Quattordici anni. Non sapeva ancora chi sarebbe diventata, e non potrà mai scoprirlo. Uccisa da chi chiamava “primo amore”, uccisa perché voleva essere libera. Libera di dire no. Libera di andarsene. Libera, semplicemente.
Un altro femminicidio. Un’altra giovane vita spezzata. E intanto, ci stiamo anestetizzando. Ogni nuova vittima sembra scivolarci addosso come fosse una notizia qualunque. Ma non è una notizia. È un fallimento. Collettivo, culturale, sociale. È la prova di una società allo sbando, che non riesce a proteggere, non educa al rispetto, e disarma chi dovrebbe essere tutelata.
Cosa stiamo insegnando alle nuove generazioni? Che l’amore coincide con il possesso? Che chi dice “ti amo” può decidere della vita e della morte dell’altro? Ci raccontiamo che siamo in un’epoca di diritti, ma cosa vale un diritto se non può essere esercitato da una ragazza perché donna, perché morta?
Questo non è solo un grido femminista, è un grido di coscienza collettiva. Serve un cambio radicale. Serve una rivoluzione culturale che affondi le sue radici nella giustizia sociale, nella liberazione dei corpi e delle menti. Perché, come disse Ravera, “le donne libere dagli uomini, entrambi liberi dal capitale”, questa è la via.
Perché il patriarcato non è solo cultura, è struttura economica. È il prodotto marcio di un capitalismo che insegna che tutto è possesso: se non posso averti, ti distruggo. È in questa logica predatoria che cresce l’odio, che matura la violenza. Dobbiamo spezzare questa catena, subito.
Nessuna vera emancipazione sarà possibile finché il potere continuerà a esercitarsi come dominio sull’altro, finché la libertà delle donne continuerà a essere pagata con la vita.
Non serve più solo indignarsi. Serve organizzarsi, lottare, costruire un’alternativa. Per Martina, Ilaria, Sara, Maria, Eleonora, Eliza, Cinzia, Laura, Sabrina, Ruslana, Aurianne, Anna, Concetta, Roua, Nicoleta, Giulia. Per cambiare davvero.
A.Do.C.