di Eugenio Conti – PCI Ravenna
Dal 15 settembre abbiamo una nuova legislazione portuale: il Decreto Legislativo 169/2016 di attuazione della Legge Delega 124/2015, meglio nota come “Riforma Madia della P.A.”. Un intervento di variazione della regolamentazione del funzionamento dei porti italiani sotto il profilo dell’amministrazione pubblica, più volte annunciato nei due decenni di vigenza della Legge 28 gennaio 1994, n.84. Quella appena modificata è stata un’ottima legge, una volta digerito il suo tratto fondamentale: la volontà del pubblico di ritirarsi dal ruolo di attore nei porti per assumere invece quello di regista, sceneggiatore e di controllo della produzione. Alla base c’era la scelta di escludere la mano pubblica dalla diretta operatività portuale, riservando però alle autorità portuali il compito di tracciare le linee guida locali nell’ambito di una pianificazione nazionale, portarle in esecuzione e verificarne messa in opera e risultati. In pratica, lo Stato avrebbe dovuto operare delle scelte circa il tipo di portualità da implementare in Italia, ovviamente in base ad un’analisi della catena logistica globale entro cui i porti nazionali si inseriscono e avendo chiari obiettivi circa l’interesse nazionale da perseguire e vincoli/potenzialità per conseguirli. Avrebbe significato decidere se mantenere il modello di portualità diffusa o individuare un nucleo ristretto di scali di riferimento; di tenere in considerazione nella scelta il tipo di evoluzione atteso nei commerci e nello shipping e la sua capacità di tenuta nel tempo; di finanziare o meno con risorse pubbliche infrastrutture portuali individuate nell’ambito di un progetto complessivo, il cosiddetto piano generale dei trasporti. A loro volta le singole autorità portuali avrebbero dovuto calare negli scali di rispettiva competenza le misure più adeguate per adempiere al mandato individuato dalla pianificazione complessiva. La qual cosa significa scegliere il tipo e le priorità delle infrastrutture occorrenti, il modo di metterle in opera, l’individuazione dei soggetti adeguati alla loro gestione in funzione dell’utile della collettività, la verifica del rispetto dei programmi in base alla cui valutazione è intervenuto l’affidamento delle infrastrutture. E tutto ciò attraverso un mix gestionale delle singole autorità portuali fatto di specifiche competenze manageriali e di rappresentanza della cittadinanza di riferimento attraverso le istituzioni locali, degli organi periferici delle amministrazioni centrali, dell’imprenditoria privata e degli stessi lavoratori dello scalo e dell’ente. Addirittura prevedendo l’adozione di strumenti democratici per l’individuazione dei rappresentanti dei lavoratori: elezioni con pluralità di liste e di candidati ed un corpo elettorale di centinaia di elettori.
Come per tante buone leggi emanate nello scorso secolo, la sua concreta applicazione non ha corrisposto alle attese. Alla mancanza o inadeguatezza di una pianificazione generale da parte dello Stato è seguita una pletora di finanziamenti pubblici erogati a pioggia secondo la discrezionalità dettata dallo sponsor politico del momento. Altrettanto inadeguata la guida delle autorità portuali, affidata più spesso secondo imperscrutabili criteri di fedeltà partitica che per capacità amministrativa nel settore di riferimento. E ciò non solo per i presidenti e i segretari generali, ma anche per le componenti dei comitati portuali, per il meccanismo della delega dietro cui si sono rifugiati i vertici delle amministrazioni locali e delle organizzazioni imprenditoriali; ma altrettanto insufficienti si sono rivelate le componenti di rappresentanza dei lavoratori, a causa di organizzazioni sindacali più attente al bilancino dei posti che a garantire una selezione di candidati di alto profilo attraverso il meccanismo elettorale. Ne è derivata la realizzazione (in alcuni casi) o la sola progettazione (molte volte) di opere inutili sia per lo scalo che per il sistema nazionale dei porti. Lo spreco di pubbliche risorse è poi stato acuito da quel deleterio meccanismo messo in opera dalla normativa appalti, produttivo di cattive opere a costi fuori logica oltretutto incrementati da quel perverso meccanismo di correlazione tra il costo finale dell’opera e l’incentivo da attribuire alle direzioni tecniche delle pubbliche amministrazioni che anche nel caso delle autorità portuali ha prodotto, come ovunque, i suoi deleteri effetti.
Ravenna in tutto questo non ha costituito elemento di eccezione rispetto alla regola attraverso una proficua sinergia tra autorità portuale e amministrazione comunale, interrottasi solo nella parte finale della presidenza Di Marco. Progetti (pagati e) abortiti come la cittadella della nautica nell’ex SAROM, la lottizzazione attorno alla stazione marittima (pure abortita) di Porto Corsini, il nuovo terminal container in penisola Trattaroli, le casse a mare, il piccolo e grande impianto di trattamento dei fanghi portuali hanno calcato le scene anche se con minor successo mediatico del cosiddetto “progettone” con annessa mega-piattaforma logistica di Porto Fuori. Vi sono poi invece state le realizzazioni dal costo elevato e fuori tema o marginali rispetto alla principale vocazione del porto di Ravenna, la trattazione delle rinfuse solide e liquide: dal lungo molo di Porto Corsini per impiantare a Ravenna un inesistente traffico crocieristico, al maggior approdo turistico dell’Adriatico inaugurato mentre colava a picco il settore della nautica da diporto, alla sostituzione di un ponte mobile con un ponte apribile, interamente a costo e gestione privata il primo e a costo e gestione pubblica il secondo, alla faraonica riconfigurazione della parte ambientale della piallassa del Piombone. Infine spiccano le opere formalmente di competenza ma virtualmente inutili: dalle banchine realizzate e versanti in stato di abbandono da anni lungo il Candiano e la piallassa del Piombone, a binari, pontili, rampe e scivoli sparsi per darsena, porto e avamporto quando non già distrutti. Come si è appreso da (pochi e qualificati) organi di stampa negli ultimi giorni, l’erogazione degli incentivi per i lavori, indipendentemente dal loro effettivo svolgimento e dal succedersi delle normative che li hanno ridefiniti nel tempo, dopo una breve pausa, non si è arrestata anche a Ravenna. Anzi, se si desse retta alle notizie di stampa si potrebbe dire che è stata proprio la distribuzione degli incentivi per lavori a costituire sin qui la principale (se non l’unica) attività dell’appena rinnovato provvisorio tandem alla guida dell’ente porto ravennate. Nessun lavoro, nemmeno manutentivo, risulta infatti partito durante il commissariamento militare, a meno che non si sia stato fatto di tutto per occultarlo a giornali e giornalisti.
Sarebbe stato dunque un positivo segno di attenzione al mondo del lavoro portuale e, comunque, dei trasporti, se la revisione messa in atto avesse inciso su tali aspetti. E ciò a maggior ragione in un momento in cui sta implodendo la bolla speculativa che ha sconvolto lo shipping mondiale a partire dalla rincorsa alla messa in esercizio di un crescente numero di megaportacontainer, con annesso indebitamento delle maggiori compagnie, e della conseguente rincorsa all’adeguamento delle strutture terminalistiche sia direttamente interessate da tali navi che invece dall’aumento dimensionale del naviglio proveniente dai porti di transhipment. Invece aveva tutt’altro a proprio obiettivo: la cosiddetta governance portuale, intesa sia con riguardo alla consistenza numerica degli enti porto che a quella degli organi costitutivi degli stessi enti. Il tutto mediato dalla parola magica: risparmio e managerialità. Il ministero ha infatti diffuso la notizia di due milioni di euro per anno di risparmi derivanti dalla riduzione del numero delle autorità portuali (da 24 a 15) e dalla ridotta composizione dell’organo collettivo (da un comitato portuale di 21 persone ad un comitato di gestione di 3 membri). Ha poi indetto una selezione nazionale per l’individuazione dei 15 presidenti attraverso la valutazione dei curriculum degli autocandidati al ruolo. Come dall’eliminazione della componente democraticamente eletta e dei portatori d’interesse possa di per sé scaturire una migliore governance dell’ente porto è aspetto ignoto ai più. Di certo verrà ad accentuarsi il fenomeno dell’identificazione tra ente e presidente che molto danno ha prodotto in tanti porti italiani: ogni presidenza puntando a qualificarsi attraverso l’intitolazione di una grande opera piuttosto che per portare avanti le spesso indispensabili ma trascurate manutenzioni dell’esistente. E poiché ogni grande opera richiede mediamente per la sua messa in cantiere un numero di anni superiore alla permanenza nel ruolo del presidente, la mancata adozione di strumentazione volta ad abbreviare tali tempi (di cui non v’è traccia nella “riforma”) continuerà a produrre presidenti che trasmettono in eredità grandi opere ai loro successori che, però, puntualmente le mettono nel cassetto per non correre il rischio di figurare quali meri esecutori dell’altrui disegno…
Quanto alla managerialità, vedremo. Per ora può notarsi che la selezione è stata indetta in via informale, senza impegno, senza trasparenza, senza graduatoria. Inoltre le nuove caratteristiche richieste ai presidenti delle nuove autorità rispetto a quelle precedentemente previste sono meno professionalizzanti di prima. L’unico elemento sul quale il ministero ha affermato di non transigere è stato quello della lingua italiana in cui deve essere scritto il curriculum!
Quanto al risparmio, invece, già s’è visto: il suo ottenimento è strettamente vincolato alla riduzione del numero dei presidenti e dei segretari (i membri del comitato sono pagati a gettone di presenza), a sua volta legata alla riduzione delle autorità portuali. Ma la riforma ha previsto che le regioni possano chiedere di chiamarsi fuori per un periodo di tre anni dal regime di accorpamenti e, guarda caso, tutte le regioni interessate hanno annunciato che si avvarranno della possibilità. Nessun accorpamento e nessun risparmio, quindi!
Ciliegina sulla torta è, infine, la dubbia costituzionalità della nuova normativa: se non passerà il sì al referendum di prossima convocazione sulla riforma della costituzione, resterà in vigore l’attuale riparto delle competenze tra Stato e regioni. Sui porti dalla riforma costituzionale del 2001 è prevista la concorrenza di competenze (allo Stato i principi generali, alle regioni il compito di dare la normativa di dettaglio). È evidente come l’attuale “riforma della Legge 84/1994” la concorrenza di competenze non sa neanche dove stia di casa!
E Ravenna? Ravenna intanto paga il prezzo della stoltezza della maggioranza al governo della città (prima e dopo le elezioni) che, pur di cancellare dalla faccia della storia portuale il presidente Galliano Di Marco che aveva precedentemente imposto alla guida dell’ente, si è vincolata per 12 mesi all’immobilismo del commissariamento militare. Nel frattempo i tre porti più prossimi lungo la costa Adriatica, cioè Trieste, Venezia e Ancona, che in assenza di programmazione nazionale sono di fatto concorrenti di Ravenna, hanno continuato ad operare (specie i primi due) per accreditarsi come una valida alternativa allo scalo ravennate. Infatti, a differenza di Ravenna, invece di boicottare l’attività dell’ente porto, si è fatto sistema, ottenendo da Roma la nomina di Presidenti o commissari civili (Trieste ha un commissario giunto al quarto rinnovo consecutivo) in grado di garantire continuità operativa, lavorare per superare la crisi, fronteggiare il ribaltamento dei traffici sul lato est dell’Adriatico, attrarre investimenti e produrre occupazione di qualità. A Ravenna tutto è fermo. Né piccoli, né grandi lavori. Viste le premesse, non tutto il male verrebbe per nuocere, se non fosse che, soprattutto, non si manutentano i fondali né le banchine, come invece indispensabile. Il porto, unico grande volano produttivo, che tanto è costato sia in termini di risorse pubbliche ma anche private, sul quale la città può operare delle scelte (sul polo chimico industriale non ha influenza a dispetto di quanto racconta il Sindaco), si deteriora. E, ancora una volta, come spesso è accaduto nella sua storia, Ravenna rischia di perdere l’ultimo treno. Pardon, la nave. Perché anche le navi possono votare con i piedi. E spesso lo fanno, con buona pace dell’amministrazione portuale provvisoria voluta dall’amministrazione cittadina e lautamente pagata con risorse pubbliche proprio per non far nulla.