro di lotta e di vita) mi sembra giusto concludere queste riflessioni condotte sul filo della memoria con un suo pensiero:

 “Nessuno dà importanza a un fiumiciattolo. È facile da passare. Ma quando i fiumi sono diversi, quando sono tanti, non lo si può più fare. Quando ci rivoltammo a Vilcanota, unendoci tutti, fu impossibile batterci. Se sapremo essere un grande fiume di vasta portata, nelle nostre acque cadranno e si perderanno i nemici. Essi potranno chiedere aiuto, potranno gridare, ma non potranno reagire. Così avviene quando c’è la forza dell’unità. Diversamente, quando frana una vetta, questa non potrà tornare al suo stato iniziale. Per queste ragioni tutti dobbiamo unirci, tenendoci stretti con forza, per essere invincibili.” (Saturnino Huillca – dal libro “huillca: habla un campesino peruano”, 1974)

Queste parole sono un insegnamento “che viene da lontano” e che può indicarci il percorso migliore “per andare lontano”.

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