di Bruno Steri, Segreteria nazionale PCI, responsabile Economia
In questi ultimi giorni il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha dovuto far fronte a una sequela di perplessità e critiche manifestate in merito alla Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (Def) approvata lo scorso 27 settembre dal Consiglio dei Ministri. L’Ufficio parlamentare di bilancio – organismo indipendente incaricato di valutare il rispetto delle regole di bilancio prescritte dall’Ue – non ha convalidato la proposta programmatica prospettata dal governo in quanto “troppo ottimistica”. La Banca d’Italia, con terminologia più soft, ha giudicato “ambiziose” le cifre in essa contenute, mentre l’esponente di Sinistra Italiana Stefano Fassina più seccamente le ha giudicate “inventate”. A novembre prossimo sarà l’esecutivo di Bruxelles a decidere sulla bontà del quadro economico finanziario per il 2017 presentato dal governo italiano. Intervistato in merito, Matteo Renzi se l’è cavata ricordando che, in tema di previsioni, “ogni anno è la solita solfa”: come dire, ognuno dice la sua, poi si vedrà. Dal canto suo, il Ministro dell’Economia non se l’è presa più di tanto, confermando l’intenzione di far approvare definitivamente analisi e proposte governative entro ottobre e, nello stesso tempo, cautelandosi con un “non facciamo scommesse”, anche se “i moltiplicatori sono difficili da stimare”.
Già, il moltiplicatore: in generale, si tratta di uno strumento impiegato nelle analisi macroeconomiche per valutare la percentuale di incremento o decremento (ad esempio del reddito nazionale) prodotta da una determinata scelta di politica economica (concernente ad esempio consumi o investimenti). Cosa significhi formulare una stima “errata” sugli effetti (positivi o negativi) di tale moltiplicatore, lo ha ben sperimentato il popolo greco, quando la cosiddetta Troika (Fmi, Commissione Ue e Bce) impose misure di austerità draconiane, sottostimando gli effetti che i tagli al bilancio pubblico avrebbero avuto sulle condizioni di vita del Paese ellenico. All’inizio del 2013, fu lo stesso capo economista del Fmi Olivier Blanchard a riconoscere l’ “errore”: la contrazione fiscale imposta aveva infatti determinato per ogni euro tagliato una depressione economico-sociale equivalente a 1,5 euro anziché a 0,5 euro come i soloni di Bruxelles avevano previsto. Uno consistente scostamento pagato dai cittadini greci in termini di povertà e sacrifici drammatici sull’altare dell’austerità, in cambio di un “finanziamento di salvataggio” peraltro andato prevalentemente a beneficiare il sistema bancario europeo, quale risarcimento per i debiti contratti.
Ecco perché, quando si sente parlare di moltiplicatori, si è tentati di metter subito “mano alla pistola”. Nel caso delle attuali proposte del governo italiano, l’effetto moltiplicatore aumenterebbe dello 0,4% la crescita del Pil per il 2017, portando l’incremento da uno 0,6% previsto in base all’andamento dell’economia (“scenario tendenziale”) ad un 1% programmato a seguito degli interventi del governo. La miracolosa spinta che autorizzerebbe la programmazione di una tale crescita sarebbe data in sostanza dal blocco dell’aumento dell’Iva e dell’accisa sui carburanti, frutto della sospensione delle cosiddette clausole di salvaguardia (previste dalla Commissione Ue in caso di andamenti non in linea con le regole su deficit strutturale e contenimento del debito pubblico), e dal rilancio degli investimenti (che dovrebbero passare nel giro di un anno da un +1,5% previsto al netto degli interventi governativi a un clamoroso +3,2%) ottenuto grazie a ulteriori sgravi fiscali alle imprese. Che anche i più ottimisti si affrettino a dichiarare quanto meno incerto un tale programma e che lo stesso Padoan accenni difensivamente a parametri “difficili da stimare”, non fatichiamo a comprenderlo: ciò a maggior ragione in tempi di crisi, col commercio mondiale che va a scartamento ridotto e con il più che probabile aumento del costo del petrolio indotto dalle misure ventilate nei recenti incontri dell’Opec.
“Siamo nel campo degli esercizi previsionali, terreno scivoloso”, ha ricordato Dino Pesole (Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2016). Tuttavia, ad essere “scivolose” non sono solo le previsioni empiriche su cui gli esecutivi europei basano le proprie scelte, ma anche e soprattutto le regole e le metodologie su cui la stessa Commissione europea fonda il proprio controllo sui conti degli Stati membri. Ad esempio, il cosiddetto “deficit strutturale”, uno dei due parametri sotto esame da parte della Commissione (l’altro è il debito), risulta essere non solo a detta degli analisti più eterodossi una vera e propria araba fenice. La stessa nostra Corte dei Conti l’anno scorso ha avuto modo di segnalare la precarietà di tale parametro: con esso “l’intento è quello di isolare le variazioni del saldo di bilancio che sono indotte automaticamente dalle oscillazioni del ciclo economico e che quindi non possono essere attribuite all’azione discrezionale dei governi”. Ad esempio se, a fronte di un indebitamento di 3, il deficit strutturale è 2, l’ “azione discrezionale dei governi” avrà inciso per 1; se è 2,5 avrà inciso solo per 0,5. Così la Commissione intende verificare l’efficienza fiscale del singolo Paese: quanto più il deficit strutturale è alto, tanto meno il governo in questione è contabilmente virtuoso. Il problema è che, a sentire la stessa Corte, la suddetta distinzione è tutt’altro che data con certezza: a seconda dei modelli di calcolo utilizzati per pervenire al saldo strutturale, si ottengono infatti risultati anche opposti (come avvenuto nel 2015, quando le misurazioni della Commissione hanno verificato un ampliamento del deficit strutturale rispetto al 2014, mentre un altro calcolo operato su dati Ocse ha addirittura prodotto una situazione di avanzo). Che dietro gli esercizi contabili che presiedono alla supervisione di Bruxelles si celino decisioni squisitamente politiche sembrerebbe dunque essere qualcosa di più di un sospetto. Ad aggravare il quadro, la Corte ha aggiunto la seguente osservazione: “E’ stato rilevato come, all’interno della metodologia della Commissione Ue, agli attuali valori di indebitamento strutturale corrispondano livelli di disoccupazione di equilibrio nell’ordine dell’11% , evidentemente inconciliabili con qualsiasi obiettivo di piena occupazione”. Come dire che il mero obiettivo contabile (appunto il “pareggio di bilancio”) fa a pugni con obiettivi di espansione economica, di crescita dell’occupazione e di tutela dei diritti delle classi popolari. A riprova che la tecnica economica non è neutra ed anzi si pone al servizio di scelte di classe incompatibili.
In fondo, a meno che i dati previsionali non siano clamorosamente falsificati dall’evolvere della situazione economica, è forse proprio su una tale “discrezionalità” che il governo italiano conta per passare gli esami di Bruxelles. E’ quello che lo stesso Dino Pesole dice esplicitamente: “L’Italia potrebbe essere sottoposta a procedura di infrazione per eccesso di squilibri macroeconomici. Probabilmente non avverrà, per motivazioni che attengono all’attuale congiuntura politica europea, con le tre principali economie alle prese con altrettanti fondamentali passaggi elettorali: il referendum confermativo della riforma costituzionale in Italia del 4 dicembre, le elezioni politiche in Francia e Germania (aprile e ottobre 2017)” (Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2016). Proprio queste ultime considerazioni e, con esse, la consapevolezza che dietro ogni decisione di tecnica economica fa capolino la politica ci inducono a prendere sul serio un’ultima affermazione di Pier Carlo Padoan, secondo cui l’esito del referendum costituzionale porta con sé un effetto positivo dal punto di vista della manovra socio-economica in caso di vittoria del Sì (ed uno disastroso in caso di vittoria del No). La plateale strumentalità di una tale affermazione la dice lunga sugli umori che si respirano all’interno della compagine governativa. Per un verso, ciò ribadisce che nei prossimi due mesi nulla sarà lasciato intentato dalla grancassa mediatica pur di pervenire al risultato auspicato dal governo in carica. Per altro verso, ciò tradisce anche un certo nervosismo. Se l’autorevolissimo Financial Times rompe le righe sostenendo che una sconfitta delle riforme di Renzi non sarebbe poi un dramma e che tutto sommato bisogna riconoscere che l’Italicum “è una cattiva riforma”, ciò non può avvenire a caso. Se poi a questo aggiungiamo che persino l’ineffabile ex capo dello Stato Giorgio Napolitano si lascia andare a qualche esternazione critica (“Sono stati commessi molti errori”) che l’attuale Presidente del Consiglio ha subito tenuto a minimizzare, si conferma che ‘colà dove si puote ciò che si vuole’ è in corso un’attenta riflessione sul prossimo incerto futuro. La rottura del fronte del Sì è per noi un’ottima notizia. Ora si tratta di delineare, all’interno di un unitario fronte del No, le ragioni specifiche del nostro No (il No dei comunisti e della sinistra di classe). Per questo è importante la manifestazione nazionale del prossimo 22 ottobre, cui dovremo partecipare con tutte le forze disponibili: contro la controriforma, contro il governo Renzi, contro questa Europa del capitale finanziario.