TESI 4

LE RISPOSTE ALLA CRISI

QUELLA DELL’ESTABLISHMENT CAPITALISTICO…

  1. Per far fronte al tracollo strutturale del 2007, gli establishment di Usa, Ue e Giappone hanno per un verso realizzato una colossale socializzazione delle perdite convertendo in debito pubblico i debiti privati e, per altro verso, hanno fatto ricorso a massicce immissioni di liquidità nel sistema attraverso politiche monetarie espansive (bassi tassi di interesse e il cosiddetto Quantitative Easing ,letteralmente “alleggerimento o facilitazione quantitativa”, attraverso cui le banche centrali operano massicci acquisti di azioni o titoli di stato con denaro creato “ex-novo”). Sul primo fronte, quello della socializzazione delle perdite, si è andati a soccorrere lautamente il sistema bancario a suon di centinaia di miliardi. Le banche e molte imprese private sono state salvate con enormi iniezioni di denaro pubblico, tra ricapitalizzazioni, acquisto di titoli non negoziabili e garanzie prestate: Bank of England nel giugno 2009 ha stimato l’entità di questi interventi in qualcosa come 14.000 miliardi di dollari. In questo modo i debiti privati sono stati trasferiti sui bilanci pubblici: operazione di cui media e gruppi dirigenti borghesi preferiscono parlare il meno possibile. Così la seconda fase della crisi ha investito, come era prevedibile, il debito pubblico. Per mettere in sicurezza il debito pubblico, divenuto ad opera di una martellante campagna ideologica il principale ed unico responsabile della crisi, sono state proposte e somministrate medicine tutt’altro che nuove. Come sanno bene i cittadini dei Paesi europei, si è passati a smantellare il welfare, scaricando i costi della crisi sul salario indiretto (le provvidenze dello stato sociale) e su quello differito (le pensioni). Contemporaneamente, per dare fiato alle imprese e sostenere i livelli di profittabilità, si è dato luogo ad un colossale processo di precarizzazione del mercato del lavoro. Si è detto: occorre farlo per tentare di diminuire la disoccupazione, quella determinata dall’insufficienza della domanda e quella susseguente alla “sostituzione di macchine a lavoro” (la cosiddetta disoccupazione “tecnologica”). Di fatto, inducendo le imprese ad assumere lavoratori “usa e getta” si è ottenuto l’effetto di un calo della produttività del lavoro: si possono infatti costringere i precari a lavorare di più, ma non a lavorare meglio. E’ quel che è avvenuto in Italia – e in generale nei Paesi deboli dell’Ue – sulla scia delle politiche imposte da Bruxelles e Berlino, senza che con ciò si sia registrata alcuna apprezzabile inversione di tendenza rispetto al dramma della disoccupazione (che in ogni caso, come i marxisti sanno bene, serve a tenere alta la concorrenza tra i lavoratori e a tenere bassi i salari).
  1. Sul secondo fronte, quello dell’immissione massiccia di liquidità, le politiche monetarie espansive non hanno ottenuto l’esito auspicato, cioè una ripresa del credito e nuovo ossigeno per l’economia reale. Per un motivo assai semplice: a differenza ad esempio della Cina, nell’Occidente capitalistico il sistema finanziario e bancario è nelle mani di privati e, dunque, certamente interessato al miglioramento della propria patrimonializzazione ma insofferente (o indifferente) nei confronti di strategie di lungo respiro e di richieste orientate al bene pubblico. Più indietro nel tempo, non mancano ulteriori clamorose conferme di un tale esito fallimentare: l’opzione espansiva adottata da Banche centrali e governi non ha risparmiato al Giappone, dal 1989 in poi, una cronica depressione e prima ancora agli Stati Uniti, precisamente all’indomani del 1929, una fortissima depressione – nonostante il New Deal – risoltasi solo attraverso la “distruzione creatrice” della Seconda Guerra Mondiale. Va aggiunto che, sul piano globale, le politiche monetarie espansive attuate da Usa, Ue e Giappone hanno fortemente penalizzato il resto del mondo, in particolare i Paesi emergenti: il deprezzamento di una valuta di riferimento internazionale quale è il dollaro pesa negativamente su quanti sono costretti a utilizzare dollari per gli scambi commerciali e su chi vede diminuire il tasso d’interesse dei titoli di Stato statunitensi posseduti nel proprio portafoglio. Non è un caso, dunque, che proprio la Cina abbia attivato accordi commerciali bilaterali sulla base dell’uso dello yuan e, più in generale, abbia posto il tema di un superamento dell’attuale ordine monetario basato sulla valuta statunitense.

…E QUELLA DEI COMUNISTI

  1. Far passare l’idea che il capitalismo sia antistatalista è stata una colossale opera di mistificazione. Ciò che i neoliberisti chiedevano di superare era un tipo particolare di Stato, quello emerso dal conflitto di classe i cui esiti hanno prodotto un patto sociale avanzato con i lavoratori (lo Stato sociale). I capitalisti chiedevano di rompere quel patto, per aprire al profitto privato le imprese di Stato, soprattutto quelle che operavano in regime di monopolio. Marx legava la possibilità del comunismo non soltanto all’esistenza della proprietà sociale ma anche ad un elevatissimo livello di sviluppo delle forze produttive e di automazione del lavoro, con il venir meno del valore di scambio e quindi dei rapporti di mercato. Ciò presupponeva una fase di transizione, tra capitalismo e comunismo, che sarebbe stata gestita con il controllo dello Stato da parte del proletariato, e durante la quale elementi di mercato e di socializzazione avrebbero convissuto. È ciò che avvenne nella Russia di Lenin con la NEP. Ed è il medesimo problema che in seguito si sono posti i comunisti cinesi e vietnamiti, verso la fine degli anni ’70 e che oggi riguarda anche i cubani. Le società d’ispirazione socialista sopravvissute al crollo del sistema sovietico, cercano di trovare le forme adeguate per introdurre elementi di forte dinamizzazione nello sviluppo delle forze produttive.
  1. La crisi del socialismo sovietico e la rivitalizzazione di esperienze di transizione come quella cinese evidenziano l’importanza della grande questione del rapporto tra piano e mercato, tra economia pubblica e privata, con una presenza del settore pubblico che sia però tale (per estensione, qualità ed efficienza) da orientare le scelte strategiche dello sviluppo, senza di che verrebbero meno i presupposti strutturali minimi di una transizione orientata al socialismo. Si tratta cioè di riconoscere, in questo quadro, il ruolo di strumenti e meccanismi di mercato, sul piano interno e su quello internazionale, per una lunga fase di transizione, sia pure nel contesto di un complessivo orientamento socialista dell’economia, prima del passaggio a forme più avanzate di socializzazione. Il problema che si ripropone con forza all’attenzione dei comunisti è che la crisi del socialismo reale sorge prima di tutto dalla difficoltà a reggere la competizione economica e tecnologica con i paesi capitalistici più sviluppati. E se il socialismo non vi riesce, soccombe. Nell’Europa capitalista all’alba del terzo millennio, il problema non è solo di avere più presenza dello Stato (dopo l’orgia delle privatizzazioni dell’ultimo ventennio), ma anche e soprattutto di contrastare la forma subordinata al capitale che esso ha raggiunto oggi. Si tratta di conquistare un nuovo patto avanzato per i lavoratori dei Paesi dell’UE, trasformando profondamente il ruolo dello Stato: facendo si che le istanze della classe lavoratrice possano avanzare. A nostro avviso occorre quindi partire con lo stabilire alcuni principi: i beni comuni non possono essere soggetti a profitto privato; così come i servizi sociali fondamentali che devono essere pubblici e di tipo universalistico. Uno Stato che programmi lo sviluppo dell’economia è oggi una necessità per evitare il fallimento totale che travolge tutte le classi.

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