di Francesco Valerio della Croce, Comitato Centrale PCI e Coordinamento Nazionale FGCI
“Another Europe is possible, another EU is not”. E’ questo lo slogan che ha utilizzato la YCL, organizzazione giovanile del Partito Comunista della Gran Bretagna, durante la campagna a sostegno della “Brexit”, cioè della uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea attraverso un referendum. Un esito inatteso, quello della vittoria del “Leave”, e che ha portato all’apertura di un dibattito internazionale su cause e conseguenze di un simile epilogo elettorale. Lo slogan su citato, oltre che costituire un efficace riassunto della posizione del PCI e della FGCI in merito, vuole anche essere una risposta. Più precisamente è la risposta che la nostra giovanile ha dato ad un invito ricevuto, pochi giorni fa, da parte del movimento “Possibile”, i cui giovani hanno chiesto alla FGCI di partecipare, assieme ad altre giovanili politiche italiane di tutti gli schieramenti, ad un workshop, articolato in quattro sessioni, di discussione sullo scenario che si è aperto in Europa dopo il voto britannico. Abbiamo ringraziato i giovani che hanno inteso, con la loro iniziativa, rompere un certo provincialismo che tutt’oggi caratterizza il nostro dibattito nazionale, ritenendo opportuno un confronto con la FGCI. Tuttavia la nostra risposta è stata negativa, proprio perché, secondo noi, un’altra UE non è possibile.
“INTEGRAZIONE” VUOL DIRE “ANNESSIONE”
Il proposito dell’iniziativa è dichiarato e netto: “L’obiettivo principale del progetto è il protagonismo giovanile nella definizione di un assetto istituzionale federalista, condiviso dalle forze di cdx e csx che credono nella prospettiva unitaria. I giovani con sensibilità politiche diverse, trovano nell’Europa un terreno comune. L’obiettivo è arrivare insieme alla comprensione che la via da intraprendere è quella federalista. Dopodiché, diffonderemo il contenuto del nostro lavoro tramite un opuscolo che dovrà rappresentare il manifesto a sostegno della nostra battaglia per l’integrazione.”
E’ l’obiettivo di una “costituente europea” che acceleri la strada della unificazione federalista della UE (sappiamo infatti che l’attuale Unione è un soggetto politico-giuridico sui generis, di certo non una federazione ma molto più simile ad una confederazione), con una necessaria cessione della residua sovranità da parte dei Paesi membri. L’assunto è quello per cui, con il rilancio della prospettiva federalista e quindi del progetto di Stati Uniti d’Europa, possano essere corretti gli aspetti più insostenibile di quella politica di austerity, a trazione tedesca, che negli anni della crisi finanziaria ha contraddistinto l’Unione.
Il progetto politico sotteso alla costruzione della UE non ha nulla di nuovo: i prodromi di questo progetto di “annessione” – è questo il significato più esatto d integrazione, nel nostro caso – sono, in verità, rinvenibili nella storia (non nella preistoria) e quella dell’unificazione italiana costituisce un esempio eloquente di quanto vogliamo affermare. E’ un progetto di settorializzazione e specializzazione per aree economiche, l’una diversa dall’altra per produzione, economia e altri tratti connotativi dello sviluppo della ricchezza nazionale, all’interno di una comune zona valutaria (eurozona, nel nostro caso). Proprio quello che è accaduto con l’Unità d’Italia, attraverso la desertificazione produttiva e finanziaria del Mezzogiorno. Questo significa l’abbandono di ogni prospettiva di sviluppo industriale dei Paesi periferici (in realtà parliamo della quasi totalità degli Stati membri della UE) in favore di un monopolio manifatturiero tedesco, votato all’esportazione e alla produzione industriale. All’Italia è richiesto di rinunciare al proprio apparato produttivo industriale e manifatturiero in favore di un’economia fondata sul terziario (servizi, turismo e ristorazione nello specifico).
Badate, tra le più significative definizioni di sovranità, una che appare calzante, eloquente ed immediatamente comprensibile, perché dimostrabile coi fatti, è quella che veniva data non da un economista, ma da un rivoluzionario e dirigente comunista, il nostro Antonio Gramsci, quando scrisse nel 1919 su “L’Ordine Nuovo”: “la sovranità deve essere una funzione della produzione”. Produzione è sovranità, l’idea di produzione come momento fondante della sovranità. Ed, in effetti, non è forse nella disponibilità delle classi dirigenti tedesche – monopoliste nell’export industriale e manifatturiero nell’area UE – il destino di interi popoli? Non abbiamo potuto chiaramente constatarlo con la drammatica vicenda greca dell’anno scorso? Ancora una volta la storia è beffarda nel ripetersi quando, per citare ancora Gramsci, i suoi protagonisti si dimostrano suoi pessimi scolari. In Grecia si è osservato un processo di tendenziale impoverimento e desertificazione industriale che ha un precedente preciso: quello dell’annessione della Germania Est all’Ovest. Abbiamo assistito all’esproprio dei beni pubblici, e quindi della collettività, per la loro alienazione, in cambio di pochi miseri euro, ai privati (il più delle volte si è trattato di società straniere, creditrici e non), il tutto attraverso un fondo fiduciario costituito con la ragione sociale esclusiva della alienazione degli ultimi “gioielli di famiglia” dell’economia greca. Una fotocopia di quanto accaduto con l’annessione della ex DDR. A nulla è servito un referendum popolare che ha espresso la netta contrarietà del popolo greco, la potenza dell’economia e del mercato ha avuto la meglio sulla volontà popolare.
I FATTI LO DIMOSTANO: LA UE E’ IRRIFORMABILE
Abbiamo, quindi, citato un esempio più vicino ai giorni nostri per dimostrare che non si tratta di fatti “accidentali”, ma di un progetto politico lucido, che affonda la sua teorizzazione in un padre nobile del pensiero liberale e della scuola classica in economia come David Ricardo.
L’errore di fondo in una proposta politica federalista è quella di ritenere riformabili gli attuali assetti su cui si fonda la struttura della UE. Gli esempi che potremmo citare a sostegno della tesi opposta sono innumerevoli, dal tracollo dei governi della socialdemocrazia (proprio in questi ultimi mesi le strade della Francia sono state invase dal movimento di lotta contro la Loi du Travail, riforma del lavoro speculare a quella che in Italia ha liberalizzato i licenziamenti e compresso ulteriormente i diritti dei lavoratori. Artefice di tutto il governo del socialista Francois Hollande, arrendevole ai piedi della Troika e delle sue imposizioni), alla capitolazione del governo Tsipras del 2015 che, a fronte di un vasto sostegno popolare diretto ricevuto contro il memorandum imposto ancora dalla Troika, ha dovuto cedere al diktat. Del governo Renzi, già a capo del semestre italiano di presidenza europea, non vale nemmeno la pena di scrivere. Diciamo solo che la sua voce grossa di queste ultime settimana contro i “tecnocrati di Bruxelles” assomiglia molto ad una voce rauca, la voce di chi chiacchiera e blatera tanto ottenendo viceversa molto poco.
L’Unione europea non può essere riformata perché qualsiasi ipotesi di modifica della sue politiche e delle sue regole è incompatibile con la sua ragione d’esistenza: quella di mettere sopra ogni cosa la “stabilità dei prezzi”, l’interesse della concorrenza e del libero mercato. Sopra ogni cosa, compresi i diritti dei popoli. Un priorità incisa nei Trattati che sovraordinano le politiche ed il funzionamento della UE.
Ed è esattamente questa la politica praticata in questi anni sulla spinta del Paese egemone, la Germania, all’interno dell’UE e della zona euro. L’euro, infatti, in questo progetto politico ricopre un ruolo fondamentale: il combinato disposta tra l’impossibilità di fare spesa pubblica per investimenti (a causa dei trattati di austerity sottoscritti) per garantire l’equilibrio di bilancio e l’impossibilità di svalutare la moneta, non può che condurre alla strada obbligata della svalutazione del lavoro. Salari, occupazione, diritti sacrificati sull’altare del regime neoliberista dei mercati.
Non sono la solidarietà e la cooperazione a regnare nella UE, ma il dominio della concorrenza e del mercato. Una tale affermazione non è riferibile solo alla condotta della vituperata Germania e delle sue classi dirigenti. Non si è forse manifestato lo stesso atteggiamento da parte del governo francese nei confronti dell’Italia? Lo sanno bene i produttori italiani del Mezzogiorno, i quali, durante lo scoppio dell’epidemia del virus “Xylella” che ha assestato un duro colpo alla produzione olivicola, hanno subito un blocco del tutto ingiustificato delle esportazioni delle produzioni del Sud Italia da parte della Francia, seguita a ruota da altri paesi UE (mentre, pochi mesi fa, è stato dato libero ingresso alle medesime produzioni provenienti dalla Tunisia, prive di una tracciabilità adeguata). Possiamo dirlo senza timore d’essere smentiti: è la UE e le sue politiche che hanno risvegliato i nazionalismi, elevato a “mantra” la concorrenza assoluta sulle macerie dei diritti e legittimato di nuovo persino le volontà imperiali e di guerra in un continente che ha combattuto sul suo suolo ben due Guerre Mondiali. Una UE imperialista all’esterno, ma altrettanto al suo interno.
L’ANALISI DI CLASSE DELLA BREXIT
Riteniamo, però, doverosa di commento un’altra affermazione dei nostri interlocutori: “Le prime indicazioni che ci sono giunte dalle analisi dei flussi di voto dimostravano in maniera plastica una frattura generazionale: i giovani tra i 18 ed i 24 anni hanno votato in massa – circa il 74% – per la permanenza nell’Unione. Persino la fascia d’età successiva, se pur con un margine inferiore, ha sostenuto le ragioni del “Remain”: sono coloro che hanno vissuto la nascita del sistema Erasmus, che vanno dai 25 ai 49 anni. Mano a mano che l’età cresce questa situazione si capovolge”. Non è possibile, a nostro avviso, affrontare la questione del voto britannico con la chiave di lettura della contrapposizione generazionale: che frazione rappresenta, quella indicata, rispetto ai partecipanti al voto? Un frazione minima. Una parte della società inglese che ha avuto la possibilità, nel bel mezzo del dispiegarsi dirompente della crisi, di non modificare radicalmente il proprio tenore di vita. Un fatto che la distingue nettamente dalla gran parte della società britannica.
Il punto fondamentale è che larga parte del mondo del lavoro salariato inglese ha votato per l’uscita dalla UE, vista (a ragione) come concausa dell’impoverimento e della distruzione dei diritti del mondo del lavoro. Chi è stato più esposto in questi agli effetti dell’austerity e delle misure recessive, tanto europee quanto inglesi, ha scelto l’abbandono della UE. Questo è il dato politico lampante e non è accettabile che si richiamano ai valori della sinistra omettano quest’ analisi concreta della situazione concreta. Non è accettabile una lettura “giovanilista” o di “scolarizzazione” del voto. Il fulcro di ogni ragionamento non può non partire dall’analisi di classe del voto di giugno scorso e quindi sul suo significato squisitamente politico, specie per le forze che si propongono di rappresentare gli interessi delle classi popolari. Il voto a favore del “Leave”, cioè dell’uscita, è contrassegnato dall’appoggio delle aree periferiche e dalle classi lavoratrici britanniche, che hanno percepito le politiche della UE come funzionali al loro progressivo indebolimento; un trend che affonda le radici negli anni ’80 e che la UE non ha contribuito in alcun modo ad arrestare, privilegiando, al contrario, la supremazia della finanza e della speculazione attraverso deregolamentazione delle piazze finanziarie a tutto discapito dei diritti. Dopotutto, la City di Londra è stata una tra le piazze finanziarie che più a risentito della crisi finanziaria del 2007/2008 ed ha svolto un ruolo funzionale al “contagio” dell’intera UE. Piazza finanziaria arrivata addirittura a contrapporsi frontalmente nelle dichiarazioni di voto contro una parte della media borghesia nazionale inglese. Anche qui, le parole di Antonio Gramsci tornano potentemente d’attualità nell’analisi di queste contraddizioni capitalistiche tra borghesia finanziaria e borghesia rurale o produttiva.
E’ la vita materiale della nostra generazione che ci spinge a questa critica radicale della UE, al suo rigorismo e alla sua austerity che ha prodotto la distruzione di milioni di posti di lavoro, la precarizzazione di massa, la legittimazione della concorrenza sul costo del lavoro, cioè sulla riduzione dei salari e sul ricatto padronale, assieme alla distruzione dell’Istruzione pubblica e fruibile a tutti, sostituita con una Scuola ed un’Università d’elite, informate sul modello aziendale e di mercato. Sono tutti obiettivi scientemente perseguiti, sono la risposta della UE alla crisi economica, rappresentano la restaurazione capitalista nel nostro continente dopo un secolo di conquiste sociali e politiche del movimento operaio e rivoluzionario.
Noi della FGCI ci battiamo per un’ Europa unita, che si estenda dal Portogallo alla Russia, democratica e di progresso che si fondi sui diritti, sull’intervento regolatore dello Stato e sulla subordinazione del privato nei confronti dell’interesse pubblico. Continente di pace e di cooperazione internazionale, per tal fine libero dal giogo della NATO e dalle servitù militari volte ad un neocolonialismo del XXI secolo. Un progetto che sia compatibile con i precetti e le libertà garantite nella nostra Costituzione repubblicana e antifascista, all’opposto di quanto accade oggi con la UE degli equilibri di bilancio e della libertà assoluta del mercato.
Infine, siamo disponibili alla discussione ed è bene che finalmente si cominci a parlare di UE ed euro nel nostro Paese, senza tabù e dogmi. Quando questa discussione aperta, franca e popolare sarà iniziata potremo dire di aver solo cominciato.
Sono i fatti, in verità, a incalzarci e a dirci che un’altra Europa è possibile, un’altra UE no.