Ex ILVA di Taranto: breve sintesi di una storia infinita

La vicenda dell’impianto siderurgico ex Ilva rappresenta uno dei più complessi casi industriali, ambientali e sociali della storia italiana del dopoguerra.

Nato con l’obiettivo di sviluppare il lavoro al Sud, nel tempo è diventato scenario di contraddizioni tra produzione, salute pubblica, ambiente e giustizia.

L’impianto dell’Italsider, azienda pubblica legata all’IRI, cresce rapidamente assumendo dimensioni internazionali e diventando uno dei centri più grandi in Europa.

Essendo una tra le poche specializzate nella produzione di acciaio a ciclo integrale, la priorità della gestione è tutta concentrata sulla produzione, trascurando e minimizzando il gravissimo impatto ambientale per il quale non si assunsero le dovute e necessarie precauzioni, al punto che nel tempo l’aumento di casi di malattie professionali comincia a sollevare gravi preoccupazioni per la salute pubblica dell’intera città.

Nel 1995, in piena euforia per le privatizzazioni, lo stabilimento viene acquistato dal gruppo Riva, che ne sfrutta le elevate capacità produttive ricavando enormi profitti privati dovuti anche al mancato rispetto dell’impegno a provvedere alla bonifica e alla messa in sicurezza ambientale degli impianti, causando gravissimi problemi sanitari all’intera città e al circondario.

Non solo: dopo la privatizzazione, la gestione Riva avvia una forte razionalizzazione del personale grazie all’utilizzo delle prime CIGS per ristrutturazione nonché alle uscite volontarie.

A causa dell’elevato tasso di tumori e malattie respiratorie e il grave inquinamento da diossine, metalli pesanti e polveri dell’intero territorio, nel 2012 la Magistratura ordina il sequestro di alcune aree dell’ILVA con l’accusa di disastro ambientale.

L’inchiesta “Ambiente Svenduto” porta all’arresto di dirigenti e membri della famiglia Riva, e al parziale sequestro degli immensi guadagni che la famiglia aveva accumulato ignorando consapevolmente, e quindi in modo doloso, gli obblighi assunti riguardo alla messa in sicurezza e alla riduzione dei danni ambientali e sanitari.

L’inchiesta evidenziò immancabilmente un vero e proprio sistema di omissioni e complicità anche politiche.

La progressiva chiusura degli altoforni da parte della Magistratura causò, e continua ancor oggi a causare, un aumento dei periodi di cassa integrazione ordinaria per calo produttivo e di sospensioni di lavoratori in attesa di ricollocazione.

Nel 2013 per evitare il fallimento, la società viene commissariata dallo Stato.

Viene attivata la cassa integrazione straordinaria per crisi aziendale che interessa un numero sempre crescente di lavoratori.

Nel 2018 la gestione passa ad ArcelorMittal, colosso mondiale della siderurgia a capitale misto originariamente indiano, che si era impegnata a realizzare un piano di rilancio ambientale, produttivo ed occupazionale.

Ma già nel 2019 tenta di farsi da parte, sostenendo l’assenza di protezioni legali (“scudo penale”) nei confronti delle numerose cause per i danni alla salute ricevuti da un sempre maggior numero di lavoratori e di cittadini.

L’accordo di cessione ad ArcelorMittal prevedeva la riassunzione graduale dei lavoratori. In realtà vengono bloccate le riassunzioni e migliaia di lavoratori restano in cassa integrazione e straordinaria.

Dal 2021, con l’ennesimo gioco delle tre carte, l’azienda diventa “Acciaierie d’Italia”, partecipata da ArcelorMittal e dallo Stato tramite Invitalia, ma l’operazione, come prevedibile, non produce alcun effetto sul piano produttivo e occupazionale, né tantomeno su quello dei gravissimi problemi ambientali e di salute pubblica.

I periodi di cassa integrazione ordinaria alternata a cassa integrazione straordinaria in particolare nei reparti fermi continuano e anche l’indotto subisce un durissimo colpo con licenziamenti e contratti sospesi.

Inevitabilmente nel gennaio 2024 ArcelorMittal si sfila e lo Stato riprende il controllo tramite amministrazione straordinaria, senza che ciò comporti alcun progresso nella soluzione dei problemi, infatti la produzione è tuttora ai minimi storici, con ampio ricorso alla cassa integrazione straordinaria per cessazione o ristrutturazione.

A maggio 2025 si verifica un grave incidente all’Altoforno 1: un incendio causato dalla totale assenza di manutenzione ha causato il ferimento di 5 lavoratori e la fuoriuscita di sostanze nocive nell’aria.

La Procura della Repubblica di Taranto ne dispone il sequestro, con conseguente blocco delle attività, dando così vita a un ulteriore significativo aumento del già cospicuo ricorso alla cassa integrazione.

L’attuale governo, come prevedibile, dà inizio ad uno scontro durissimo con la Magistratura di Taranto aprendo un contenzioso finalizzato ad allungare i tempi per l’assunzione di provvedimenti realmente efficaci.

NOI COMUNISTI DOBBIAMO MOBILITARCI, ADERENDO AD OGNI INIZIATIVA DI LOTTA CHE RIAFFERMI IL DIRITTO DEI LAVORATORI E DEI CITTADINI DI TARANTO ALLA DETERMINAZIONE DEL FUTURO PROPRIO E DEL PROPRIO TERRITORIO.

NOI COMUNISTI DOBBIAMO LOTTARE PERCHÉ VENGA ELIMINATO LO SCUDO PENALE CHE TUTELA E HA SEMPRE TUTELATO SOLO I PRIVATI A DANNO DEI LAVORATORI E DELL’AMBIENTE.

DOBBIAMO DENUNCIARE LA SUBALTERNITÀ DEL GOVERNO ATTUALE E DI TUTTI QUELLI CHE LO HANNO PRECEDUTO AGLI INTERESSI DEGLI SPECULATORI PRIVATI E DEL CAPITALE. NOI COMUNISTI DOBBIAMO LOTTARE PER IL RITORNO AD UNA VERA NAZIONALIZZAZIONE DEGLI INTERI IMPIANTI PERCHÉ SOLO COSÌ SARÀ POSSIBILE RIAFFERMARE IN MODO DECISO IL DIRITTO AD UN LAVORO SICURO E ALLA DIFESA DELL’AMBIENTE.

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