19 aprile 1968 a Valdagno: la protesta dei lavoratori Marzotto e la caduta della statua

Era il 19 aprile del 1968, alla vigilia del famoso “maggio” francese, quando a Valdagno venne abbattuta la statua di Gaetano Marzotto.

I quasi seimila lavoratori della Marzotto erano scesi in sciopero e avevano occupato la fabbrica per opporsi alle condizioni imposte dall’azienda. Condizioni che peggioravano quelle non certo ottimali. Venivano attaccati salario, salute e occupazione.

Di quella lotta si scrisse: “l’unità operaia-popolare ha spezzato il sistema feudale di Marzotto e ha fondato un sistema di forze nuove che ha visto legati i commercianti, gli studenti e i contadini alla classe sfruttata dei lavoratori della fabbrica; la città nuova, la Valdagno democratica nasce lì”.

Altri tempi per il movimento dei lavoratori, non certo per lo sfruttamento che sta diventando sempre più feroce e per la cancellazione dei diritti che i lavoratori avevano conquistato con le grandi lotte unitarie di massa e, anche, con quella azione del 19 aprile di cinquantasette anni fa a Valdagno.

Oggi, di quella lotta resta solo un ricordo sbiadito e la fotografia della statua di Gaetano Marzotto divelta e gettata a terra. Un simbolo di quella che fu l’aspirazione di riscatto del proletariato (una parola oggi abbandonata, diventata obsoleta nonostante la validità e l’attualità del significato) contro la protervia padronale. Fu, plasticamente, la caduta del mito (del tutto esagerato, anzi falso) del “padrone buono”, di quel “padre” che tanto faceva per i “suoi operai” ma che, nella realtà, li sfruttava in maniera spesso brutale e che (come dichiarato dal “giovane” Gaetano Marzotto qualche anno fa al processo Marlane-Marzotto) pensava solo ai suoi soldi.

A distanza di cinquantasette anni è bene ricordare cosa successe a Valdagno, avere memoria della forza del movimento operaio che non fu certo “un miracolo” ma effetto di un lungo lavoro di presa di coscienza dei propri diritti, di tutte le lotte che hanno permesso la conquista di diritti oggi sempre di più messi in discussione e cancellati. Il tentativo, allora, fu quello di affrancarsi da una mentalità da “sudditi” e diventare protagonisti dello sviluppo economico e industriale del paese. O almeno tentare di farlo mantenendo la schiena diritta. Domandiamoci, oggi, se quell’aspirazione può esistere ancora? Possiamo sperare, ancora, che non si subisca passivamente qualsiasi decisione padronale ritenuta ineludibile? Che si possa alzare la testa e con dignità e rigore lottare per una società migliore dove non si possa più sfruttare la fatica e il lavoro altrui? Possiamo ancora sperare che il capitalismo non sia l’unico sistema possibile e che il profitto individuale non sia più importante del benessere collettivo, della vita e della salute di chi lavora?

La risposta è “sì”, ma è necessario prendere coscienza e lottare uniti. Senza perdersi nel vittimismo, nelle polemiche fratricide, nella rassegnazione che inevitabilmente porta alla sconfitta.

Dipende dalle forze politiche democratiche, certo, dipende da un “nuovo orgoglio sindacale”, che in questi decenni è stato troppo spesso abbandonato in una concertazione debole che tendeva al “contenimento del danno”, ma soprattutto dipende da ognuno di noi, da chi vive del proprio lavoro, da chi vorrebbe lavorare e gli è impedito dalle “leggi del mercato”.

Prendiamo coscienza che è possibile cambiare lo stato di cose presente.

Nulla ci impedisce di lottare per i nostri diritti se non la nostra apatia, la nostra paura, la nostra rassegnazione.

Ricominciamo a lottare come fecero a Valdagno in quelle giornate di tanto tempo fa. Iniziamo a farlo andando a votare e votando Sì ai 5 referendum del 8 e 9 giugno che servono cancellare quelle norme che penalizzano chi lavora.

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