DAL ROGO DELLA THYSSEN-KRUPP ALLA LOTTA DI CLASSE

Ripubblichiamo, alla luce degli ultimi dati sulle ‘morti bianche’, una delle schede, allegate alle tesi del PCI di Giuseppe Morese, già operaio RSU FIOM Thyssen-Krupp Torino; attuale presidente dell’Associazione “Legami d’Acciaio”, Associazione delle famiglie degli operai della Thyssen morti nel rogo del 2007

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Sono un ex operaio della Thyssen-Krupp, oggi presidente di “Legami d’acciaio”, Associazione fondata dopo la tragedia del 6 dicembre 2007 avvenuta nella stessa Thyssen-Krupp di Torino, nella quale morirono, bruciati vivi, sette operai : Antonio Schiavone, Angelo Laurino, Bruno Santino, Giuseppe de Masi, Rosario Rodino’, Roberto Scola e Rocco Marzo.

La mia esperienza nelle acciaierie torinesi e’ durata trent’anni. All’inizio lavoravo alla Fiat Ferriere, poi alla Teksid e, in ultimo, alla Thyssen-krupp. Il lavoro in acciaieria e’ quotidianamente pericoloso e usurante, l’infortunio e’ frequente, sempre in agguato, nonostante l’attenzione, piena di paura, da parte degli operai. L’ambiente di lavoro non è certo dei migliori: io e i miei colleghi siamo andati in pensione con la legge sull’amianto, al quale siamo stati esposti per un tempo lunghissimo, dagli anni ‘70 al 2000. All’inizio degli anni ‘80 gli operai delle acciaierie erano 13.000; quando sono andato in pensione, a Torino, gli operai erano 500. Da quando siamo passati alla Thyssen la situazione lavorativa, invece di migliorare, è peggiorata di anno in anno, fino alla tragedia del 2007, nella quale persero la vita i sei operai e il caposquadra, colleghi e amici. Negli ultimi due anni l’azienda speculava sulla manutenzione degli impianti e metteva gli operai in brutali condizione di rischio. Nell’ultimo anno molte figure professionali di manutentori avevano cercato un’altra collocazione, in previsione della chiusura della fabbrica. Queste figure non sono state sostituite con personale all’altezza, lasciando allo sbando lo stabilimento: costavo “troppo”, ai padroni.

Purtroppo su una linea molto complicata, come la Linea 5 – la Linea della morte – lunga 200 metri e alta 15, l’azienda non ha approntata la sicurezza necessaria. L’anno prima, in Germania, nella Thyssen casa madre, si era verificato un incidente analogo a quello che avrebbe poi causata la strage torinese, però, fortunatamente, senza conseguenze. Dopo il pericolo nella fabbrica tedesca, erano stati stanziati, per la sicurezza, dei fondi anche per Torino: ma la direzione di Torino-Terni della Thyssen decise di risparmiarli, preparando, così, l’assassinio dei nostri colleghi. Sarebbe bastato installare uno spegnimento automatico, nella Linea 5, in quel luogo che sarebbe divenuto per sempre il luogo dell’orrore capitalista, invece che lo spegnimento manuale. Gli operai avrebbero evitato di tentare di spegnere l’incendio con gli estintori a mano, di spegnere un inferno con un bicchiere d’acqua, quell’inferno che trasformò in torce umane i nostri amici. Gli estintori manuali, peraltro – e tutti lo devono sapere, perché la verità è lotta di classe – erano per la metà vuoti: i padroni risparmiano sempre, in ogni passaggio del processo produttivo. E lo fanno, strategicamente, a partire dalla pelle degli operai. E questa non è retorica: è la verità nuda e cruda.

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E se qualcuno stenta a crederlo, entri in fabbrica, a vedere con i propri occhi. In questi giorni – maggio 2016 – dopo quasi nove anni e quattro gradi di giudizio, c’e stata la condanna definitiva dei dirigenti della Thyssen, non solo per l’assassinio dei sette operai, ma anche per tutte le morti sul lavoro. Una condanna mite, rispetto all’orrore antiumano che essi hanno provocato; ma, anche, una condanna importante, che poteva anche non esserci, rispetto ai rapporti di forza tra capitale e lavoro, rispetto alla dittatura del capitalismo, in Italia, in Germania e ovunque: una dittatura, come sappiamo, come sanno innanzitutto gli operai delle fabbriche, che viene esercitata, dai padroni, sui governi, sui media, sulla società, sulla magistratura.

II lavoratori, in questa fase segnata, in Italia, dalla mancanza di un sindacato di classe e di lotta e dalla mancanza – socialmente e politicamente, drammatica – di un partito comunista di massa,

sono subordinati, oggi più che mai, al dominio feroce dei padroni e del profitto, sono privi di diritti, di salario sufficiente a vivere ed esposti ( non solo nelle fabbriche del fuoco vivo e continuo, ma ovunque) a mille infortuni e alla morte.

Per questo siamo per la ricostruzione di un partito comunista, un partito di lotta, che sia all’altezza dei tempi e dello scontro di classe: lo siamo a partire dalle nostre, brutali, condizioni di vita, a partire dall’attuale, ottocentesca, condizione di sfruttamento dell’intera classe operaia.

 

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