TESI 5
NO ALLA GUERRA, NO ALLA NATO
UNA PROPENSIONE ALLA GUERRA TARGATA NATO
- Con il crollo del muro di Berlino, la dissoluzione del cosiddetto “campo socialista” e la fine della divisione in blocchi contrapposti, gli alfieri del capitalismo trionfante preconizzarono l’avvento di un’era di pace e di progresso. La storia recente ha drammaticamente smentito tali apologetiche previsioni. Peraltro il clima di questi ultimi decenni, segnato da eventi tutt’altro che pacifici, era già inscritto nell’orientamento enunciato al momento dello scioglimento del Patto di Varsavia e della disgregazione dell’Urss dagli strateghi del più potente stato capitalistico del pianeta: «Gli Stati uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana. Fondamentale è preservare la Nato quale canale dell’influenza e partecipazione statunitensi negli affari europei, impedendo la creazione di dispositivi unicamente europei che minerebbero la struttura di comando dell’Alleanza». Sulla base dell’affermazione di tale egemonia politica e militare, implicitamente posta a garanzia della preservazione dell’”american way of life” (degli esclusivi privilegi dei livelli di vita statunitense), si è esplicato l’attivismo bellico dell’unica organizzazione militare rimasta, la Nato, posta a guardia della “difesa collettiva globale”, con nuovi compiti “di polizia internazionale” non più meramente “difensivi” ma esplicitamente offensivi e direzionati su tutti i terreni ritenuti vitali, dal punto di vista geostrategico come da quello economico e di controllo dei flussi di approvvigionamento energetico. Un’organizzazione tenuta rigidamente sotto comando Usa: non è un mistero infatti che il Comandante supremo alleato in Europa sia nominato dal Presidente degli Stati uniti e che siano in mano agli Usa tutti gli altri comandi chiave della Nato, la cosiddetta “catena di comando”.
- Si sono così susseguiti, con il triste rosario di centinaia di migliaia di morti civili, l’attacco a Panama (1989), l’attacco all’Iraq (1991), l’intervento volto alla disgregazione della Jugoslavia (1999), l’invasione dell’Afghanistan (2001), il secondo attacco all’Iraq (2003), la cosiddetta “missione umanitaria” in Libia (2011), uno Stato che, pur governato da un autocrate, in Africa era al primo posto dell’Indice Onu dello sviluppo umano e che l’intervento occidentale ha trasformato in uno “Stato fallito”, oggi esposto ad una guerriglia tra bande rivali. E’ ancora in corso il tentativo di destabilizzazione militare della Siria (dal 2013), mentre ci si appresta a lanciare una seconda operazione militare in Libia al fine di occupare in questo Paese le zone costiere economicamente e strategicamente più importanti, con la motivazione ufficiale di liberarle dai terroristi dell’Isis. Sotto la bandiera dell’ “esportazione della democrazia” e della “civiltà occidentale”, sono stati demoliti
Stati sovrani, ritenuti di ostacolo al piano di dominio globale, e disgregate intere società. Si è in tal modo alimentando il brodo di coltura del risentimento anti-occidentale e del terrorismo, pur di perseguire quella che a giusto titolo è stata chiamata una “strategia del caos” funzionale agli interessi di chi continua a proporsi quale padrone del mondo.
IL RIEMERGERE DELLA GUERRA FREDDA
- Questa propensione alla guerra, che evidenzia le precise responsabilità di Stati Uniti e Nato, oggi si manifesta principalmente su due fronti, sempre più incandescenti e pericolosi. Per un verso, la Nato ha riaperto un “fronte orientale”, incrementando i segnali di una nuova pericolosissima guerra fredda, perseguita dai settori più oltranzisti del Pentagono anche per spezzare i rapporti tra Russia e Unione Europea dannosi per gli interessi statunitensi. Mentre gli Usa quadruplicano i finanziamenti per accrescere le loro forze militari in Europa, si rafforza la presenza militare «avanzata» nell’Europa orientale. Negli ultimi venti anni, la Nato non ha cessato di allargarsi ad Est: nel 1999 ha inglobato Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria (Paesi dell’ex Patto di Varsavia); nel 2004, ha inglobato altri sette Paesi, Estonia, Lettonia e Lituania (già parte dell’ex Urss), Bulgaria, Romania, Slovacchia (anch’essi dell’ex Patto di Varsavia) e Slovenia (già parte della Jugoslavia); nel 2009 ha assorbito l’Albania (un tempo membro del Patto di Varsavia) e la Croazia (già parte della Jugoslavia). Oggi sta proseguendo la sua espansione e prepara l’ingresso di nuovi membri, spostando basi e forze, anche nucleari, a ridosso della Russia. Non può sorprendere che una simile strategia aggressiva, abbia provocato un forte aumento della spesa militare globale, trainata da quella statunitense e risalita in termini reali ai livelli della guerra fredda del secolo scorso: 5 miliardi di dollari al giorno. Anche la spesa militare italiana, al dodicesimo posto nel mondo, raggiunge la ragguardevole cifra di 85 milioni di dollari al giorno. Si tratta di un enorme spreco di risorse sottratte ai bisogni vitali dell’umanità. In questo quadro, nel cuore dell’Europa – in Ucraina – è stato fomentato il putsch di piazza Maidan, con cui è stato deposto un presidente regolarmente eletto ed insediato un esecutivo di cui fanno parte personaggi dichiaratamente nazisti: va da sé che un simile governo abbia messo fuori legge il partito comunista e, per converso, tollerato le criminali scorribande di formazioni neo-naziste, protagoniste di efferati massacri di civili come quello di Odessa.
IL TERRORISMO, FIGLIO [eliminato “degenere”, integrazione Toscana] DELL’IMPERIALISMO
- Ma l’attivismo di Usa e Nato è cresciuto anche sul “fronte meridionale”, strettamente connesso a quello orientale. In tale contesto, uno degli epicentri sensibili del confronto globale è oggi la Siria. Come già per la Jugoslavia, l’Iraq e la Libia, anche per la Siria le potenze imperialiste e le “monarchie del petrolio” loro alleate da tempo operano in vista di una caduta del presidente Assad e per la divisione del Paese sulla base di confini etnici o religiosi. E’ l’ennesima applicazione della dottrina del “divide et impera”. In tal senso si è provato ad agire sul piano militare, sin qui senza successo (anche grazie agli imprevisti risultati dell’intervento militare russo in Siria) e attraverso la via diplomatica. A tale progetto neocoloniale si contrappone l’Iran, oltre alla stessa Russia. Per riuscire nell’impresa, le potenze interessate (globali e territoriali) si sono avvalse del decisivo supporto dell’integralismo jihadista, cioè di quelle stesse “truppe ausiliarie” che avevano già portato l’orrore in Iraq, Afghanistan e Libia (oggi anche nelle capitali della vecchia Europa) e che ora hanno trovato un loro assetto organizzato nel cosiddetto Stato Islamico (Isis o Daish). Senza la nozione di imperialismo non si capirebbe nulla della natura dell’odierna
recrudescenza terroristica. Il terrore seminato dall’integralismo waabita, cioè da una parte estremista del mondo sunnita, è infatti figlio diretto dell’oltranzismo bellico statunitense, dispiegatosi in questi due decenni dalla prima guerra del golfo in poi: dalle macerie, oltre alla sofferenza, nasce anche il terrore. Esso sorge dall’odio di chi ha visto piovere sul proprio Paese le “civili” bombe occidentali così come dal risentimento di chi è vissuto nell’abbandono delle periferie urbane di Paesi che non sono vissuti come propri, da cui non ci si sente accolti.
- Ma c’è un’implicazione ancora più diretta che oggi lega il terrorismo alle politiche aggressive della Nato: quelli che oggi piangono le vittime degli attentati e organizzano coalizioni contro lo Stato Islamico sono infatti gli stessi che dichiarano ufficialmente di essere stati i creatori del mostro: segretari di stato, generali, senatori degli Stati Uniti. Come meravigliarsi dell’eclatante inefficacia della coalizione Nato anti-Isis, forte della partecipazione di 60 Paesi, se a farne parte vi sono acclarati finanziatori del terrorismo (come l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia), tutti fedeli alleati degli Usa? In realtà, non esiste una soluzione prettamente militare alla questione dell’estremismo islamico, del quale l’Isis è la rappresentazione più mostruosa. Per combattere davvero il terrorismo, mettendo a tacere la propaganda forcaiola e razzista delle destre, basterebbe: a) vietare l’esportazione di armi ai Paesi che lo supportano; b) sanzionare i Paesi che direttamente forniscono armi, equipaggiamento, risorse all’Isis (Arabia Saudita e Qatar) o che fanno transitare attraverso il loro confine carovane di Tir con viveri e altro verso lo Stato Islamico (Turchia); c) sanzionare i Paesi le cui banche fanno passare i flussi di finanziamento all’Isis e quelli che dall’Isis acquistano petrolio, ma anche beni archeologici. Se ciò non viene fatto è anche perché da decenni vige un patto di ferro tra Stati Uniti e Arabia Saudita che – assieme a Israele e Turchia, membro dell’Alleanza atlantica – resta il bastione strategico degli Usa in Medio Oriente.
CONTRO IL PERICOLO DI UNA DEFLAGRAZIONE BELLICA GLOBALE
- Su tutto questo, sui temi dell’imperialismo e dei pericoli di guerra, del terrorismo e delle sue cause, è necessario condurre un’instancabile campagna di contro-informazione: sarebbe grave se la parte più cosciente della società abbassasse su questi temi il livello di guardia. Del resto è stata la principale autorità della Chiesa cattolica a mettere in guardia rispetto ad un contesto che è già di guerra. Non va sottovalutato il fatto che l’avanzata Usa/Nato ad Est e a Sud inevitabilmente coinvolge lo scacchiere asiatico e del Pacifico mirando alla Cina, nel frattempo riavvicinatasi alla Russia. Cos’altro dovrebbe significare lo spostamento, già annunciato da Barack Obama e reso operativo, del grosso dell’apparato militare statunitense in direzione del Pacifico e della Cina? Del resto ciò fa da sponda al tentativo, oggetto dell’attenzione di molti analisti, di creare una sorta di“Nato economica”, una gigantesca area di libero scambio che dovrebbe unire gli Usa all’Unione europea e a buona parte dei Paesi sulle due rive del Pacifico mediante il TTIP – Trattato transatlantico sul commercio e sugli investimenti – e il TTP – Trattato transpacifico, peraltro già approvato. In tale orientamento strategico si sostanzia il tentativo estremo degli Stati Uniti e delle altre potenze occidentali di mantenere la supremazia economica, politica e militare, in un mondo nel quale sono emersi nuovi soggetti sociali e statuali che premono per un nuovo ordine economico mondiale, sottratto al dominio dell’ “impero americano”.
- Un tale quadro involutivo muove nella direzione opposta a quella che si intendeva percorrere con la riduzione degli armamenti su scala mondiale. Gli Stati Uniti sono esplicitamente impegnati a mantenere una superiorità militare così schiacciante da rendere loro possibile di intervenire militarmente contro ogni Paese in ogni angolo del mondo (“diritto di ingerenza”), affidando allo squilibrio delle forze e alla propria assoluta preminenza la sicurezza del cosiddetto “mondo libero”. Questo sciagurato orientamento è il contrario di quello che proponeva lo stesso F.D. Roosevelt quando auspicava un mondo “libero dalla paura” (essendo appunto la “libertà dalla paura” una delle libertà da lui considerate irrinunciabili). Per contrastare questa pericolosa spirale di guerra, compito dei comunisti è quello di costruire un vasto e forte movimento per l’uscita dell’Italia dalla Nato, per un’Italia libera dalla presenza delle basi militari statunitensi e di ogni altra base straniera (e libera da armamenti nucleari), per un’Italia sovrana e neutrale, per una politica estera basata sull’Articolo 11 della Costituzione e improntata alla pace, al rispetto reciproco, alla giustizia economica e sociale.
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