TESI 2

LA STORIA DEL MOVIMENTO COMUNISTA. ELEMENTI PER UN BILANCIO

IL NOVECENTO E LA SVOLTA DELL’89

  1. Sono trascorsi ormai 25 anni dallo scioglimento dell’Urss, ultimo atto della dissoluzione del “blocco sovietico” iniziata nel 1989. Gli effetti di quel crollo, salutato anche dalla sinistra di orientamento libertario o radical-democratico come un evento liberatorio, che avrebbe aperto una fase di nuova espansione per le idee del socialismo e posto le basi di un mondo pacificato, sono oggi visibili a tutti, come l’estrema fallacia e superficialità di quei giudizi. La riflessione, il dibattito e la ricerca sulle cause del crollo rappresentano al contrario un lavoro ancora in gran parte da fare, che interessa e riguarda i comunisti più di chiunque altro. Il movimento comunista, le sue idee, i processi concreti che ha innescato costituiscono una parte fondamentale della storia del XX secolo. Né quella storia, iniziata quasi un secolo prima col Manifesto di Marx ed Engels e che ha avuto nella Rivoluzione d’Ottobre una svolta e un salto di qualità decisivo, può dirsi conclusa; al contrario riteniamo che essa contenga i germi del possibile mondo di domani. Certamente i fatti del 1989-91 sono stati una cesura storica, e oggi siamo in una fase completamente diversa. Tuttavia nella dialettica della storia esperienze rilevanti come quella del comunismo novecentesco continuano ad essere operanti anche dopo la conclusione della loro parabola.
  1. Il processo di liberazione dei popoli, la decolonizzazione, l’emergere come protagonisti sulla scena mondiale di nuove classi, di nuovi popoli e Stati (alcuni dei quali sono oggi l’argine più forte allo strapotere della finanza globalizzata), l’affermazione di nuovi diritti, dello “Stato sociale” e di una idea della democrazia che investa anche il terreno economico e ponga in termini concreti la questione del potere, della partecipazione e della gestione della cosa pubblica da parte delle masse organizzate, la stessa esperienza del partito di massa costituiscono eredità del comunismo novecentesco tuttora feconde. Anche per questo non ha senso ipotizzare improbabili “ritorni a Marx” rimuovendo l’intera vicenda del movimento comunista dal 1917 in avanti, ossia del movimento reale che ha abolito lo stato di cose allora esistente.
  1. Come comunisti riteniamo molto più sensato considerare la storia del comunismo del novecento – nella sua ricchezza, pluralità ed estrema articolazione interna – un capitolo fondamentale di quel “processo di apprendimento” (Losurdo) di portata storica che le classi e i popoli oppressi sperimentano, tra mille difficoltà e contraddizioni, nel corso della lotta secolare per l’emancipazione; così come riteniamo indispensabile collocare questa vicenda nella storia complessiva del XX secolo, nella quale, oltre alla rivoluzione, al movimento operaio, ai movimenti di liberazione, al movimento delle donne hanno giocato il proprio ruolo anche le classi dominanti, l’imperialismo, i fascismi, le forze conservatrici e quelle reazionarie. Insomma, poiché, come marxisti, siamo convinti che la storia sia in primo luogo storia di lotta di classi, riteniamo sbagliato abbandonare questo criterio nell’analizzare la vicenda del comunismo del novecento, quasi che essa si fosse svolta in laboratorio e non nel fuoco di un conflitto tra forze sociali, politiche, militari e anche statuali, che ha riguardato l’intero pianeta. È in questo senso che la categoria di “sconfitta”, che presuppone l’esistenza dell’avversario, ci pare più convincente di quella, liquidatoria, di “fallimento”.
  1. Naturalmente rispetto alle sfide storiche che il movimento comunista aveva dinanzi a sé – il problema dello Stato e la costruzione di un’autentica democrazia socialista, l’organizzazione di un’economia che superasse l’anarchia del mercato e fosse finalizzata al soddisfacimento dei bisogni umani e al tempo stesso efficiente, il problema della divisione del lavoro, e molti altri – non tutte le risposte sono state all’altezza delle aspettative, e non sono mancati limiti, errori e “fenomeni di degenerazione” (Togliatti) anche gravi. Consideriamo però anche questi elementi parte della nostra storia, quelli anzi sui quali esercitare maggiormente la nostra riflessione critica, con la consapevolezza che i problemi irrisolti di ieri costituiscono altrettante sfide per i comunisti di oggi e di domani. Ma soprattutto con la certezza che la storia non è finita e quella del comunismo del XXI secolo è ancora tutta da scrivere.

L’ESPERIENZA STORICA DEL PCI E I SUOI LASCITI

  1. Nella storia del movimento comunista un posto particolare occupa il comunismo italiano. Il nostro paese ha visto infatti lo sviluppo del principale partito comunista dell’Occidente, frutto di un intreccio fecondo tra un particolare contesto e un’elaborazione di grande rilievo. Ne sono

derivate una teoria e una prassi specifiche, quelle della “via italiana al socialismo”. Alla base di tale esperienza vi sono in particolare i contributi di Gramsci e di Togliatti. Da Gramsci, e dalla sua strategia dell’egemonia, a sua volta legata al pensiero di Lenin, i comunisti italiani hanno ricavato la convinzione che un progetto di transizione al socialismo in un paese avanzato prevede un lungo percorso, un “processo di apprendimento” nel quale la classe lavoratrice si radica nella società, ne occupa casematte e trincee, diviene di fatto classe dirigente, per compiere quindi il passaggio che riguarda il livello dello Stato. A tal fine, nella dialettica tra forza e consenso tipica della lotta politica, al centro è posto il tema del consenso e degli strumenti per la sua conquista. Di qui l’idea del Partito come “intellettuale collettivo”. La politica di massa, l’ispirazione di massa della politica comunista, è la linea di Gramsci già durante l’esperienza dei consigli di fabbrica; è la strada indicata dalle Tesi di Lione, che indagano sulle “forze motrici” della rivoluzione italiana; ma è anche la politica seguita dal Pcd’I durante il fascismo, con la ricostruzione delle organizzazioni di classe e col lavoro all’interno degli organismi di massa del regime. È questa la politica che consente al Pcd’I di rimanere una forza viva e presente nel Paese, e di porsi poi alla testa della lotta di Liberazione, nella quale i comunisti svolgono un ruolo di avanguardia e unitario.

  1. Nel dopoguerra il Pci dispiega pienamente questa impostazione. La strategia di Togliatti si fonda su tre cardini: partito nuovo, ossia partito comunista di massa; democrazia progressiva, ossia un modello di democrazia che si afferma nel vivo della società, affiancando a un’autentica democrazia rappresentativa (basata su partiti di massa, sistema proporzionale, centralità del Parlamento) il moltiplicarsi di strumenti di partecipazione e potere dei lavoratori organizzati; riforme di struttura, vale a dire spostamento dei rapporti di forza tra le classi attraverso riforme che modifichino i rapporti di proprietà e gli assetti di potere. Si delinea così un progetto di società socialista che garantisce pluralismo e libertà personali, individuando una sua leva nel modello “democratico-sociale” descritto dalla Costituzione. Il Pci si sviluppa dunque come partito di massa, radicato nella classe operaia ma in grado di estendere la sua influenza anche in altri ceti e aggregare notevoli energie intellettuali. Con le cellule nei luoghi di lavoro, le sezioni, le Case del popolo ecc., il Pci costruisce un legame organico con le masse popolari, costituendo uno straordinario strumento di educazione politica ma anche una scuola continua per quadri e dirigenti. Si forma una comunità di migliaia di militanti, complessa ed eterogenea, ma molto compatta grazie al centralismo democratico e a un radicato costume unitario. Dopo la morte di Togliatti, con Longo segretario, il Pci conserva tale impostazione, marcando una presenza organica nelle lotte operaie e contro la guerra del Vietnam, dialogando con lo stesso movimento studentesco.
  1. L’ispirazione di massa rimane viva anche negli anni ’70, allorché la “questione comunista”- a seguito della vittoria nel referendum sul divorzio e dei grandi successi elettorali del 1975-76 –  [modifica commissione] diventa centrale nella politica italiana come in nessun altro paese occidentale. Con la linea del “compromesso storico” il Pci di Berlinguer tenta di promuovere una “seconda tappa della rivoluzione democratica” dopo quella del 1943-47 e di portare la strategia egemonica al livello del governo del Paese. Tuttavia, soprattutto durante la “solidarietà nazionale”, la dialettica tra mobilitazione dal basso e azione politica di vertice vede una prevalenza eccessiva del secondo termine, mentre in settori del gruppo dirigente si afferma la logica delle “compatibilità”; si allenta così il legame tra il Partito e parte della sua base sociale. Accanto al crescere del politicismo si verifica inoltre un mutamento nel corpo del Partito e dei suoi gruppi dirigenti. L’apertura alla

“generazione del ’68” e gli stessi successi elettorali del 1975-76 portano nel Pci migliaia di nuovi militanti; tuttavia nei Comitati federali la presenza dei ceti medi tende a farsi preponderante, e anche tra i funzionari il ricambio generazionale è molto ampio. Intanto la strategia del compromesso storico, ostacolata da più parti (dagli apparati atlantici alla destra Dc, dal Psi all’ultrasinistra) e minata dal delitto Moro, va incontro a uno scacco. Quella italiana rimane una “democrazia bloccata”.

  1. Alla fine degli anni ’70 il Pci – la cui identità è ora in parte appannata – si ritrova dunque in una situazione di difficoltà, che aumenta nel decennio successivo con l’avanzare della ristrutturazione capitalistica e dell’offensiva neoliberista. In quel contesto, venuto meno lo sbocco politico di una lunga accumulazione di forze, in una parte significativa del Partito l’internità alla società italiana si trasforma in una tendenza all’adattamento. In tali settori l’identità comunista è sempre più avvertita come un peso, mentre sul piano culturale avanza l’eclettismo. È in questo quadro che – scomparso Berlinguer, che pur tra oscillazioni e cadute aveva contrastato tali tendenze, tentando di aprire una nuova fase – matura la liquidazione del Partito. La svolta di Occhetto alla Bolognina, all’indomani dell’apertura del muro di Berlino, suona come una sconfessione dell’autonomia e originalità del Pci tanto spesso rivendicate. È un suicidio politico gravido di conseguenze per l’intera democrazia italiana. In due anni, passando per due congressi e un lacerante dibattito di massa, un’intera cultura politica e un immenso patrimonio di esperienze vengono dissipati. Quella stessa cultura politica – dall’idea di egemonia al nesso democrazia-socialismo (che non esclude, ovviamente, momenti di scontro e di rottura), dalla “vocazione di massa” al Partito come “intellettuale collettivo”, a un centralismo democratico in cui la ricchezza del dibattito si affianca a un forte costume unitario – ha invece ancora molto da dire, e alcuni suoi elementi si ritrovano anche in esperienze di trasformazione in corso in altre zone del Pianeta. Riallacciarsi ad essa significa dunque coglierne l’ispirazione di fondo e rielaborarla criticamente, applicandone alla realtà di oggi, profondamente mutata, gli insegnamenti ancora fecondi.

I LIMITI DEL PROCESSO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA

  1. Gli eventi dell’89 determinarono anche nel nostro Paese, davanti alla marea montante della propaganda dei cosiddetti ‘poteri forti’ capitalistici, la necessità di una rilegittimazione degli ideali e della presenza organizzata dei comunisti. La risposta immediata al successivo scioglimento del Pci si concretizzò nell’impresa di avviare una “rifondazione comunista”, promossa sulla base della convergenza di forze diverse per cultura politica ma tutte comprese nell’alveo di un riferimento all’impianto teorico marxista. Non era certo un’impresa facile.

Ma, come si è detto, già i decenni successivi al grande sommovimento del 1968 avevano visto la sinistra italiana e, in essa, i comunisti impegnati in un durissimo scontro politico e di classe. Dalla fine degli anni 60 si sviluppava l’impatto della cosiddetta strategia della tensione, da Piazza Fontana in poi, con lo stragismo e il conseguente ricatto sul movimento operaio e sui suoi potenziali alleati democratici. Verso la metà degli anni ’70 si produceva un ulteriore salto di qualità, non solo all’insegna delle bombe e della provocazione da parte degli organismi deviati dello Stato ma – sullo sfondo dell’esperienza cilena minacciosamente evocata dall’allora segretario di Stato Usa Henry Kissinger – anche con la cooptazione di settori della stessa sinistra e del movimento sindacale (ascesa di Craxi e frattura dentro la Cgil portata avanti dalla componente

socialista). Ciò avvenne in concomitanza con un’offensiva reazionaria che interessò in generale il continente europeo: la liquidazione della leadership di Willy Brandt in Germania Ovest, l’uccisione di Aldo Moro (prima che il leader democristiano potesse annunciare in Parlamento un accordo politico-programmatico con il Pci), l’assassinio del premier svedese Olof Palme, il golpe spagnolo utilizzato per affermare il ruolo centrale della monarchia costituzionale dei Borboni in sostanziale continuità con il regime di Franco. Del resto già la soluzione della crisi portoghese, con la vittoria del capo dei moderati filo-atlantici Soares e la conseguente emarginazione del Partito comunista portoghese di Alvaro Cunal, aveva dimostrato la capacità di recupero dell’Occidente sui tentativi più radicali di un’effettiva alternativa di sistema. Tutti questi avvenimenti contribuirono ad allontanare concretamente la prospettiva di un’alternativa di governo in Italia. Il segretario del Pci Enrico Berlinguer si convinse della necessità di un cambiamento di linea, anche al fine di salvare il partito: si giunse così alla “Seconda svolta di Salerno”, con la quale Berlinguer annunciò la fine della “solidarietà nazionale”, un’esperienza che aveva già profondamente logorato la tenuta elettorale e organizzativa del partito stesso. Le difficoltà incontrate da Berlinguer nell’affermazione di tale svolta sono la dimostrazione di quanto quella che oggi, a giusto titolo, chiamiamo “mutazione genetica”, si fosse fortemente incuneata anche in ampi settori del Partito comunista italiano, dopo aver conquistato – con esiti già da tempo ben più degenerativi – il Partito socialista italiano. Se dunque a partire dagli anni Settanta si è raggiunto il punto più alto ma è anche iniziato il logoramento della presenza comunista in Italia, negli anni Ottanta si è prodotto lo sfondamento definitivo, con il cambio di fase del capitalismo. [modifica commissione]

  1. Da questo insieme di condizioni prende dunque le mosse all’indomani dello scioglimento formale del Pci il processo “rifondativo”. Oggi, sulla base di uno sguardo retrospettivo che copre la distanza di oltre due decenni, possiamo avanzare la tesi che a tale processo è mancata la capacità di operare una sintesi politica alta e organica, tale da offrire basi teoriche sufficientemente qualificate e produrre un nuovo personale politico adeguato all’obiettivo: condizioni – queste – indispensabili per emanciparsi dai limiti che avevano drammaticamente determinato la sconfitta dell’esperienza del socialismo realizzato novecentesco. Pur non dimenticando il contesto difficilissimo e di arretramento complessivo del quadro politico generale, sia nazionale che internazionale, in cui questa esperienza si è dispiegata e rendendo il dovuto merito alla tenacia e alla passione di tanti militanti che l’hanno fatta vivere, davanti al suo esaurirsi non ci si può tuttavia sottrarre ad un’analisi severa dei suoi limiti oggettivi e soggettivi. Che oggi è ancora tutta da farsi. Qui di seguito possiamo solo proporre qualche schematica considerazione. Si deve subito constatare che si è fallito nella costruzione di una comune e forte cultura politica dei gruppi dirigenti, che fosse in grado di far superare senza danni le difficili prove della congiuntura politica: una congiuntura sempre più caratterizzata da una grave involuzione istituzionale e morale, dalla crisi dei partiti tradizionali (sempre meno fucine di idealità e sempre più funzione del comitato elettorale di turno), da una personalizzazione della politica alimentata ad arte dalla riduzione della sua scena a spettacolo mediatico, con relativa espropriazione delle scelte fondamentali, sottratte a sedi decisionali democratiche, indebolite nei compiti e nella qualità dei loro membri, a vantaggio di ristrette cerchie tecnocratiche.
  1. Entro una temperie ideologica sostanzialmente votata all’eclettismo, si è fatto strada un approccio subalterno all’ideologia post-moderna che, seppur respinta a parole, è stata in realtà sussunta nella rimozione della questione del potere (nonché dello Stato e del suo superamento), nell’offuscarsi della centralità del conflitto tra capitale e lavoro, nella tendenza ad assecondare l’attacco ai partiti come forma di partecipazione popolare. In questo modo, il processo della rifondazione comunista è stato sospinto nello spazio asfittico della quotidianità senza il filo della storia, ovvero con l’unica necessità di gestire e contrastare il tempo breve: disarmato di un impianto strategico e di un progetto generale (per quanto in divenire) alternativo, per il quale e attraverso il quale battersi. Qui si è generata la disgiunzione tra strategia e tattica e la progressiva separazione tra momento sociale e momento istituzionale. Ogni iniziativa specifica si è risolta in se stessa producendo un consenso temporaneo che raramente si è trasformato in appartenenza e militanza: una politica dunque legata alla contingenza e all’occasione, che ha generato la ricerca di personaggi da spendere sulla scena politico-mediatica, senza il respiro lungo del pensiero.

12.In una crescente frammentazione e con il moltiplicarsi delle divisioni è stato così dissipato un patrimonio militante, con un incredibile turn-over che ha complessivamente interessato qualcosa come un mezzo milione di iscritti e dilapidato un’influenza elettorale che aveva raggiunto nella seconda metà degli anni Novanta i 3 milioni e 200 mila voti e che era proiettata verso il 10%. A riprova di quanto sia facile dissipare in pochi anni un grande patrimonio elettorale, quando esso non riposi su solide fondamenta. A ciò si è sommata, come concausa dell’insuccesso, la delusione progressivamente indotta dalla partecipazione al governo del Paese, che non ha conseguito alcun risultato sostanziale a favore dei nostri soggetti sociali di riferimento. Una delusione accentuata da forme di carrierismo politico, da lotte interne e dalla formazione di ceti politici separati dalla più genuina militanza di base, che hanno seminato sfiducia e distorto la gestione interna delle stesse organizzazioni comuniste, la sua trasparenza, il suo costume, la sua moralità.

Oggi cominciamo ad avere cognizione delle cause principali (nonché degli errori dei gruppi dirigenti) che sono state alla base di questo insuccesso.

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