UNIONE EUROPEA, IL PCI CONFERMA: OCCORRE CAMBIARE STRADA

PCI-DIPARTIMENTO EUROPA, POLITICHE ECONOMICHE E FINANZIARIE

di Bruno Steri

1.L’Unione europea vira ulteriormente a destra.

Un documento pubblicato circa un anno fa da questo stesso Dipartimento (“Irriformabilità dell’Unione Europea: occorre cambiare strada”) così esordiva: “Il Partito Comunista Italiano ritiene che il progetto di un’Unione europea come comunità politicamente progressiva e socialmente solidale sia fallito, poiché esso ha viceversa proposto (e sin dall’inizio formalizzato in Trattati) una società a misura degli interessi del grande capitale finanziario e a discapito della stragrande maggioranza della popolazione”. Con il presente documento, il Pci conferma che il suddetto giudizio non è cambiato.

1.1 La gravissima Risoluzione con cui lo scorso 19 settembre il Parlamento europeo ha approvato con 535 voti a favore, 66 contrari e 52 astenuti l’equiparazione di nazismo e comunismo – e, con essa, la condanna dell’uso dei simboli del comunismo nonché la richiesta di una rimozione dei monumenti che celebrano la liberazione dal giogo nazista ad opera dell’Armata Rossa – costituisce una pesante riprova della matrice reazionaria e antipopolare che è alla base di questa Unione europea (d’ora in avanti: Ue). Sulla base di un sostanziale stravolgimento degli avvenimenti storici e del capovolgimento delle responsabilità in campo, la Risoluzione ha falsamente indicato nel Patto di non aggressione Ribbentrop/Molotov la causa scatenante del secondo conflitto mondiale, glissando spudoratamente sui precedenti anni che videro la minacciosa e violenta ascesa del nazismo e il contestuale accerchiamento dell’Unione Sovietica da parte delle potenze capitalistiche occidentali. Né in essa si fa parola dei 25 milioni di morti con cui la stessa Unione Sovietica contribuì alla sconfitta di Hitler.

1.2 Nel segno di un generico anti-totalitarismo, il testo in questione pone quale valore fondante e collante ideale dell’unità europea “il riconoscimento dei crimini della dittatura comunista, nazista o di altro tipo”, uniformando così in un’indistinguibile condanna Lenin, Stalin, Gramsci, Hitler, Mussolini. Va sottolineato che non si tratta di astratte dispute accademiche; ma di giudizi che sostanziano comportamenti politici assai concreti: in quanto essi contribuiscono a fomentare il rinascente spirito anti-comunista (ed oggi anti-russo) nell’Est europeo – che giunge a impedire la partecipazione di un Partito comunista a quelle che dovrebbero essere “libere” elezioni – e contemporaneamente si guardano bene dal condannare la dilagante riproposizione in piazza di manifestazioni e simboli nazisti nonché la professione di idee nazional-socialiste addirittura da parte di esponenti governativi (nella fattispecie, dell’attuale governo ucraino). Il vergognoso voto favorevole espresso da Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e dalla quasi totalità dei parlamentari del Partito democratico, ma anche la pilatesca astensione del Movimento 5Stelle, la dicono lunga sullo squallido deterioramento della scena politica italiana.

1.3 Beninteso, la suddetta Risoluzione ribadisce – inasprendole – prese di posizione già manifestate da organismi internazionali. Tra queste è da segnalare la Risoluzione 1481 “Sulla necessità di una condanna internazionale dei crimini dei regimi del totalitarismo comunista”, approvata il 25 gennaio 2006 dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (organizzazione internazionale che è indipendente dall’Unione europea propriamente detta e che si dice posta a tutela della democrazia, dei diritti umani, dell’identità culturale europea). In essa, avendo constatato che “Partiti comunisti sono legali e attivi in alcuni paesi”, si invitava “gli storici del mondo intero” a “stabilire e verificare obiettivamente lo svolgimento dei fatti”, giungendo ad auspicare “la revisione dei manuali scolastici”. A ben vedere, più che la verifica obiettiva dei fatti, alla base del pronunciamento vi era un’altra più prosaica preoccupazione: “Sembrerebbe che un tipo di nostalgia del comunismo sia ancora presente in alcuni paesi, di qui il pericolo che i comunisti riprendano il potere nell’uno o nell’altro di questi paesi”. Prospettiva alimentata da una “pericolosa” tentazione: infatti “elementi dell’ideologia comunista, come l’uguaglianza o la giustizia sociale, continuano a sedurre numerosi membri della classe politica”. In definitiva, tutto ciò conferma che l’Ue ha incluso nel proprio dna un viscerale anti-comunismo già in circolazione nell’Occidente capitalistico.

2.Da Maastricht in poi, sempre peggio

2.1 In perfetta sintonia con tali umori politico-ideologici, le politiche economico-sociali dell’Ue sono state segnate sin dall’inizio da una netta ispirazione antipopolare. La famigerata austerity, concretizzatasi nel contenimento della spesa pubblica e nella deflazione salariale, ne è stata e continua ad esserne il cuore. Com’è noto, il varo accelerato di una moneta unica (l’euro) e la sua adozione da parte di Paesi caratterizzati da una diversa capacità competitiva ha indotto a ricercare a tappe forzate un riequilibrio dei differenziali di produttività e dei conti con l’estero di questi stessi Paesi. Su questa via, la questione del debito ha assunto il ruolo di dogmatica insindacabile. Certo, i profondi scompensi del sistema finanziario (privato) determinati dalla crisi capitalistica e i titanici interventi in suo soccorso operati con risorse pubbliche hanno enfatizzato il problema. Tuttavia un tempo la sinistra sapeva che la questione del debito non deve essere assolutizzata. Non a caso, nel corso del secondo dopoguerra del secolo scorso, l’Italia ha fatto registrare ragguardevoli livelli del debito, senza che ciò abbia comportato il tracollo dei suoi conti. Gli economisti progressisti ripetevano che quanto più un Paese produce ricchezza tanto più si garantisce una gestione positiva del suo debito; e si dichiaravano favorevoli ad una “stabilizzazione” del debito mentre si dicevano contrari ad un suo “abbattimento”. Viceversa, l’abbattimento del debito pubblico in rapporto al Prodotto interno lordo dei Paesi più deboli (d’ora in avanti: Pil) è oggi divenuto il conclamato obiettivo della tecnocrazia di Bruxelles. E la cosiddetta sinistra ha seguito come l’intendenza. Nei fatti, il tam-tam sul rientro dal debito è servito a enfatizzare un’ortodossia ragionieristica dei bilanci in ordine concepita consapevolmente a discapito del tenore di vita del grosso delle popolazioni: la verità è che, data l’impossibilità di agire su una propria moneta (tramite svalutazione, per dare ossigeno all’export) e sulla spesa pubblica (bloccata dai parametri imposti dal Trattato di Maastricht), per aumentare la produttività si è scelta la strada del contenimento del costo del lavoro e dello smantellamento del welfare. Nessuna sorpresa: in regime capitalistico il conto è sempre pagato dalle classi subalterne.

2.2 Nel corso degli ultimi due decenni, a partire dall’entrata in vigore dell’euro (ufficialmente approvato il 1 gennaio 1999, in circolazione dal 1 gennaio 2002), le regole che presiedono al funzionamento dell’Ue e specificatamente a quello dei Paesi appartenenti alla Zona euro, lungi dall’attenuare la loro pressione hanno subito ulteriori inasprimenti. In particolare, a partire dal 2010 si è assistito ad un vero e proprio tsunami, senza che qualche argine sia stato posto dagli arci-europeisti governi di centro-sinistra (Monti dal 16/11/2011; Letta dal 25/4/2013; Renzi dal 22/2/2014; Gentiloni dal 9/12/2016) e dal governo Conte (1/6/2018). Sempre più stringente si è fatto il controllo sul rispetto dei parametri di Maastricht: in particolare quelli concernenti il rapporto deficit pubblico/Pil non superiore al 3%, il rapporto debito pubblico/Pil non superiore al 60%, il tasso d’inflazione non superiore dell’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi. Con il Six Pact, patto in 6 punti entrato in vigore il 13 dicembre 2011, e il contestuale varo del Semestre europeo è stato introdotto un sistema di sorveglianza dei dati macroeconomici di ciascun Paese, con una tempistica precisa: a gennaio di ogni anno sono fissate le priorità economiche dell’Ue (“orientamenti”) e a marzo il Consiglio europeo (la riunione dei Capi di Stato o di Governo) le ratifica; ad aprile i singoli Stati membri presentano i loro programmi (“programmi di stabilità e convergenza”); entro luglio la Commissione europea emette “raccomandazioni”, poi ratificate dal Consiglio europeo, rivolte ai singoli Stati e, ove siano riscontrati squilibri, chiede che siano adottate misure dirette alla loro eliminazione. Il coordinamento delle politiche di bilancio si è così trasformato sempre di più da ex post a ex ante, cioè il controllo sui bilanci nazionali ha teso sempre di più ad essere preventivo. Con il Two Pack, entrato in vigore il 30 maggio 2013, si è accresciuto ulteriormente questo ruolo preventivo dell’Ue. In particolare, con riferimento a due punti (di qui il nome del patto): il rafforzamento della vigilanza per gli Stati in difficoltà; il sistematico monitoraggio dei progetti di bilancio per la correzione dei disavanzi reputati eccessivi (ovvero troppo esposti in tema di politiche occupazionali, risorse destinate all’istruzione o alla sanità, e così via tagliando). E’ il caso di segnalare che in relazione all’esito del suddetto percorso sono state predisposte precise sanzioni, nel caso di inadempienza del Paese sotto esame: si è previsto che la raccomandazione possa automaticamente trasformarsi in avvertimento, fino ad un avvertimento finale, dopo il quale il Paese in questione è obbligato a versare un deposito dello 0,2% del Pil , il quale – persistendo la violazione dei parametri – può diventare una vera e propria multa.

2.3 Il 30 gennaio 2012 i rappresentanti degli esecutivi dei Paesi dell’Unione costituenti il Consiglio europeo hanno approvato un nuovo patto di bilancio che radicalizza i precedenti Trattato di Maastricht (1992) e Patto di stabilità e crescita (1999): si tratta del Trattato su Stabilità, Coordinamento e Governance, meglio noto come Fiscal Compact. E’ bene precisare che tale trattato non è mai passato al vaglio del Parlamento europeo, né è stato proposto come direttiva dalla Commissione, che in quanto tale avrebbe dovuto essere approvata dallo stesso Parlamento europeo. Quest’ultimo autonomamente ha approvato una mozione contro il “fiscal compact”, senza che tale pronunciamento abbia acquisito un valore cogente. Con buona pace del potere reale di questo Parlamento. A luglio 2012 il Parlamento italiano ha ubbidito a Bruxelles approvando il Fiscal compact, impegnandosi quindi a portare in 20 anni il rapporto Debito/Pil al di sotto del 60% (un onere che varrebbe 40/45 miliardi l’anno). Assecondando una tale orgia di rigorismo neoliberista, il nostro Parlamento in data 24 dicembre 2012 recepiva ancora una volta senza fiatare le prescrizioni di Bruxelles e approvava la modifica dell’articolo 81 della Costituzione introducendovi il pareggio di bilancio: una norma capestro imposta al bilancio preventivo del Paese, che ha reso di fatto illegali (incostituzionali) persino le politiche espansive socialdemocratiche auspicate da lord Keynes e, con esse, la possibilità per lo Stato di operare in deficit, opzione prevista ed anzi auspicata dai manuali di economia politica nei periodi di crisi, per rilanciare gli investimenti e ridare fiato all’economia. Un vero e proprio vulnus inferto al dettato costituzionale italiano e ai suoi originari principi di fondo.

3.Penalizzazioni e “aiuti” pagati a caro prezzo

3.1 E’ bene tornare a precisare che non si tratta di errori ma di consapevoli scelte di classe, a vantaggio del capitalismo continentale (in particolare dei capitali più forti). La litania “Se si riduce la spesa pubblica, si riduce il rapporto debito/Pil” recitata come un’ovvietà dai media di regime è in realtà una flagrante falsità. Le misure di austerità possono anche ridurre il deficit e quindi contenere il numeratore della suddetta frazione, ma contemporaneamente deprimono gli investimenti e fanno cadere il reddito: così, contestualmente al contenimento del deficit annuo, si riduce in eguale o maggior misura il denominatore del rapporto debito/Pil, cioè il tasso di crescita del Paese, incrementando quindi anziché ridurre il rapporto in questione. L’esito fallimentare delle politiche di austerity e delle prescrizioni del Fiscal compact era perfettamente visibile al termine del primo anno del governo Monti quando, insieme all’aumento della disoccupazione e al crollo della produzione e degli ordinativi industriali, il rapporto debito pubblico/Pil aveva continuato a lievitare. In realtà i sacrifici delle classi popolari, italiana e non, e i conseguenti risparmi di bilancio non sono tanto serviti a sanare il debito pubblico degli Stati in rapporto al Pil quanto piuttosto, in prima istanza, a saldare i conti con l’estero dei Paesi debitori e, in seconda istanza, a riequilibrare possibilmente i differenziali di produttività. Di ciò, un esempio flagrante quanto catastrofico è stata la Grecia: delle 23 tranches di finanziamento, concesse a partire dal 2010 appunto “per salvare la Grecia”, per un totale di 206 miliardi di euro, ben il 77% è andato a saldo del debito con l’estero ed è quindi tornato alle banche creditrici (tedesche e francesi); solo il 23% è arrivato al bilancio greco, di cui peraltro solo una parte destinato a spese sociali. In definitiva, dopo 2 anni dal primo finanziamento, la disoccupazione ellenica è passata dal 10 al 25 % e il salario reale è sceso di 21 punti percentuale; ma, nonostante ciò, il rapporto tra debito pubblico e Pil è aumentato.

3.2 Con l’applicazione del Fiscal Compact, l’ortodossia liberista e la vigilanza nei confronti di quella che viene stigmatizzata come “indisciplina fiscale” si sono concretizzate in precise procedure “di riparazione”. A nulla è valsa la constatazione che già nel vivo della crisi capitalistica, nel 2009, tutti i Paesi membri superavano il 3% nel rapporto deficit/Pil e il 60 % nel rapporto debito/Pil (tutti indisciplinati?). Con il varo del Patto fiscale, scattava la Procedura per Deficit Eccessivi (PDE), con cui sono stati imposti “Programmi di riforme strutturali” nei confronti di 23 Paesi su un totale di 27 Paesi membri: nella sostanza, è stato questo un modo per imporre su base normativa il neoliberismo. Anche le deroghe all’applicazione stretta del credo rigorista – ad esempio, tramite un allungamento dei tempi di rientro dal debito – comportavano pesanti contropartite in termini di flessibilizzazione del mercato del lavoro, riduzione del sistema di welfare, privatizzazione dei servizi essenziali. Come si è visto emblematicamente per il caso della Grecia, un tale scambio a perdere è valso in particolare per i cosiddetti “aiuti” ai Paesi in difficoltà. Per questi ultimi è stata prevista la possibilità di attingere alle risorse del Meccanismo Europeo di Stabilità (o ESM, acronimo di European Stability Mechanism), più noto come “Fondo Salvastati”. Tuttavia una tale possibilità è stata vincolata alla preventiva adesione al Fiscal Compact e alla firma di Memorandum d’Intesa (Memorandum of Understanding), i famigerati accordi in cui si precisano le condizioni capestro, dal punto di vista sociale, cui il Paese si deve sottoporre per l’attivazione del Fondo. Gli stessi acquisti da parte della Banca Centrale Europea (BCE) di titoli di stato a breve emessi da Paesi in difficoltà economica conclamata (operazione denominata OMT, acronimo di Outright monetary Transactions) sono risultati delle provvidenze limitate, in grado solo di tamponare gli effetti peggiori dell’approccio monetarista, non certo di cambiarne radicalmente il segno economico-sociale che resta regressivo. Anzi, in qualche caso tali iniziative hanno avuto esiti socialmente più che discutibili: come quando, nel dicembre del 2011, la BCE ha distribuito 500 miliardi di euro a 523 banche al tasso dell’1% e queste ultime hanno a loro volta acquistato il debito degli Stati a un interesse 4/5 volte maggiore. Risultato: le banche hanno guadagnato, i cittadini hanno perso.

3.3 L’Italia ha eseguito con grande zelo i “compiti a casa” prescritti da Bruxelles (e Berlino). E’ stupefacente, ad esempio, ripercorrere l’interminabile elenco di privatizzazioni, attuate dagli anni 90 in poi anche grazie alla conversione “al libero mercato” di quella che fu “la sinistra”. 1990/92: le leggi 142/90 e 498/92 autorizzano gli Enti locali a gestire i servizi pubblici tramite s.p.a. private. 1992: con la L.359/92 gli enti pubblici economici (IRI,ENI,INA,ENEL) vengono trasformati in s.p.a. 1994: la L.474/94 (governo Berlusconi 1) fissa le regole per le privatizzazioni. 1998: il d.l.58/98 (governo Prodi 1) fissa le regole per la capitalizzazione in borsa. Fine anni 90: transitano verso i privati ENI, Telecom, Autostrade, ENEL (governi Prodi, D’Alema e Amato). 2000: l’IRI viene messo in stato di liquidazione, che nel 2002 troverà compimento. 2001/06 e 2009/11: nel decennio di Berlusconi-Lega si prosegue senza sosta: vengono privatizzate altre banche, Finmeccanica, Seat, beni culturali (Patrimonio s.p.a) e demaniali (infrastrutture s.p.a.). 2011/16: si prosegue con i governi tecnici e bipartisan ed è la volta di Poste italiane e ENAV. Davanti ad una tale sequenza, è davvero paradossale che nel 2018, con raccomandazione del 7 marzo, la Commissione europea abbia chiesto “una tempestiva attuazione delle privatizzazioni” (sic!). Come abbiamo visto, l’impegno privatizzatore non è stato l’unico “merito” del nostro Paese, la cui “virtù” e “disponibilità al sacrificio” si sono distinte anche in tema di contenimento della spesa pubblica e dei redditi da lavoro. Lo stesso reddito pro capite italiano a partire dal 1996 non ha mai smesso di scendere. In considerazione dei suddetti “meriti”, la domanda (retorica) da porre in tutta evidenza è la seguente: per quale motivo un lavoratore o un disoccupato avrebbero dovuto votare questa cosiddetta sinistra, votata all’ideologia europeista e dunque complice delle politiche di austerity? In base a quale malriposto senso di appartenenza avrebbero dovuto premiare una sinistra divenuta irriconoscibile dal punto di vista di classe?

4.Continua il processo involutivo che divarica centro e periferie

4.1 Sin qui sono stati evidenziati gli effetti anti sociali dei dispositivi posti in essere con l’inaugurazione dell’Ue e della sua moneta unica, a scapito della maggioranza della popolazione continentale. Ma con ciò è stato anche segnalato un incipiente processo involutivo, che minaccia di disgregare la stessa compagine dei Paesi membri: a dispetto della denominazione di “Unione”, non si è prodotta infatti alcuna integrazione ma, al contrario, l’ulteriore divaricazione di economie già in partenza disuguali. Intanto va ricordato che il valore dell’euro, come tale, è risultato già dall’inizio sottovalutato per i Paesi più competitivi (vedi Germania) a tutto vantaggio del loro export e, viceversa, sopravvalutato per quelli meno competitivi, i cui scambi commerciali con i Paesi extra-Ue sono stati quindi penalizzati dalla moneta unica. Poi, sono stati gli stessi parametri adottati nella Zona euro ad alimentare ulteriormente la divaricazione. In un nostro precedente documento avevamo richiamato una documentata ricerca, condotta da Nomisma nel 2015, che è il caso di citare nuovamente: i dati degli ultimi due decenni dicono che a partire dall’introduzione dell’euro si è prodotto un “ridimensionamento di base produttiva senza precedenti nella storia italiana, se si fa eccezione per le distruzioni della Seconda guerra mondiale”. Il “potenziale manifatturiero” italiano, in termini di capacità produttiva e di numero di aziende operanti, è precipitato a fronte del progressivo aumento di quello tedesco. Ma, annota ancora la ricerca, la forbice suddetta ha riguardato i Paesi dell’area mediterranea nel loro complesso (Grecia, Portogallo, Spagna, Italia e Francia) in contrapposizione ai Paesi del Nord Europa (Germania, Olanda, Austria e Finlandia): si è cioè attivato un vero e proprio “processo di polarizzazione geografica centro-periferia”, tendente a creare all’interno di una stessa area valutaria una sperequata specializzazione per aree economiche , da un lato in direzione di un monopolio manifatturiero (tedesco) e dall’altro verso una sostanziale desertificazione produttiva (in particolare del Mezzogiorno d’Italia).

4.2 Lo scorso 22 gennaio, ad Aquisgrana, Germania e Francia hanno siglato un importante trattato di cooperazione. L’impressione è che la scena mediatica italiana non abbia concesso all’evento l’attenzione che esso avrebbe meritato. Si tratta di un patto che impegna i due contraenti a ricercare un’intesa preventiva prima di ogni grande evento europeo. A fronte di un’Europa sempre più divisa, i due “Stati guida” dell’Ue cercano una maggiore integrazione a due: si punta a consolidare “una zona economica franco-tedesca con regole comuni”, coordinata da un apposito Consiglio e con periodiche riunioni congiunte dei Consigli dei Ministri dei due Stati. Ma essenziale è anche il capitolo sulla cooperazione militare, anch’essa coordinata da un Consiglio franco-tedesco per la difesa e la sicurezza, tesa ad assicurare sostanziosi e reciproci vantaggi: la Germania si pone sotto l’ombrello nucleare francese e ottiene un esplicito appoggio della Francia nel rivendicare un posto tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu; la Francia si guadagna il consenso tedesco alla sua politica imperialista in Africa, praticata ai danni dell’area di Paesi cui è stato imposto il dominio monetario del Franco CFA (Franco delle colonie francesi d’Africa) e il conseguente scambio commerciale ineguale. Il patto, lungi dal presiedere ad un rafforzamento dell’Ue, conferma – se mai qualcuno avesse dubitato di ciò – che gli Stati esistono; soprattutto quelli più forti. E fanno i propri interessi. Il patto di Aquisgrana si configura insomma come un matrimonio d’interesse tra due Stati: non dunque integrazione europea, ma co-direzione a due, in vista dell’interesse dei medesimi due. Agli altri non resta che prendere atto e adattarsi. Ma occorrerebbe anche prendere atto del fatto che la natura, il carattere strutturale di questa Europa, tutt’altro che solidale e teso all’integrazione, non è cambiato; anzi va sempre più assestandosi in tutt’altra direzione. Motivo in più per lasciare i Trattati Ue al loro destino e tornare allo spirito originario della nostra Costituzione nata dalla resistenza al nazi-fascismo.

5.Cambiare strada

5.1 L’elezione della tedesca Ursula von der Leyen a Presidente della Commissione europea e della francese Christine Lagarde a Presidente della Bce ha confermato il partenariato franco-tedesco. Vista anche la loro biografia, c’è da scommettere che non sarà certo questa nuova coppia di comando a cambiare radicalmente le carte sulla tavola dell’Ue. Il nucleo ideologico duro è e rimarrà quello della “libera e non falsata concorrenza” (leggi: nessun intervento pubblico a condizionare il libero gioco del mercato). E’ il motore che ha sin qui determinato l’austerità, il rigore di bilancio, la concertazione; e l’imposizione di “piani di aggiustamento strutturale” come il Jobs Act in Italia e la Loi du Travail in Francia. Potrà addolcirsi l’accompagnamento, per assecondare qualche orecchio più delicato, ma la musica resterà la stessa. Così come, sul piano dell’agibilità democratica, non è destinato a cambiare un assetto istituzionale che costituisce un vero e proprio attacco alla sovranità popolare conquistata nel ‘900 dalle repubbliche costituzionali: caratterizzato da un processo di sovranazionalizzazione che ha sancito il dominio di una “costituzione senza popolo”, quella dei Trattati, e la contestuale decostituzionalizzazione dei territori nazionali, in nome dello statu quo assicurato da quello che Mario Draghi ha chiamato con inquietante metafora il “pilota automatico” operante a Bruxelles. Oggi questo modello, che dalla Germania ha imposto l’austerity a tutta l’Eurozona facendo pagare prezzi pesanti ai Paesi “periferici”, sta mostrando il suo tallone d’Achille: il meccanismo rigorista si è inceppato sulla spinta delle sue stesse regole. I dati del 2° e 3° trimestre di quest’anno indicano per la Germania un crollo della produzione industriale e un netto calo delle aspettative di produzione. L’indice del manifatturiero ha toccato il minimo negli ultimi sette anni e le aziende tedesche annunciano consistenti tagli del personale. La Germania paga la fragilità del suo proprio modello: dedicare la propria economia e la propria vita interna all’export (che al 2018 occupa il 48% del Pil) comporta esporsi al calo della domanda estera. Ed è precisamente quello che sta avvenendo con il ripiegamento degli indici globali, cui occorre aggiungere gli effetti depressivi della guerra dei dazi aperta da Trump e le incertezze che suscita una Brexit no deal, cioè non concordata. A ciò si aggiunge una pericolosa emergenza in campo bancario che arriva a preoccupare colossi quali Deutschebank e Commerzbank. I problemi della Germania, che annunciano il rafforzarsi dei venti di destra, sono destinati ad avere ricadute sull’intera Ue: si può scommettere che, in tale congiuntura, Bruxelles sarà disponibile al dialogo con voci responsabili, ma non a concessioni sulla scia di sparate “sovraniste”.

5.2 Il Pci ha da tempo dichiarato irriformabile questa Ue. Sul piano formale, sappiamo che per cambiare i Trattati occorre l’unanimità di tutti i Paesi membri: dire che ciò sia un’occorrenza improbabile è usare un eufemismo. Ma vi sono soprattutto vincoli strutturali che rendono la suddetta ipotesi del tutto impraticabile. Sul piano sostanziale, infatti, va ricordato che per superare gli squilibri interni occorrerebbe un impegno di risorse da far impallidire quelle attualmente rese disponibili dal bilancio Ue; e, all’interno di queste, si renderebbero necessari consistenti trasferimenti netti dai Paesi più ricchi a quelli meno solidi: un’eventualità che la Germania – e segnatamente l’elettore tedesco – non accetterebbe mai. Il bilancio Ue del periodo 2014-2020, che va ora a concludersi, ha fatto registrare un impegno di risorse di appena l’1,2% del Pil continentale. In proposito, è stato calcolato che, per rilanciare la competitività dei Paesi “periferici” quella percentuale dovrebbe salire al 4,5%, con relativo esborso netto di una quota non indifferente da parte della Germania. Non è difficile prevedere che, piuttosto che incappare in una simile eventualità, i dirigenti tedeschi, sempre più pressati da una destra agguerritissima (e data in ascesa dai sondaggi elettorali), preferirebbero lasciare l’Ue al suo destino. Quindi, la scelta è tra rimanere come siamo oppure rompere da sinistra la gabbia dell’Ue e dell’euro. Il Pci, assieme ad alcuni Partiti comunisti europei, propone la seconda di queste strade, non rinunciando comunque ad una solidarietà politica continentale. Per questo adotta la formulazione utilizzata tra gli altri dalla compagna Sara Wagenknecht: “Unione intergovernativa di sovranità nazionali democratiche”. Sappiamo che potrebbe non essere affare di un giorno; ma bisogna mettersi su tale strada, riprendendo tra l’altro l’abitudine ad una serrata controinformazione.

One Comment

  1. Massimo

    Complimenti a Bruno Steri per la sua analisi che non fa una piega. Io però non parlerei di fallimento dell’Unione Europea, nel senso che era stata pensata progettata e costruita proprio per imbrigliare i lavoratori del continente (e in particolare quelli dei cosiddetti PIGS) senza difesa di fronte ad un potere sovranazionale dispotico e autoritario (altro che Salvini !) capace di far girare indietro di decenni le lancette della storia, distruggendo diritti tutele e livelli salariali.

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