I figli dei lavoratori flessibili hanno più probabilità di sviluppare un rallentamento linguistico: i clamorosi risultati di una recente ricerca sociologica dell’Università di Milano svelano l’inquietante realtà nascosta dietro la retorica delle recenti “riforme” del lavoro.
di Domenico Tambasco
Sono passati in secondo piano – oscurati dall’accesa discussione sui disastrosi risultati del Jobs Act – i clamorosi dati di una recente ricerca sociologica condotta dall’Università degli Studi di Milano-Bicocca su un campione di famiglie residenti nel Comune di Milano, pubblicata da Riccardo Bonato nel saggio “La famiglia flessibile – Gli effetti transgenerazionali della flessibilità lavorativa: il caso di Milano” [1].
Lo studio parte da un presupposto assodato nella sociologia e nel diritto del lavoro: l’effettivo esercizio dei diritti presuppone un effettivo sistema di tutele. Il che si traduce, nel nostro campo d’interesse, in una tanto semplice quanto nodale osservazione: il lavoratore o la lavoratrice assunti con contratto di lavoro atipico (ovverosia a tempo determinato, coordinato e continuativo od occasionale) tenderanno ad utilizzare meno dei colleghi garantiti da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato gli istituti universalmente previsti dalla legge a tutela della genitorialità (ovvero l’astensione obbligatoria, l’astensione facoltativa e il permesso per allattamento).
È ciò, con ogni evidenza, per il timore di non ottenere il rinnovo del contratto alla scadenza o per la paura di subire un inaspettato licenziamento da parte del datore di lavoro che vedesse, nell’esercizio dei doveri genitoriali, un ostacolo alla produttività aziendale; evenienza questa che, nel caso del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, soprattutto nell’area della cosiddetta “tutela reale” e prima della “riforma” renziana, era efficacemente arginata dal deterrente della reintegra o di un risarcimento di particolare rilievo previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
In una parola, il lavoratore atipico è più “vulnerabile”; ed è proprio tale congenita vulnerabilità che, in ogni momento, ne condiziona il modo di vivere ed i comportamenti, con ricadute non solo individuali, ma anche e soprattutto familiari.
Quali sono i risultati della ricerca? Lasciamo la parola direttamente a Riccardo Bonato:
“…la flessibilità lavorativa influenza le tutele della genitorialità e la differente fruizione di queste ultime ha un impatto sulla famiglia, e sulla crescita del bambino. La ricerca quantitativa condotta in occasione di questo studio evidenzia un indicatore che rivela l’esistenza di un impatto transgenerazionale della flessibilità lavorativa: sembra esistere una relazione fra le differenti tipologie contrattuali con cui è assunta la figura di riferimento del bambino (tipicamente la madre) e lo sviluppo del linguaggio dell’infante.…..poco più del 25% delle lavoratrici flessibili, infatti, utilizzano i permessi di allattamento contro il 60% circa delle lavoratrici con un contratto stabile. Questo fattore ha un impatto evidente e drammatico sullo sviluppo del linguaggio del bambino: la mancata fruizione del permesso di allattamento da parte della figura di riferimento aumenta notevolmente (48% circa) la probabilità che il figlio appartenga al gruppo di bambini nei quali si rileva un rallentamento nello sviluppo linguistico”[2].
Dunque, il tipo di contratto di lavoro della madre sembrerebbe esercitare almeno un parziale effetto sullo sviluppo linguistico del figlio, nella stessa misura in cui il tipo di contratto di lavoro condizionerebbe la madre nell’utilizzo dei permessi di lavoro giornalieri per l’allattamento[3].
E’ il caso tuttavia di precisare come questa ricerca sia stata effettuata tra il 2012 e il 2013, allorché la differenza di tutela tra contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e contratti atipici era talmente netta, da essere marcata con il discrimine tra lavoratori insiders e lavoratori outsiders.
Nell’anno di grazia 2016, tuttavia, lo scenario appare radicalmente rivoluzionato dall’universale azzeramento delle tutele a favore dei lavoratori. Si tratta dell’appiattimento in un’unica informe categoria di lavoratori poveri sia di tutele sia di retribuzione, attuato dal Jobs Act attraverso l’integrale flessibilizzazione e testimoniato – al di là di ogni strumentalizzazione di parte – dagli eloquenti dati sull’aumento dei licenziamenti (+ 31%), dall’esplosione dei voucher (69,899 milioni venduti nell’intero territorio nazionale) e dal ritorno del lavoro a cottimo, sebbene “digitale” e mascherato sotto la veste dei bikers di Foodora, di Deliveroo e di altre analoghe iniziative imprenditoriali.
Quali sarebbero, oggi, i risultati della stessa ricerca applicata ad una madre assunta “a tutele crescenti”, o cassiera in regime di voucher in un grande magazzino o addetta alle consegne di cibo a domicilio?
Il timore di un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo assistito nel migliore dei casi da un miserrimo indennizzo, la paura di essere “disconnessa” dall’oggi al domani e senza giustificazione alcuna dalla “app” che gestisce il sistema delle consegne, la prospettiva di non poter utilizzare i voucher nel periodo della maternità che effetto potranno esercitare sulla scelta della lavoratrice di accudire il proprio figlio e, conseguentemente, sullo sviluppo linguistico dello stesso?
Domande retoriche che svelano dinanzi a noi, in contrasto con la propaganda dei cortigiani del Principe, un paesaggio sconcertante.
E’ il deserto del totalitarismo neoliberista il cui homo novus (homo oeconomicus)[4], soggetto completamente individualizzato e totalmente chiuso nell’angusto recinto del proprio interesse economico (interesse ormai assurto a misura universale della razionalità moderna), appare incapace di dialogare, avendo quasi del tutto atrofizzata la funzione del linguaggio, ridotto a meri simboli (emoticon) e a monosillabiche espressioni: la frenesia del calcolo si sostituisce alla riflessiva lentezza del dialogo.
Del resto, se è vero che la parola è espressione del pensiero (tanto che i Greci ne esprimevano l’unione in un unico termine, il logos), l’atrofia del linguaggio reca con sé l’inevitabile impoverimento del pensiero.
Sono gli analfabeti del Jobs Act, inerme generazione alla mercé di una tanto cinica quanto spregiudicata “mano invisibile”.
NOTE
[1] R. Bonato, La famiglia flessibile – Gli effetti transgenerazionali della flessibilità lavorativa: il caso di MIlano, Milano, Franco Angeli, 2016.
[2] R. Bonato, La famiglia flessibile, cit., p. 8-9.
[3] R. Bonato, La famiglia flessibile, cit., p. 94.
[4] Si rimanda alla illuminante analisi di Frank Schirrmacher in Ego. Gli inganni del capitalismo, Torino, Codice Edizioni, 2015.
(24 ottobre 2016)