SULLE CRISI ECONOMICHE PERIODICHE DEL SISTEMA DI PRODUZIONE CAPITALISTICO

di Piero De Sanctis

L’economia politica, in quanto è borghese, cioè in quanto concepisce l’ordinamento capitalistico, invece che come grado di svolgimento storicamente transitorio, addirittura all’inverso, come forma assoluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere scienza soltanto finché la lotta delle  classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni  isolati.
(Il Capitale,Poscritto alla seconda edizione.1873).

La vita sociale è essenzialmente pratica.
Tutti i misteri che sviano  la teoria  verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nell’attività pratica umana e nella comprensione di questa attività pratica.
(VIII  Tesi su Feuerbach ).

Per la scienza non c’è via maestra, e hanno possibilità di arrivare alle sue cime luminose soltanto coloro che non temono di stancarsi a salire i suoiripidi sentieri.
(Prefazione all’edizione francese, Il Capitale libro primo,1872).

Al Quaderno 15 dei Quaderni del carcere, pag.1755, Gramsci avverte: «Lo studio degli avvenimenti che assumono il nome di crisi e che si prolungano in forme di catastrofe dal 1929 ad oggi dovrà attirare speciale attenzione. Occorrerà combattere chiunque voglia di questi avvenimenti dare una definizione unica, o che lo stesso,trovare una causa o una origine unica. Si tratta di un processo, che ha molte manifestazioni e in cui cause ed effetti si complicano e si accavallano. Semplificare significa snaturare e falsificare».  I tre punti da chiarire con esattezza – dice Gramsci- sono: 1) che la crisi è un processo complicato; 2) che si inizia almeno con la guerra, se pure questa non ne è la prima manifestazione; 3) che le crisi hanno origini interne, nei modi di produzione e quindi di scambio, e non in fatti politici e giuridici.

Continua Gramsci: «Altro punto è quello che si dimenticano i fatti semplici, cioè le contraddizioni fondamentali della società attuale. Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del nazionalismo, del “bastare a se stessi” ecc.. Uno dei caratteri più appariscenti della attuale crisi è niente altro che l’esasperazione dell’elemento nazionalistico (statale nazionalistico) nell’economia».

Parole profetiche, queste di Gramsci, scritte nel 1933 a ridosso del crack della borsa di New York dell’autunno del 1929. Da allora, fino ai nostri giorni, le crisi economiche capitalistiche si sono ripetute, mediamente, ogni 10 anni. In realtà le prime crisi economiche capitalistiche risalgono all’anno 1800 e 1815, l’economista Ricardo le spiegava con la carestia dei cereali e con la svalutazione della moneta cartacea delle merci coloniali. Persino le crisi posteriori al 1815 egli poteva spiegarle con una carestia, con una caduta dei prezzi del grano, ecc.. Ma i fenomeni storici successivi dopo la seconda metà del XIX secolo, allorquando si entrò nella fase della grande produzione industriale, non permisero più ai successori di Ricardo di spiegare le crisi come fatti accidentali e inaspettati.

Nella seconda metà del XIX secolo si ebbero le crisi del 1857, 1866, 1873, 1882, 1890, 1900. Nell’epoca dell’imperialismo si ebbero le crisi del 1907, 1920-1921, 1929-1933, 1937-1938. Nel secondo dopoguerra gli Stati Uniti, roccaforte del capitalismo contemporaneo, hanno avuto ben sei crisi;1948-1949, 1953-1954, 1957- 1958, 1960-1961,1969-  1971, 1974- 1975. La seconda crisi petrolifera, iniziata nel 1979 in connessione con lo scoppio della guerra Iran-Iraq, raggiunge il suo culmine nel 1980. Per quanto riguarda l’Italia ricordiamo solo la crisi del 1992 quando il governo Amato introdusse l’imposta patrimoniale sui depositi bancari e postali.

Venendo al secolo XXI è sufficiente ricordare la grande crisi mondiale del 2007, la più grave e profonda di tutte quelle che l’hanno preceduta e nella quale siamo ancora tutt’ora immersi in questa sorte di perpetua stagnazione. E pensare che gli apologeti del sistema di produzione borghese ci avevano assicurato, qualche lustro prima, che il Dio mercato, che tutto vede, provvede, regola e razionalizza, avrebbe portato ricchezza e felicità a tutti.

Marx si interessò dell’analisi del  problema delle crisi periodiche capitalistiche in tutto l’arco della sua esistenza, ritenendola fondamentale per la conoscenza globale di questo modo di produzione. Già nel Manifesto del partito comunista del 1848 egli parla delle « crisi commerciali, che nei loro ritorni periodici sempre più minacciosamente mettono in forse l’esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti già ottenuti, ma anche delle forze produttive che erano già state create».  E, in uno scritto dell’ultimo periodo della sua vita, Poscritto alla seconda  edizione del Capitale libro primo del 1873, dice: «La cosa che più incisivamente fa sentire al borghese, uomo pratico, il movimento contraddittorio della società capitalistica sono le alterne vicende del ciclo periodico percorso dall’industria moderna, e il punto culminante di quelle vicende: la crisi generale. Essa è di nuovo in marcia, benché ancora sia agli stadi preliminari; e per l’universalità del suo manifestarsi, come per l’intensità dei suoi effetti inculcherà la dialettica perfino ai fortunati profittatori del nuovo sacro impero borusso-germanico».

Inoltre il problema delle crisi si riaffaccia continuamente sia nei tre volumi del Capitale che nei tre volumi delle Teorie del plusvalore. In questi ultimi, nel secondo volume Storia delle teorie economiche, a pag.543, Marx dedica un paragrafo allecrisi, al quale spesso ci riferiremo. Questi tre volumi, che in origine erano stati forse pensati come un ampio disegno storico relativo all’analisi teorica del plusvalore, si trasformarono in grande manoscritto di quindici quaderni. In essi sono trattati, sviluppati, elaborati e completati molti temi incontrati nei volumi del Capitale.

Nel porre il problema della crisi Marx distingue due momenti tra loro connessi: possibilità della crisi e trasformazione di essa in crisi reale. Sono pagine di non facile comprensione poiché richiedono, da parte del lettore, molta pazienza, una certa capacità di astrazione e una minima conoscenza della dialettica materialistica. E’ lo stesso Marx che ci avverte di questi ostacoli quando dice, a proposito del carattere di feticcio della merce, che « A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta è che una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa…Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile». Non a caso Marx dedica molto spazio all’analisi della forma di valore della merce che costituisce la prima cellula della società borghese. In essa sono già racchiuse tutte le contraddizioni che si svilupperanno appieno nella futura società borghese.

Nel suo secondo volume Storie delle teorie economiche, a pagina 551, Marx dà un esempio geniale di applicazione del metodo dialettico al processo di produzione e di circolazione delle merci:

Nelle crisi del mercato mondiale erompono le contraddizioni e le antitesi della produzione borghese. Ora invece di indagare in che cosa consistono gli elementi in conflitto, che nelle catastrofi giungono all’esplosione, gli apologeti si accontentano di negare la catastrofe stessa e, di fronte alla loro regolare periodicità, si ostinano a ripetere che se la produzione si regolasse secondo i manuali, non si arriverebbe mai alla crisi. L’apologetica consiste allora nella falsificazione dei più semplici rapporti economici e specialmente nel sostenere, di fronte all’antitesi, l’unità. Se, per esempio, l’acquisto e la vendita, o il movimento della metamorfosi della merce, rappresenta l’unità dei due processi o meglio il corso di un processo attraverso due fasi contrapposte, dunque essenzialmente l’unità di tutte le due fasi, questo movimento è essenziale quanto la separazione e la contrapposizione delle medesime l’una di fronte all’altra come fasi indipendenti. Ma ora, poiché esse sono connesse, il realizzarsi dell’indipendenza dei momenti connessi non può apparire che violento, come un processo distruttivo. E’ appunto nella crisi che si manifesta la loro unità, l’unità dei distinti. L’indipendenza che assumono i momenti che appartengono l’uno all’altro e si completano l’un l’altro, è distrutta violentemente. La crisi manifesta dunque l’unità dei momenti divenuti indipendenti l’uno all’altro…….. Ma no, dice l’economista apologetico. Verificandosi l’unità, non possono verificarsi crisi. E’ come dire l’unità dei momenti contrapposti esclude l’antitesi. 

Già dalle prime pagine del Capitale notiamo l’applicazione di questo metodo all’analisi della merce. Analisi che consiste nel processo di trasformazione da ciò che appare (la merce come valore d’uso), a ciò che non appare, a ciò che è nascosto e invisibile; il passaggio cioè dal fenomeno alla sua essenza (il valore di scambio, o valore).

Una prima astrazione sulla quale Marx ci invita a riflettere è la nozione di dispendio di forza-lavoro umana: «  Se si fa astrazione ( cioè non si tiene conto, ndr) dalla determinatezza  dell’attività e quindi del carattere utile del lavoro, rimane in questo il fatto che è un dispendio di forza-lavoro umana. Sartoria e tessitura, benché siano attività produttive qualitativamente differenti, sono entrambe dispendio di cervello, muscoli, nervi, mani, ecc: ed in questo senso sono entrambe lavoro umano».Questo lavoro umano in astratto, questo dispendio di lavoro umano sociale in generale, che come cristalli di questa sostanza sociale, è il valore della merce. Due merci diverse hanno, dunque, lo stesso valore se hanno incorporato, per la loro produzione, la stessa quantità di lavoro sociale. Su questo punto bisogna fare molta attenzione per non incorrere in equivoci: Non è il lavoro ad avere un valore. In quanto attività creatrice di valore, esso non può avere un valore particolare così come la gravità non può avere un determinato peso, il calore una determinata temperatura, l’elettricità una determinata intensità di corrente.

Si tratta di un metodo molto utilizzato nelle scienze fisiche e matematiche come dimostrano i seguenti esempi. Se, ad esempio, da corpi fisici prescindiamo dal loro essere ferro, piombo, rame, ecc., cioè prescindiamo dalle loro qualità sensibili, quello che rimane è la loro massa. Scegliendo poi, arbitrariamente, una certa quantità di ferro e assumendola come unità di massa, è possibile confrontare tutte le altre masse dei diversi corpi con essa. In questo rapporto il blocco di ferro non rappresenta altro che pura forma di gravità, o come dice Marx la forma fenomenica di gravità.

La geometria euclidea, come tutti sappiamo, è costruita sulla base di tre grandi astrazioni: il concetto di punto, di retta e di piano. A partire da esse si costruiscono poi tutte le figure geometriche piane: triangoli, quadrati pentagoni,ecc., per le quali si pone il problema di sapere quando, ad esempio, un triangolo con tre lati di uguale lunghezza, e un triangolo con tre lati disuguali, possono avere lo stesso valore, nel nostro caso la stessa area. Se moltiplicando la semilunghezza della base del triangolo per la sua altezza si ottiene lo stesso numero, essi hanno lo stesso valore, cioè la stessa area, cioè sono equivalenti.

In uno scritto del 1936 Albert Einstein dice:«Non esiste alcun metodo induttivo che possa condurre ai concetti fondamentali della fisica. Il mancato riconoscimento di questo fatto ha rappresentato l’errore filosofico sostanziale di moltissimi studiosi de XIX secolo. Questa fu probabilmente la ragione per cui la teoria molecolare e la teoria di Maxwell poterono affermarsi solo in data relativamente recente. Il pensiero logico è necessariamente deduttivo: esso si basa su concetti e assiomi aventi valore ipotetico……L’ipotesi della non esistenza del moto perpetuo, che sta alla base della termodinamica, offre un tale esempio di ipotesi fondamentale; la stessa cosa vale per il principio d’inerzia di Galileo».

Ma tornando allo scambio delle merci in cui si mettono a confronto due merci diverse, per esempio, un paio di pantaloni = un paio di scarpe, significa implicitamente affermare che nei pantaloni deve esserci un quid, qualcosa di oggettivo comune con le scarpe. Questo qualcosa di comune è il lavoro umano in astratto, come abbiamo già detto: è il lavoro sociale. Da questa forma generale di valore, Marx passa poi alla forma denaro, racchiusa dall’equazione x merceA = y oro.  Nel passaggio dalla prima alla seconda forma si ha un grande salto di qualità,  dei cambiamenti essenziali. La prima osservazione da fare è che questa equazione racchiude il processo di scambio in cui si produce uno sdoppiamento della merce, una metamorfosi: la merce A si trasforma in oro o denaro, e nello stesso tempo racchiude una opposizione tra il valore  d’uso della merce A e il valore di scambio.

Ma l’equazione afferma anche che c’è unità tra valore d’uso e valore, in altre parole c’è unità dialettica tra i due valori e, conseguentemente, c’è anche la loro lotta e la loro contrapposizione. Queste forme opposte delle merci sono le forme reali di movimento del processo di scambio. In ogni merce esiste sempre l’antitesi fra valore di scambio ( come lavoro sociale generale) e valore d’uso.

Il processo di scambio della merce nella produzione mercantile semplice. Il processo di scambio della merce si compie attraverso le seguenti due metamorfosi: M—–D—-M, ovvero Merce—–Denaro—-Merce. E’ importante seguire, passo passo, questo processo perché in esso si annida una prima possibilità di crisi.

Prima metamorfosi: M—-D, ossia vendita. Marx chiama questa prima  metamorfosi, – cioè il salto del valore della merce nel corpo dell’oro (denaro), il salto mortale della merce. Supponiamo che un tessitore di tela –dice Marx-, venda 20 braccia di tela per 2 sterline= 2 once d’oro.

Seconda metamorfosi: D—-M, ossia il nostro tessitore con 2 sterline compra una Bibbia. Quest’ultima metamorfosi, D—M (compera), è al tempo stesso vendita (M—-D); dunque l’ultima metamorfosi d’una merce è al tempo stesso la prima metamorfosi di un’altra merce. Ma come in ogni metamorfosi della merce esistono simultaneamente le sue due forme, forma di merce e forma di denaro, quantunque ai poli opposti di un unico processo. Le due fasi inverse del movimento della metamorfosi delle merci costituiscono un ciclo.

 Ma per il fatto che nessuno può vendere senza che un altro compri, e che nessuno ha bisogno di comprare subito, per il solo fatto di aver venduto, la circolazione spezza i limiti cronologici, spaziali e individuali dello scambio dei prodotti proprio perché nell’opposizione di vendita e compra essa scinde l’identità immediata presente nel dare in cambio il prodotto del proprio lavoro e nel prendere in cambio il prodotto del lavoro altrui. E’evidente che nel caso qui esaminato di produzione mercantile semplice, la interruzione della circolazione possa anche avvenire  per la bramosia dell’avaro dell’oro.

L’opposizione immanente alla merci – continua Marx -, di valore d’uso e valore, ( cioè di lavoro privato che si deve allo stesso tempo presentare come lavoro immediatamente sociale, cioè lavoro concreto particolare e allo stesso tempo lavoro astrattamente generale), queste continue trasformazioni delle merci da una forma in un’altra, costituiscono le forme sviluppate di movimento di questa opposizione. Quindi queste forme includono la possibilità, ma soltanto la possibilità, delle crisi. (Occorre osservare che  il processo (M—M), cioè merce contro merce,  non è altro che il baratto. In questo caso non possono esserci crisi).

Il processo di circolazione in regime capitalistico sviluppato. La formula che regola il processo di circolazione delle merci in regime di capitalismo sviluppato è : D—-M—-D’, dove D’= D+ΔD.  Cioè il capitalista con il suo denaro (D) inizia il processo di produzione acquistando sul mercato attrezzi, materie prime e forza- lavoro. Alla fine del processo il capitalista ha ripreso il capitale anticipato (D) più un ΔD che rappresenta il plusvalore prodotto dal lavoro non pagato degli operai. « Quindi nella circolazione – dice Marx – il valore originariamente anticipato non solo si conserva, ma altera anche la propriagrandezza di valore, mette su un plusvalore, ossia si valorizza. E questo movimento lo trasforma in capitale». Non bisogna mai dimenticare che nella produzione capitalistica non si tratta soltanto di ricostituire la medesima massa di valori d’uso, ma di ricostituire il capitale anticipato, più il saggio usuale di profitto. Il capitalista ha l’interesse a che questo ΔD sia il più grande possibile, in relazione al suo capitale anticipato (D), a massimizzare questo plusvalore, il che è per l’appunto l’obiettivo immediato quando immette il suo capitale nella produzione.

L’opinione errata degli economisti classici – David Ricardo, Jean-Baptiste Say, James Mill -, di ritenere che non è possibile una sovrapproduzione di merci, è basata sul principio che i prodotti si scambiano contro  i prodotti, o, come dice Mill, con “l’equilibrio metafisico fra  venditori e compratori”, o, ancora, con  l’identità della domanda e dell’offerta. Avendo accettato acriticamente questa tesi errata, gli economisti classici si chiusero la via per una teoria generale delle crisi.

Questo ragionamento fu messo in ridicolo da Marx osservando che la vendita e la compera sono separate nel tempo quanto nello spazio. La moneta non solo è il mezzo mediante il quale si effettua lo scambio, ma è soprattutto il mezzo mediante il quale lo scambio viene diviso in due separate e distinte transazioni: la vendita e la compera.

A pagina 564 della Storia delle teorie economiche Marx dimostra che ci sono due possibilità per le crisi economiche:

la prima  in quanto il denaro funge come mezzo di circolazione, per la separazione fra l’acquisto e la vendita; la seconda in quanto esso funge come mezzo di pagamento, in cui esso agisce in due momenti differenti, come misura dei valori e come realizzazione dei valori. Questi due momenti si separano. Se nell’intervallo fra questi due momenti, il valore si è modificato, se la merce, nel momento della sua vendita, non vale tanto quanto valeva nel momento in cui il denaro funzionava come misura dei valori e quindi delle obbligazioni reciproche, la somma ricavata dalla merce non basta a far fronte all’obbligazioni, che dipendono da quest’ultima per un concatenamento regressivo…. Ma poiché qui la medesima somma di denaro funziona per una serie di transazioni e di obbligazioni reciproche, si verifica l’impossibilità di pagare non solo in un punto, ma in molti punti, e quindi la crisi. Queste sono le possibilità formali delle crisi. Le prime sono possibili senza le seconde, cioè sono possibili crisi senza credito, senza che il denaro funzioni come mezzo di pagamento. Ma la seconda non è possibile senza la prima, senza cioè che l’acquisto e la vendita si separino….Questa è la forma vera e propria delle crisi monetarie.

Ma tornando al plusvalore ΔD e al saggio di profitto ΔD/D, se accade, per una qualsiasi ragione, (una  contrazione del processo di circolazione e una riduzione della produzione), che il saggio di profitto scenda al di sotto del saggio medio normale di profitto, per la quasi totalità delle industrie, i capitalisti non sono più interessati a reinvestire i capitali  Di qui la crisi e la successiva depressione. La stessa cosa avviene per effetto di una più elevata composizione organica del capitale; cioè di una progressiva diminuzione relativa del capitale variabile nei confronti del capitale costante, rimanendo costante il grado di sfruttamento degli operai. Questa è la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. « Il saggio di profitto – dice Marx- è la forza stimolante della produzione capitalistica; infatti le cose sono prodotte soltanto in quanto rendono un profitto…..La caduta del saggio di profitto e l’acceleramento dell’accumulazione sono semplicemente diverse espressioni di uno stesso processo, ambedue esprimendo lo sviluppo della forza produttiva. L’accumulazione accelera la caduta del saggio del profitto, in quanto determina la concentrazione del lavoro su ampia scala e di conseguenza una composizione superiore del capitale…..D’altro lato….la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti ed appare come una minaccia per lo sviluppo del processo capitalistico di produzione; favorisce infatti la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, un eccesso di capitale contemporaneamente ad un eccesso di popolazione…..L’horror che essi provano [ gli economisti classici, ndr] di fronte alla tendenza a decrescere del saggio del profitto, è ispirato soprattutto dal fatto che il modo capitalistico di produzione trova nello sviluppo delle forze produttive un limite il quale non ha nulla a che vedere con la produzione della ricchezza come tale; e questo particolare limite attesta il carattere ristretto, semplicemente storico, passeggero del modo capitalistico di produzione; prova che esso non rappresenta affatto l’unico modo di produzione che  possa produrre la ricchezza, ma al contrario, giunto ad una certa fase, entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo».( Il Capitale, Libro III, pag. 297).

Tra le tante teorie create dagli economisti borghesi per spiegare l’origine e la natura delle crisi capitalistiche una è di particolare rilevanza, verso la quale sia Marx che Lenin dedicarono particolare attenzione. E’ la teoria dello squilibrio tra laproduzione e il consumo che Leonard Sismondi (1773-1843) riprende da A.Smith e sostenuta da Karl Rodbertus ( ministro dell’Istruzione nel governo prussiano nel 1848, di orientamento monarchico, fu tra i più convinti assertori del socialismo di Stato,1805-1875),quest’ultimo indegnamente considerato precursore di Marx.

Questi tre economisti hanno in comune lo stesso errore di partenza: l’accumulazione del capitale (l’aumento della produzione in generale) è determinata dal consumo. Da questa impostazione poi deducono che le crisi sono fondamentalmente causate dal sotto consumo. Nel Libro II vol.2 del Capitale, pag. 69, in proposito, Marx dice:

E’ pura tautologia affermare che le crisi derivano dalla mancanza di consumo capace di pagamento o di consumatori capaci di pagare. Il sistema capitalistico non conosce altri consumatori paganti, eccetto i poveri e i “ladri”…… Se si vuol dare a questa tautologia un’apparenza di più profondo fondamento, col dire che la classe operaia riceve una parte troppo piccola del proprio prodotto, e, che al male si porrebbe quindi rimedio quando essa ne ricevesse una parte più grande, e di conseguenza crescesse il suo salario, c’è da osservare soltanto che le crisi vengono sempre preparate appunto da un periodo  in cui il salario in generale cresce e la classe operaia riceve una quota maggiore della parte del prodotto annuo destinata al consumo. Al contrario, quel periodo – dal punto di vista di questi cavalieri del sano e “semplice” buon senso –  dovrebbe allontanare la crisi. Sembra quindi che la produzione capitalistica comprenda delle condizioni indipendenti dalla buona o cattiva volontà, che solo momentaneamente consentono quella relativa prosperità della classe operaia, e sempre e soltanto come procellaria di una crisi.

Qui, è  evidente, la tautologia consiste proprio nel cercare di spiegare la crisi con la crisi del sottoconsumo.

Ciò, tuttavia, non vuol dire che Marx nega l’esistenza di una contraddizione fra produzione e consumo, né l’esistenza del sottoconsumo, il quale è esistito nei più diversi regimi economici, mentre le crisi sono un tratto caratteristico di un solo regime: quello capitalistico della grande produzione industriale.

Non vi è niente di più stupido – dice Lenin- che dedurre dalle contraddizioni del capitalismo il suo carattere non-progressivo, ecc. Ciò equivale a sfuggire una realtà non piacevole, ma indubbia, per andare nel mondo nebuloso delle fantasie romantiche. La contraddizione tra lo sforzo senza limiti per l’espansione della produzione e la limitata capacità di consumo non è l’unica contraddizione del capitalismo, che in generale non può esistere né svilupparsi senza contraddizioni. Le contraddizioni del capitalismo attestano il suo storico carattere di transitorietà, spiegando  le condizioni e le cause della sua caduta e la sua trasformazione in una forma più alta, ma esse non escludono la sua progressività in confronto dei sistemi primitivi di economia sociale (Lenin, Opere complete, vol. III).

In quest’ultima considerazione di Lenin bisogna cercare le cause della trasformazione di una possibilità di crisi in una crisi reale. Essa ci riporta all’essenza del modo di produzione borghese caratterizzata dalla ricerca del massimo plusvalore possibile, del massimo sfruttamento operaio e dalla contraddizione ineliminabile fra classe operaia e classe dei capitalisti. L’espansione o la contrazione della produzione nelle società  capitalistiche moderne non viene mai decisa in base al rapporto fra produzione e i bisogni sociali, ma in base all’appropriazione del plusvalore. La produzione si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la realizzazione del profitto scende molto al di sotto del suo valore medio e, in questo caso, il capitalista non è più interessato a investire il suo capitale nella produzione.

Dunque, molte sono le forme delle possibilità astratte delle crisi che in un dato momento e in un dato punto della catena produttiva e della circolazione delle merci, possono tradursi in crisi reali. Ma queste esplosioni di crisi che periodicamente avvengono non sono altro che le manifestazioni di contraddizioni fondamentali del modo di produzione borghese, storicamente  determinato. Tra queste, la più importante – come dice Marx -, è la contraddizione tra il carattere sociale della produzione e la forma privata dell’appropriazione della ricchezza creata.

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