TAIWAN E LA CINA. Gli USA e i secessionisti soffiano sul fuoco della guerra

di Fosco Giannini

Sabato 11 gennaio u.s. si sono tenute a Taiwan le elezioni presidenziali e parlamentari, che hanno visto la conferma, dopo la vittoria del 2016, a presidentessa di Taiwan di Tsai Ing-wen e della sua organizzazione politica, il Partito Democratico Progressista (PDP) che ha ottenuto – su di una piattaforma politica violentemente diretta alla rottura definitiva con la Cina – 8,17 milioni di voti (il 57,13% del totale).

Il partito Kuomintang, erede della forza nazionalista di Chiang Kai-shek (grande antagonista della Rivoluzione maoista e della Cina comunista ora convertitosi alla linea di riavvicinamento e persino di unificazione di Taiwan con la Repubblica Popolare Cinese) ha ottenuto 5,52 milioni di voti (38,61%). La stampa statunitense ed europea ha in grandissima parte salutato, quella di Tsai Ing-wen, come una vittoria anticomunista, anticinese e “liberatrice”, non nascondendo il ruolo che in tale vittoria hanno giocato gli USA e le manifestazioni di Hong Kong. Ha chiaramente titolato, ad esempio, il “Corriere della Sera” di sabato 11 gennaio: “Taiwan, risorge l’anticinese Tsai (anche grazie a Hong Kong)”. Tuttavia, la stessa stampa occidentale, al completo, non ha nascosto i pericoli insiti nella vittoria di Tsai e del PDP, che hanno condotto una campagna elettorale proprio sull’onda delle manifestazioni filo americane e filo britanniche di Hong Kong, tanto da provocare la netta reazione del Partito Comunista Cinese e del suo Segretario, Xi Jinping, che lo scorso 2 gennaio a Pechino, nella Grande Sala del Popolo, per il quarantennale del “Messaggio ai compatrioti di Taiwan” ha così chiaramente affermato: “ La riunificazione tra Taiwan e la Cina è inevitabile, è una grande tendenza della Storia…. Taiwan è parte della politica interna della Cina, quindi ogni interferenza straniera è intollerabile”.

Ma in quale quadro storico si levano le parole secessioniste di Tsai e quelle unificatrici di Xi Jinping? Tratteggiamolo sinteticamente.

L’imperialismo e il colonialismo, per motivare il loro potere sui Paesi e sui popoli, si danno anche un modus operandi: cancellare la storia dei Paesi e dei popoli occupati o dominati e riscriverne un’altra, falsa e funzionale allo stesso potere imperialista. È ciò che oggi accade anche per Taiwan, è la manipolazione della Storia che oggi praticano innanzitutto gli USA per rimuovere il fatto che Taiwan è cinese sin dalla notte dei tempi mentre la falsa storia costruita dall’imperialismo nordamericano la racconta come “isola autonoma e indipendente”. È difficile, peraltro, e solo da una prima, pura e semplice costatazione geografica, credere che Taiwan, “l’Ilha Formosa” (l’isola bella, come la chiamavamo i suoi primi conquistatori colonialisti, i portoghesi, nel 1400) posta dal formarsi del mondo – per così dire – a soli 160 chilometri dalle coste della Cina sia stata e sia storicamente più occidentale che cinese.

La vera Storia ci dice come Taiwan abbia sviluppato forti relazioni con la Cina già dal 7° secolo a.c. e come dal 15° secolo d.c. sia stata completamente cinese, dopo che l’Impero cinese caccia da Taiwan i nuovi colonialisti olandesi (il colonialismo occidentale verso Taiwan e tanta parte dell’Asia non ha mai smesso di agire). Da questa fase, dalla cacciata degli olandesi, Taiwan rimarrà cinese per circa 250 anni, quando nel 1895, dopo la guerra tra Cina e Giappone, diventa parte dell’Impero del Sol Levante, che schiavizza ferocemente il popolo di Taiwan portando verso il Giappone tanta parte del prodotto agricolo taiwanese, saccheggiando le ricchezze dell’isola e trasformandola in terra per gli emigranti nipponici. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la sconfitta del fronte nazifascista e del Giappone, Taiwan torna alla Cina, ma nel settembre del 1949 viene occupata dai nazionalisti di Chiang Kai-Shek, sconfitti in Cina dalla Rivoluzione comunista e maoista. Occorre sottolineare come già in questa fase emerga – come emergerà più avanti e poi ancora sino a questa fase, sino a questi ultimi giorni di gennaio 2020 segnati dalle elezioni a Taiwan – il ruolo reazionario, imperialista, anticomunista e anticinese degli USA. Nel momento della vittoria della Rivoluzione comunista di Mao Ze Dong, infatti, saranno le truppe americane a scortare Chiang Kai-Shek a Taiwan, non senza prima avergli permesso di trafugare tutto il tesoro della Città Proibita. Con l’aiuto degli USA i nazionalisti anti maoisti di Chiang Kai Shek costituiscono “l’altra Cina”, la cosiddetta Repubblica di Cina (che oggi conta poco meno di 24 milioni di abitanti) contrapposta alla vera Cina, alla Repubblica Popolare Cinese guidata dal PC Cinese.

Determinante, dunque, sarà il contributo americano per la costituzione della Repubblica di Cina e cioè per dividere Taiwan dalla Cina, e rispetto a ciò lasciamo la parola a Domenico Losurdo, che nel suo saggio “La Cina, l’anticolonialismo e lo spettro del comunismo così scriveva: “Per quanto riguarda la Cina, già prima della fondazione della Repubblica popolare, gli USA intervenivano per impedire che la più grande rivoluzione anticoloniale della storia giungesse alla sua naturale conclusione, e cioè alla ricostituzione dell’unità nazionale e territoriale del grande Paese asiatico, compromessa e distrutta a partire dalle guerre dell’oppio e dall’aggressione colonialista. E, invece, dispiegando la loro forza militare e agitando in più occasioni la minaccia del ricorso all’arma nucleare, gli USA imponevano la separazione de facto della Repubblica di Cina (Taiwan) dalla Repubblica popolare di Cina. Erano gli anni in cui la superpotenza apparentemente invincibile era lacerata da un dibattito rivelatore: «who lost China?» Chi era responsabile della perdita di un Paese di enorme importanza strategica e di un mercato potenzialmente illimitato? E in che modo si poteva porre rimedio alla situazione disgraziatamente venutasi a creare? Per oltre due decenni la Repubblica popolare di Cina è stata esclusa dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU e dalla stessa Organizzazione delle Nazioni Unite. Al tempo stesso, essa subiva un embargo che mirava a condannarla alla fame e all’inedia o comunque al sottosviluppo e all’arretratezza. A quella economica s’intrecciavano altre forme di guerra: l’amministrazione Eisenhower assicurava l’«appoggio ai raid di Taiwan contro la Cina continentale e contro ‘il commercio per via marittima con la Cina comunista»; al tempo stesso la CIA garantiva «armi, addestramento e supporto logistico» ai «guerriglieri» tibetani e alimentava in tutti i modi ogni forma di opposizione e «dissidenza» nei confronti del governo di Pechino”.

Vero è che con la svolta di Nixon del 1971, diretta ad una politica di distensione con la Cina, gli USA, riconoscendo la Cina comunista alle Nazioni Unite, smettono la loro politica di sostegno a Taiwan in funzione anticinese, cessando anche di riconoscere Taiwan alle Nazioni Unite. Ma è anche vero che la politica nordamericana diretta a sollecitare e sostenere la secessione di Taiwan dalla Cina (esattamente come per Hong Kong) riprende nei decenni successivi per rinvigorirsi proprio in questi ultimi anni, di fronte al grandissimo sviluppo economico e politico della Repubblica Popolare Cinese e di fronte al ruolo internazionale centrale svolto conseguentemente da Pechino e, ora, dal progetto planetario della Nuova Via della Seta. In questa fase gli USA sono tornati, come ai tempi del sostegno pieno e armato a Chiang Kai-shek, a svolgere alla luce del sole il ruolo di primario soggetto secessionista di Taiwan dalla Repubblica Popolare Cinese (non è stato così, non rimane così, peraltro, anche per il Tibet, oltreché per Hong Kong?).

A Taiwan, nel 1979 muore Chiang Kai- shek e nel 1986, da una scissione dal Kuomintang (il partito nazionalista di Chiang Kai -shek, ricordiamo) nasce il Partito Democratico Progressista, che nel tempo svelerà sempre più la propria natura filo americana e secessionista dalla Cina. Dalla morte di Chiang Kai-shek, dalla scissione del Kuomintang e dalla formazione del PDP si apre una fase nuova per Taiwan, caratterizzata da una tensione continua e sempre più profonda e pericolosa tra i fautori della secessione e della piena autonomia dalla Cina (che vede come capofila il PDP) e i fautori della riunificazione con la Cina, tra i quali si colloca, nell’ultimo decennio, lo stesso, nuovo, Kuomintang.

Dopo la caduta dell’URSS ed il costituirsi di un nuovo quadro internazionale segnato dall’illusione imperialista della “fine della storia” (con la conseguente acutizzazione della spinta economica e militare imperialista per la conquista dei mercati mondiali ed il controllo delle aree internazionali geopoliticamente più importanti) gli USA riaccendono violentemente i propri riflettori su Taiwan, nell’obiettivo di secessione dell’isola ( divenuta, tra l’altro, una delle “tigri economiche” asiatiche) dalla Cina. È del 1995, ad esempio, il viaggio del leader indipendentista di Taiwan, Lee Tenghui, a Washington, viaggio che apre una crisi militare significativa tra USA e Cina, con vaste esercitazioni militari cinesi lungo le coste di Taiwan e l’invio di due portaerei americane vicine alla flotta cinese. Sarà proprio con il pesante ed esplicito aiuto americano che in questa fase Lee Tenghui vincerà le elezioni a Taiwan. Una politica di sostegno USA alle posizioni politiche secessioniste di Taiwan che porta alla vittoria, dai primi anni 2000 sino ad oggi, del PDP. Anche se l’elettorato (nonostante l’appoggio occidentale, la grancassa mediatica mondiale imperialista in funzione anticinese e la formazione, a Taiwan, di una vasta area sociale “aristocratica” – per riprendere l’immagine di Lenin della “classe operaia aristocratica occidentale” – essenzialmente formatasi negli anni in cui Taiwan era una delle “tigri asiatiche”), ha sempre, più o meno, espresso una polarizzazione tra secessione e unificazione con la Cina. Sino al punto che nel 2004, i due referendum che chiedevano di rafforzare le politiche militari contro la Cina non raggiungono il quorum.

La vittoria di questo gennaio 2020 di Tsai Ing-wen, avvenuta sulla base di una proposta di rottura con la Cina, sulla base di un accordo ferreo con gli USA e su quella di un rifiuto secco persino della soluzione cinese “one country, two system” (un Paese due sistemi), apre un quadro potenzialmente drammatico a Taiwan. Già nel 2005, infatti, le posizioni del leader indipendentista taiwanese Chen Shui-bian avevano provocato una dura reazione da parte di Pechino, che rispose alle sue provocazioni dichiarando che “qualora Taipei (la capitale di Taiwan, n.d.r.) si proclamasse indipendente, la Cina interverrebbe militarmente”.

Ma, oltre la legittima difesa della propria unità e integrità territoriale, cosa spinge la Repubblica Popolare Cinese ad assumere tali posizioni? E’ del tutto evidente che Pechino ( e il PC Cinese) sono costretti ad assumere questa linea di difesa in un quadro generale contrassegnato da una particolare aggressività militare ed economica USA: la VI e potente Flotta della marina militare americana è stanziata da tempo difronte al Mare delle Filippine, come minaccia armata alla Cina; la nuova militarizzazione del Giappone è frutto del disegno americano volto all’accerchiamento della Cina; l’esercito della Corea del Sud, che prende ordini direttamente dagli USA e dalla NATO, è in perenne mobilitazione sui confini con la Corea del Nord; lo spostamento delle basi NATO verso i confini russi (come in Ucraina) è una minaccia anche per la Cina; lo stesso, recentissimo, assassinio del generale iraniano Soleimani da parte di Trump non è solo una terribile minaccia all’Iran ma anche al suo alleato cinese. E l’aggressività USA contro la Cina comunista prende densamente corpo anche attraverso la lotta doganale e d economica generale USA contro Pechino.

È in questo contesto che vanno giudicate le affermazioni di Xi Jinping nel già citato intervento dello scorso 2 gennaio su Taiwan di fronte alla Grande Sala del Popolo: “La proprietà privata, le fedi religiose e i legittimi diritti dei compatrioti taiwanesi saranno preservati” – ha detto Xi Jinping – solo dopo il rientro nella madrepatria, secondo la formula “Una Cina Due Sistemi”, come per Hong Kong”. Aggiungendo che “Sistemi politici differenti non possono servire da scusa per ambizioni separatiste”. E così concludendo: “La risoluzione della questione di Taiwan non può essere più lasciata alle generazioni future, come è stato fatto per settant’anni dal dicembre 1949, quando il nazionalista Chiang Kai-shek, sconfitto nella guerra civile dalle forze rivoluzionarie di Mao Zedong, si arroccò nell’isola. A partire da tutto ciò noi non possiamo fare alcuna promessa di rinunciare all’impiego della forza, ma manteniamo, di fronte a un intervento esterno o a strappi indipendentisti, l’opzione di ricorrere ad ogni misura necessaria”.

E’ così internazionalmente evidente che la richiesta di secessione di Taiwan dalla Cina sia un espediente imperialista, che la stessa “comunità internazionale” in gran parte si ritrae da questo disegno, ed è per questo che, nonostante il gran can-can americano, sono soli 15 i governi del mondo, oggi, a riconoscere Taiwan come Paese indipendente e addirittura gli stessi USA non hanno osato aprire ancora un’ambasciata a Taipei, ma molto ipocritamente hanno, nella capitale, solo un “ American Institute”, che tuttavia è sufficiente a sostenere e dirigere la politica secessionista di Taiwan.

Nel contesto dato, segnato dal terrore USA di perdere la propria leadership mondiale a favore della Repubblica Popolare Cinese e difronte, dunque, alla visione internazionale tutta bellica di Washington, risultano ancora una volta profetiche le parole di Domenico Losurdo, quando valuta il disegno americano di sottrarre a Pechino l’isola di Taiwan: “A questo punto, l’obiettivo perseguito dagli USA risulta chiaro e inequivocabile: essi si propongono per così dire di terrestrizzare la Cina. Di qui una politica tesa a bloccare la riunificazione di Taiwan con la madrepatria e, possibilmente, trasformare l’isola in una portaerei anticinese, gigantesca e inaffondabile”.

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