di Alex Höbel, resp. Cultura e formazione del Pci
In questi tempi di grande confusione, nei quali la situazione è tutt’altro che eccellente, le appropriazioni indebite sul terreno politico sono ormai all’ordine del giorno: dai manifesti del Pd coi quali si cercava di arruolare Enrico Berlinguer e Nilde Iotti nel sostegno alla controriforma costituzionale di Renzi ai richiami al Berlinguer della “questione morale” fatti da Grillo, i tentativi di appropriarsi di figure della storia del movimento operaio per farne portabandiera di posizioni politiche lontane anni luce si vanno moltiplicando in modo preoccupante. Tuttavia anche la più fervida immaginazione difficilmente avrebbe potuto pensare a un Che Guevara “padano” e leghista: l’ultima trovata di Roberto Maroni, governatore della regione Lombardia, ex ministro dell’Interno e dirigente di spicco della Lega Nord.
In verità già pochi mesi fa l’attuale Segretario della Lega Salvini aveva anticipato la nuova “linea”, dichiarando che da studente “andava in giro con una spilletta di Che Guevara insieme alla bandiera dei Paesi Baschi”. Ora però Maroni è andato oltre, rivendicando la figura del “Che” non in riferimento al suo passato di giovane demoproletario, ma rivolgendosi ai “giovani padani” di oggi e sostenendo che “la Rivoluzione ha cambiato colore”. Peraltro la curiosa uscita del dirigente leghista è giunta più o meno nelle stesse ore in cui in India si svolgeva quello che è stato definito “il più grande sciopero della storia”, una imponente mobilitazione di dieci sindacati e circa 180 milioni di lavoratrici e lavoratori contro le politiche antipopolari del primo ministro Narendra Modi. Una notizia ben più importante rispetto alle dichiarazioni di Maroni, sulla quale ovviamente i nostri media hanno sorvolato, e che ci aiuta a chiarire subito una cosa, e cioè che la Rivoluzione, il processo di cambiamento radicale dello stato di cose presente, continua a essere rossa, continua cioè a riguardare il movimento dei lavoratori e i popoli oppressi in lotta per la loro emancipazione.
Ernesto “Che” Guevara – di cui proprio oggi, 9 ottobre, ricorre il 49° anniversario dell’assassinio per mano dei militari boliviani e dei loro consiglieri della Cia – appartiene a questa storia, alla nostra storia e alla nostra parte sociale e politica, a quella che un tempo si chiamava l’“umanità progressiva”; appartiene al movimento comunista e antimperialista mondiale, che nella seconda metà del Novecento fu tra i protagonisti di quello straordinario sommovimento che va sotto il nome di decolonizzazione, frutto dei mutati rapporti di forza globali successivi alla Seconda guerra mondiale, di cui l’esistenza di un “campo socialista” fu parte rilevante. Ma più in generale, il “Che” lottava per affermare l’eguaglianza tra gli esseri umani, per combattere le ingiustizie ovunque, e in primo luogo laddove si presentavano nelle forme più acute, ossia in quel Sud del mondo che oggi, anche grazie agli sforzi e al sacrificio di rivoluzionari come lui, non è più nelle condizioni di subalternità complessiva in cui ancora versava cinquant’anni fa.
Il “Che” si batteva per l’emancipazione e la liberazione dei popoli, nella Cuba socialista fu protagonista di straordinarie campagne di alfabetizzazione di massa, e certamente non si sarebbe mai sognato di valutare le persone in base alla loro nazionalità, o al colore della pelle, o alla latitudine alla quale erano nate. Che Guevara era portatore di un nuovo umanesimo, era un rivoluzionario vero, “guidato da un vero sentimento d’amore”, un internazionalista convinto: era un comunista. La sua figura dunque è lontana anni luce da una forza politica che in questi anni ha stimolato la paura dello straniero, ha organizzato lavoratori contro altri lavoratori, ha organizzato ignobili “ronde” anti-immigrati, ha promosso leggi che creano condizioni impossibili per una immigrazione regolare, condannando migliaia di persone alla clandestinità e a quelle tremende traversate che spesso si concludono in tragedia.
Rispetto a queste opzioni politiche e culturali, drammaticamente regressive, Che Guevara, la sua memoria, la sua figura appartengono a un altro pianeta. Certamente oggi non mancano coloro i quali hanno raccolto la sua bandiera, ma non sono né possono essere i giovani “padani”: sono i medici cubani che portano il loro contributo nei paesi colpiti da epidemie o catastrofi naturali, la gioventù bolivariana del Venezuela, i giovani comunisti ucraini in lotta contro i fascisti al potere; sono le masse sterminate di giovani, di lavoratori e lavoratrici che – a partire da quel Sud del mondo, richiamato dal “Che” nei suoi magnifici discorsi all’Onu – in tutto il globo lottano per la loro emancipazione.
Nel febbraio 1965, al secondo seminario economico di solidarietà afroasiatica, Che Guevara pronunciava parole di grande attualità, lontane mille miglia dalle piccole furberie dei politici borghesi; ed è con le sue parole che vogliamo concludere queste brevi note nell’anniversario del suo sacrificio:
Da quando i capitali monopolistici si sono impadroniti del mondo, hanno mantenuto nella povertà la maggior parte dell’umanità, mentre i guadagni venivano divisi tra i paesi più forti. Il livello di vita di questi paesi è fondato sulla miseria dei nostri; bisogna dunque lottare contro l’imperialismo per innalzare il livello di vita dei popoli sottosviluppati. E ogni volta che un paese si stacca dal tronco imperialista non solo si vince una parziale battaglia contro il nemico fondamentale, ma si contribuisce anche al suo reale indebolimento e si fa un passo verso la vittoria definitiva.
Non esistono frontiere in questa lotta mortale, non possiamo rimanere indifferenti di fronte a ciò che accade in un qualsiasi paese del mondo; la vittoria di un qualsiasi paese sull’imperialismo è una nostra vittoria, così come la sconfitta di una qualsiasi nazione è una sconfitta per tutti. L’esercizio dell’internazionalismo proletario non è solo un dovere per i popoli che lottano per conquistare un futuro migliore, ma è anche una necessità che non può essere elusa.